FILOSOFO FRANCO VOLPI IN COMA PER INCIDENTE *
VICENZA - Lo storico della filosofia Franco Volpi lotta fra la vita e la morte nel reparto Rianimazione dell’ospedale di Vicenza in seguito a un incidente stradale di cui è rimasto vittima ieri mentre era in sella alla sua bicicletta.
L’incidente è avvenuto intorno all’ora di pranzo a San Germano sui Berici (Vicenza), ma Volpi, che abita a Vicenza, dove è nato nel 1952, era senza documenti ed è stato identificato solo in tarda serata dai carabinieri.
Il docente, ordinario di Storia della filosofia all’Università di Padova, é un cicloamatore e ieri mattina era uscito da solo in sella alla sua bicicletta da corsa per un giro sui colli Berici.
L’incidente è avvenuto a un incrocio quando Volpi, per cause in corso di accertamento, si è scontrato con una Toyota Corolla che usciva da uno stop. Nella rovinosa caduta il professore ha battuto la testa sull’ asfalto riportando un gravissimo trauma cranico ed è stato trasportato in ospedale con un elicottero di Verona Emergenza. Le sue condizioni sono apparse subito gravissime.
Franco Volpi, nato a Vicenza nel 1952 e docente di Storia della filosofia all’Università di Padova, ha dedicato i suoi studi principalmente alla filosofia tedesca, sin dalla prima pubblicazione (Heidegger e Brentano: l’aristoltelismo e il problema dell’univocità dell’essere nella formazione filosofica del giovane Martin Heidegger - 1976), sempre attento anche alle moderne implicazioni e correlazioni con la psicologia come con le scienze.
Oltre a aver firmato il terzo volume della Storia della Filosofia edita da Laterza nel 1991, ha poi pubblicato, tra l’altro, Sulla fortuna del concetto di Decadence nella cultura tedesca (1995) spostando il suo interesse anche sul problema de Il nichilismo (1996), affrontato in un’accezione ampia, con risvolti storici e socio-culturali.
Franco Volpi, che è stato Visiting professor nell’Università Laval di Québec (1989) e in quelle di Poitiers (1990) e di Nizza (1993), è traduttore di classici della filosofia tedesca e consulente per la sua materia della casa editrice Adelphi. E’ noto anche a un pubblico di non specialisti come collaboratore del quotidiano La Repubblica.
Ansa» 2009-04-15 10:28
MORTO FILOSOFO FRANCO VOLPI, ESPIANTATI ORGANI
VICENZA - E’ morto il filosofo Franco Volpi, 57 anni, vittima lunedì di un incidente stradale a San Germano dei Berici (Vicenza), mentre era in sella alla sua bicicletta. Al filosofo, come è stato confermato da fonti dell’ospedale di Vicenza, sono stati espiantati tutti gli organi utili, ma non sono stati specificati quali per motivi di privacy. Già nel tardo pomeriggio di ieri era cominciato il periodo di osservazione per la dichiarazione della morte cerebrale e il conseguente avvio della pratica per l’espianto degli organi.
Il pm vicentino Angela Barbaglio, nel frattempo, ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di omicidio colposo per l’automobilista che ha travolto Volpi. Secondo una prima ricostruzione dei carabinieri, l’automobilista alla guida della Toyota sarebbe uscito da uno stop all’incrocio investendo così Volpi. Le condizioni del docente, ordinario di Storia della filosofia all’Università di Padova, erano apparse subito gravissime. Ricoverato nel reparto di terapia intensiva, non ha potuto essere operato perché le sue condizioni cliniche non lo permettevano.
L’inedito di Franco Volpi censurato da Hermann Heidegger *
Riportiamo qui di seguito parte di una lettera di Franco Volpi, morto prematuramente martedì scorso, ad Armando Massarenti - nel quadro di uno scambio in occasione della pubblicazione del volume di scritti heideggeriani che Massarenti aveva curato per il Sole 24 Ore - in cui lamentava la censura degli eredi sulla introduzione ai Beiträge di Heidegger (Contributi alla filosofia, traduzione di Franco Volpi e Alessandro Iadicicco, Adelphi 2007):
«Caro Massarenti, (...) Al mio ritorno [da Santiago del Cile] ho parecchie cose da raccontarti: la mia introduzione ai Beiträge (che stanno uscendo da Adelphi) è stata considerata troppo critica dal figliastro di Heidegger e censurata. È ancora in corso una trattativa per tentare di salvare capra e cavoli (dunque ti pregherei di mantenere ancora assoluto riserbo sulla questione), ma davvero mi viene voglia di seguire l’esempio di Maurizio Ferraris e scrivere un libello: Good-bye Heidegger. A Santiago del Cile, dove vado per una conferenza di chiusura al congresso di fenomenologia ed ermeneutica, volevo parlare di Heidegger e Wittgenstein, ma ho deciso cambiare tema e ho dato come nuovo titolo proprio questo: Good-bye Heidegger. La mia introduzione censurata ai Beiträge».
