La regista ha presentato il suo ultimo lavoro in concorso alla Festa del cinema, “A casa nostra”, feroce denuncia morale. Ma c’è chi fischia
Prima fra polemiche, Comencini accusa l’Italia dei furbetti
di Boris Sollazzo (www.liberazione.it, 21.10.2006)
Francesca Comencini non si nasconde. Presenta alla Festa del Cinema di Roma il suo A casa nostra, problematico, complesso e imperfetto, con grinta e passione. Si nasconde, invece, un manipolo di pseudocritici alla proiezione stampa che al buio fischia rumorosamente e, poi, non parla. Più che una protesta, legittima, un agguato, peraltro vigliacco.
Unico film in concorso ad aver suscitato questa reazione, per molti motivi. Il tema, l’Italia del denaro sporco e immeritato, è forte e spinoso. Una ferita aperta, come afferma la regista. «Mi premeva fare questo film - nelle sale dal 3 novembre in circa 150 copie - lo trovavo necessario. Dobbiamo raccontare questo paese, abbiamo delegato troppo questo compito alla tv. E’ un atto d’amore per un’Italia che ha subito troppi strappi. Per ricostruire dei legami dobbiamo guardare dentro le nostre ombre, levare le maschere. Quando il cinema fa questo, spesso rende migliore la realtà».
Questo è sicuramente un grande merito dell’opera. Ci vuole coraggio per affrontare certi temi. «Ci vuole coraggio a non affrontarli - riprende determinatissima - e anche a fischiarli. Il dissenso e il dibattito sono ben accetti, traggo sempre interessanti riflessioni anche dalle cose negative. Bisogna pensare a quanto sia difficile fare certi film, a quante sceneggiature di questo tipo vengano respinte. Trovare i finanziamenti è stato molto lungo e difficile. Mi piacerebbe essere più lieve: se avessi fatto una commedia sentimentale non avrei avuto alcun problema».
Invece racconta la storia di tanti furbetti che desiderano scalare società attraverso impuniti insider trading. Il capo di questi criminali con i guanti bianchi e l’anima nera è Ugo, Luca Zingaretti, sfacciato, quasi ingenuo, nel suo sentirsi onesto. «Ma come? - dice in una battuta tratta da un’intercettazione realmente avvenuta, frutto della consulenza tecnica del giornalista Gianni Barbacetto -. Ho la banca, ho i soldi e non posso farci quello che voglio?». Il suo referente e protettore politico è il Presidente, un leghista berlusconizzato, un ottimo Bebo Storti. Accanto a lui arrivisti e traffichini. Bellissima e forte la prima scena del film: il losco gruppo al tavolo di un ristorante raffinato dal menu impossibile, scherza e parla di calcio. Battute fulminanti, riprese a singhiozzo, un piccolo affresco della loro arroganza e vacuità. Subito dopo progettano il colpo, il crimine finanziario. Ricorda Le iene di Quentin Tarantino, riprendendone la folgorante efficacia. Così va avanti la prima mezz’ora, incalzante e non banale.
Poi il film comincia a perdere colpi, in una storia corale in cui i sentimenti, spesso stereotipati, prendono il sopravvento sul ritratto etico-politico. Sembra perdersi la Comencini, quasi rinunciare alla grandezza del suo progetto. «Oggi è difficile raccontare questo paese - dice -. Ma non è giusto che proprio “a casa nostra” dobbiamo sentirci estranei. La realtà attuale è potente e sfuggente, non come l’Italia passata, che aveva una sua faccia e una sua antropologia, in cui era più facile schierarsi».
Ma sembra un film strozzato, forse dalle difficoltà produttive, forse dall’impossibilità, evidente anche ne Il caimano, del cinema italiano attuale di tratteggiare questo paese come in passato sapeva fare un Elio Petri.
I ritratti, pur caricaturali, dei finti potenti si smorzano. Il tema del denaro, immorale perché non frutto del lavoro - tema caro all’autrice - passa in secondo piano. La parte più femminile del film, paradossalmente, è la meno riuscita. «Ho voluto raccontare come il denaro illecito abbia come conseguenza immediata un atteggiamento sprezzante verso la donna, come stia peggiorando l’immagine e l’orizzonte della femminilità». Lo fa, però, con stereotipi santificanti, e quindi irreali: la prostituta redenta, la modella amante del potente ma romantica (Laura Chiatti), la brava moglie, la donna lavoratrice, e quindi sola (Valeria Golino, qui capitano della Guardia di Finanza).
Tutte hanno la maternità come pietra angolare e limitante della propria identità. «L’amore è un bisogno assoluto - spiega - non è mancata emancipazione. Nella seconda parte io voglio ritornare al corpo, alle cose fondamentali. Non mi sono limitata, il film è venuto come volevo e ne sono felice. Non c’è un minuto di questo film che non sia frutto di un lavoro persino ossessivo». Forse troppo, tanto che il lungometraggio è più bello da “leggere” che da vedere. Un film non riuscito ma non da fischiare. La maggioranza silenziosa che non si mette in gioco, dai registi ai giornalisti, quella sì merita fischi.