Era l’11 ottobre 2007. Qualche tempo più tardi, il 18 novembre, dopo ulteriori scambi, Franco Volpi spedì a Massarenti il brano più significativo che era stato censurato, rimasto finora inedito. Lo proponiamo qui per la prima volta. È un paragrafo dell’introduzione ai Contributi alla filosofia intitolato «Naufrago nel mare dell’Essere».
I «Contributi alla filosofìa»? «Il diario di un naufragio. Avventurandosi troppo in là nei mari dell’Essere, il suo pensiero va a fondo». L’esperienza di Nietzsche vuota le metafore di Heidegger, tarpa i suoi slanci, mina alle fondamenta la costruzione dei Contributi alla filosofia. È forse un caso che Heidegger ponga in esergo ai due volumi dedicati a Nietzsche (1961) una epigrafe tratta dall’Anticristo che corrisponde esattamente alla conclusione dei Contributi? Questi terminano con una "fuga" che tratta dell’ultimo Dio, il primo capitolo del Nietzsche si apre con la citazione: «Quasi due millenni e non un solo nuovo dio!».
Forse Heidegger non è più riuscito a risollevarsi filosoficamente dal de profundis di Nietzsche. Nella triste luce dell’esaurimento, l’Essere - quest’ospite solitamente fugace dei nostri pensieri - rimane per il grande Heidegger l’ultima chimera che valga la pena di sognare. Tutti i suoi sforzi mirano a quest’unica meta, l’Essere, ma i sentieri si sono interrotti. La sua intermittente sperimentazione filosofica e il suo "procedere tentoni" in questo sogno hanno prestato il fianco a critiche da far tremare i polsi. Heidegger rifiuta la razionalità moderna con lo stesso gesto sottomesso con cui ne riconosce il dominio, richiama la scienza che "non pensa" ai suoi limiti, demonizza la tecnica fingendo di accettarla come destino, fabbrica una visione del mondo catastrofìsta, azzarda tesi geopolitiche quanto meno avventurose - l’Europa stretta nella morsa tra americanismo e bolscevismo - soffiando sul mito greco-germanico dell’originario da riconquistare. Anche le sue geniali sperimentazioni linguistiche implodono, e assumono sempre più l’aspetto di funambolismi, anzi, di vaniloqui. Il suo uso dell’etimologia si rivela un abuso (...). La convinzione che la vera filosofia possa parlare soltanto in greco antico e tedesco (e il latino?), una iperbole. La sua celebrazione del ruolo del poeta, una sopravvalutazione. Le speranze da lui riposte nel pensiero poetante, una pia illusione. La sua antropologia della Lichtung, in cui l’uomo funge da pastore dell’Essere, una proposta irricevibile e impraticabile. Enigmatico non è tanto il pensiero dell’ultimo Heidegger, bensì l’ammirazione supina e spesso priva di spirito critica che gli è stata tributata e che ha prodotto tanta scolastica.
Certo, i comuni mortali spesso deridono le soluzioni del filosofo solo perché non capiscono i suoi problemi. Dunque non è affatto detto che queste critiche colgano nel segno. Ma se fosse così, allora i Contributi alla filosofia sarebbero allora davvero il diario di bordo di un naufragio. Per avventurarsi troppo in là nel mare dell’Essere, il pensiero di Heidegger va a fondo. Ma come quando a inabissarsi è un grande bastimento, lo spettacolo che si offre alla vista è sublime.
* Il Sole 24 Ore, domenica 19.O4.2009
Un ricordo del filosofo Franco Volpi
La ragionevole prudenza del pensiero
di Enrico Berti
Il 14 aprile scorso è morto Franco Volpi, uno tra i più apprezzati filosofi italiani. Il giorno prima, lunedì di Pasqua, si era recato a fare un’escursione in bicicletta sui Colli Berici, vicini alla sua Vicenza, quando è stato investito da una macchina. Ha perso la coscienza e non l’ha più riacquistata, spirando il giorno seguente. Avrebbe compiuto 57 anni il 4 ottobre, giorno di san Francesco, da cui aveva preso il nome, anche se poi veniva chiamato Franco. Volpi aveva studiato nel liceo Antonio Pigafetta di Vicenza, dove ebbe come professore Giuseppe Faggin, che fece nascere in lui la passione per la filosofia e il gusto di studiare filosofi come Nietzsche e Heidegger. Si laureò in filosofia a Padova con una tesi su Heidegger e Brentano, suggeritagli da chi scrive, dopo la pubblicazione della famosa lettera al padre Richardson, in cui Heidegger dichiarava di essersi formato alla filosofia attraverso la lettura del libro di Brentano sui molteplici significati dell’essere in Aristotele. Fu poi borsista, ricercatore, professore associato e professore ordinario di Storia della filosofia a Padova, ma contemporaneamente si fece conoscere per i suoi studi nel mondo intero, e fu chiamato a insegnare a Witten-Herdecke in Germania, all’università Laval nel Québec, a Bogotá in Colombia, alla Staffordshire University in Inghilterra, nonché in Francia (Parigi, Nizza, Poitiers), Svizzera (Lucerna), Messico, Cile e Argentina.
Col libro su Brentano (1976) Volpi iniziò un primo filone della sua ricerca, che lo avrebbe portato a pubblicare dopo qualche anno Heidegger e Aristotele (Padova, 1984), che insieme con numerosi articoli in varie lingue sul medesimo argomento lo rese famoso per avere mostrato quanto Heidegger si fosse servito di Aristotele, appropriandosi delle sue dottrine in modo definito dallo stesso Volpi "vorace", e al tempo stesso criticandone l’intero sistema come colpevole di avere inaugurato la metafisica quale "onto-teologia". Volpi mostrò che in tutta la sua vita Heidegger aveva ricercato il significato fondamentale dell’essere in ciascuno dei significati distinti da Aristotele. Nel suo periodo "cattolico" infatti egli aveva identificato l’essere con la sostanza; nel suo periodo fenomenologico l’aveva identificato con l’essere vero, inteso come "non-occultezza"; infine dopo la "svolta" del 1930 l’aveva identificato prima con la potenza e poi con l’atto, inteso come "evento". Ma Volpi mostrò anche che nel suo capolavoro, Essere e tempo, Heidegger aveva ripreso da Aristotele i concetti fondamentali della sua analitica dell’esistenza, cioè la distinzione tra theorìa, pòiesis e pràXIs, da lui interpretata come distinzione tra Vorhandenheit, Zuhandenheit e Dasein, il concetto di prohairesis, da lui interpretato come Entschlossenheit, e quello di phronesis, da lui interpretato come Gewissen.
Un secondo filone delle ricerche di Volpi fu la scoperta della "rinascita della filosofia pratica", avvenuta in Germania negli anni Sessanta e Settanta del Novecento a opera di Gadamer, Ritter, Hennis, Bubner, Höffe e altri - ma preceduta negli Usa dagli esuli tedeschi Hannah Arendt, Strauss e Vögelin - e diffusasi poi in tutta Europa e in America a opera di MacIntyre, Taylor, Martha Nussbaum e altri. Volpi la fece conoscere in Italia, in Francia e in tutta l’America Latina, e aderì personalmente a una delle due linee direttive in cui tale rinascita si andava sviluppando, cioè quella che si richiamava alla filosofia pratica di Aristotele - l’altra si richiamava a Kant.
Un terzo filone delle ricerche di Volpi fu il nichilismo, a cui egli dedicò un fortunato volume nel 1996 (Laterza), ripubblicato in una nuova edizione riveduta e accresciuta nel 2004. In esso egli ricostruiva le vicende del nichilismo nei romanzieri russi dell’Ottocento, in Stirner, Nietzsche, Heidegger, Jünger, Schmitt, Kojève, Gehlen, concludendo il lavoro con un capitolo dal titolo "Oltre il nichilismo?", che si chiude nel modo seguente: "il nichilismo ha corroso le verità e indebolito le religioni; ma ha anche dissolto i dogmatismi e fatto cadere le ideologie, insegnandoci così a mantenere "quella ragionevole prudenza del pensiero", che ci rende capaci di navigare a vista tra gli scogli del mare della precarietà". Nelle parole dell’autore è trasparente l’allusione alla phronesis di Aristotele.
Ma Volpi fu anche uno straordinario organizzatore di cultura: egli ha curato la pubblicazione del Grosses WerkleXIkon der Philosophie (Stuttgart, 1999), ripubblicato in italiano in formato ridotto (Milano, 2002) e in spagnolo in edizione ampliata (Enciclopedia de obras de filosofía, Barcelona, 2005), con la collaborazione di più di trecento studiosi di tutto il mondo. Inoltre ha diretto l’edizione italiana di tutte le opere di Heidegger e di tutte le opere di Schopenhauer per la casa editrice Adelphi, traducendone alcune lui stesso (i Segnavia e il Nieztsche di Heidegger) e aggiungendo a tutte prefazioni, postfazioni o preziosi lessici. Nel caso di Schopenhauer ha fatto tradurre opere minori che hanno avuto grande successo, rivelando un volto del filosofo poco noto. Infine ha scoperto e curato la pubblicazione di tutte le opere di un filosofo colombiano pressoché ignoto, Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), che presenta singolari affinità con Nietzsche.
Nato da famiglia cattolica, come quasi tutti i vicentini, Volpi aveva perduto la fede della sua infanzia, ma non per questo era chiuso nei confronti della religione, come ha ricordato anche il vescovo Nonis nella sua omelia funebre. Benché sia stato un grande specialista di Heidegger, non era heideggeriano, anzi rimase deluso dall’ultimo Heidegger, come risulta da una pagina della sua Introduzione alla traduzione italiana dei Beiträge zur Philosophie, che gli eredi di Heidegger hanno censurato, ma che è stata pubblicata da "Il Sole 24 Ore" il 19 aprile 2009. In essa egli dichiara che "le speranza poste da Heidegger nel pensiero poetante si sono rivelate una pia illusione. La sua antropologia della Lichtung, in cui l’uomo funge da pastore dell’essere, si è rivelata una proposta irricevibile e impraticabile". E conclude che è enigmatico non tanto il pensiero dell’ultimo Heidegger, quanto l’ammirazione supina e priva di spirito critico che gli è stata tributata.
Benché sia stato uno specialista del nichilismo, Volpi non era nichilista, come abbiamo visto, ma considerava il nichilismo utile solo per spazzare via i dogmatismi e si chiedeva se fosse possibile andare oltre il nichilismo. Benché formato in una scuola di metafisica classica, quale era l’università di Padova con Marino Gentile e i suoi allievi, egli non aderiva alla metafisica di Aristotele, ma solo alla sua filosofia pratica. Tuttavia ha concluso uno dei suoi ultimi saggi, La maravilla de las maravillas: que el ente es (2006), con la definizione della filosofia data da Marino Gentile - significativamente nemmeno citato - "un domandare tutto che è tutto domandare", la quale mostra come egli, benché non fosse credente, non escludeva la possibilità della trascendenza e quindi della fede.
(©L’Osservatore Romano - 28 maggio 2009)
Franco Volpi, storico delle idee che non fece sconti a Heidegger
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 16.04.2009)
Il miracolo non c’è stato. E i medici dell’ospedale di Vicenza hanno dichiarato la sua morte clinica. Franco Volpi, storico della filosofia, se ne è andato. A seguito di un tragico incidente in bicicletta nel giorno di Pasquetta sui colli Berici a due passi da Vicenza, dove era nato nel 1952. Una perdita davvero dolorosa per chi lo ha conosciuto, per gli allievi della sua cattedra di Storia della filosofia a Padova. E anche per i tanti cultori di filosofia e lettori (collaborava a Repubblica) che ne apprezzavano la freschezza intellettuale. La capacità divulgativa e il temperamento vitale e curioso di tutto.
Plotino e Aristotele
Grazie a Volpi, massimo traduttore di Heidegger in Italia di cui curava l’Opus per Adelphi, è stato possibile percorrere tutti gli angoli del filosofo di Messkirch. Guadagnando alla conoscenza rigorosa un pensatore controverso e ambivalente. Verso il quale Volpi non serbava nessun timore reverenziale, e nessuna fascinazione subalterna. Impegnato come era a fornirne, tramite una traduzione impeccabile, un’interpretazione originale.
Allievo di Giuseppe Faggin e di Enrico Berti, aveva cominciato sui testi di Plotino e di Aristotele la sua avventura di storico della filosofia, inseparabile dall’ermeneutica e dal tradurre. E anello di congiunzione tra gli esordi e gli interessi della maturità, era stato Brentano. Con la sua psicologia trascendentale intessuta ai temi della temporalità e della «coscienza del tempo». Temi «pre-fenomenologici» e husserliani, che stanno alle origini della formazione di Heidegger. E alle fonti del problema dell’Essere, da Heidegger riversato e risolto in Essere e Tempo, la celebre opera del 1927.
Heidegger (oltre a Nietzsche e Schopenhauer) come fulcro dell’ermeneutica di Volpi, di cui restano come exempla le numerose curatele e i saggi che andava raccogliendo attorno alle sue traduzioni. Essere e tempo appunto, il glossario di Segnavia, la post-fazione al Nietzsche heideggeriano e quelle alla Fenomenologia dela vita religiosa e al Principo di ragione, per citarne alcuni. Ne risultavano schiarimenti fondamentali. Sullo Heidegger «analitico esistenziale» prima della «Svolta», e lo Heidegger del «dopo», che sceglie di far parlare l’Essere sulle rovine della tradizione filosofica e del Moderno. In un costante tentativo da parte del filosofo tedesco di «risignificare» - come diceva Volpi - quella tradizione, liberando la percezione originaria del Sein. Oltre la «deiezione» della Tecnica e del Nichilismo.
Heideggerista
E però Volpi era un «heideggerista» non heideggeriano. Che non faceva sconti al suo autore, che pure amava. E non li faceva sia sul tema della sua compromissione col nazionalsocialismo («Heidegger si illudeva di poterlo plasmare - ci disse nel 2002 su l’Unità - cavalcando la tigre e inserendolo nella sua ontologia... Equivoco di breve durata anche se non s’avvide subito del suo errore...»). Sia sul punto chiave del «superamento» heideggeriano della tecnica. Sul che Volpi affermava: «Era un ontologo che all’operare antepone l’Essere, dove il primo discende inevitabilmente dal secondo. Ma a ben guardare era anche un espressionista, un avanguardista del pensiero. Come Lucio Fontana in arte». E ancora: «Il discorso dell’ultimo Heidegger sull’impianto globalistico della tecnica è suggestivo e però inarticolato. Benché concettualmente coerente» (sempre su l’Unità del 19/4/2002).
Ma Volpi non fu solo eccellente storico della filosofia. Fu giramondo e visitig professor tra due continenti. E con Antonio Gnoli di Repubblica, ci ha regalato splendidi libri insoliti. Eccone alcuni. L’ultimo sciamano, conversazioni su Heidegger (Bompiani), Il dio degli acidi (Bompiani, con l’inventore dell’Lsd Hofmann). E una celebre intervista Adelphi con Juenger del 1997: I prossimi titani. Ben più che briciole, ma vere gemmme a riprova del suo invincibile stupore per la meraviglia delle idee e della vita.
Addio a Franco Volpi
Da Nietzsche a Heidegger la filosofia come passione critica
Ha tenuto lezioni da Padova agli Usa. Tra i suoi volumi quello dedicato al nichilismo. Il suo lavoro ha permesso l’edizione di testi fondamentali. Studioso, curatore, esegeta dei maestri della modernità. È scomparso ieri, vittima di un incidente stradale
di Sergio Givone (la Repubblica, 15.04.2009)
Raramente, come in Franco Volpi, il filosofo italiano a cui tutti dobbiamo tantissimo, sia come esegeta e curatore di grandi testi del pensiero moderno e contemporaneo, sia come indagatore di problemi storici e di questioni speculative, la passione e l’intelligenza si intrecciano così bene nel difficile lavoro dell’interpretazione. In lui l’acribia più rigorosa è tutt’uno con lo sguardo capace di portare alla luce non solo l’intenzione profonda dell’autore ma, al di là di essa, la parola non detta, la domanda nascosta, l’apertura di un nuovo orizzonte critico.
Esemplari sono le sue curatele, per Adelphi, di molte delle più importanti opere heideggeriane, alcune delle quali, e in particolare Segnavia, L’essenza della verità, e, in ultimo, i Contributi alla filosofia, rappresentano un modello insuperato di edizione da tutti i punti di vista: traduzione, note, apparati. Geniali le sue proposte, sempre per Adelphi, di opere minori di Schopenhauer, da cui ha saputo trar fuori quella accattivante miscela di filosofia popolare e filosofia alta che era nascosta in esse. Preziosa la sua monografia per Villegas Editores che accompagna l’Opera Omnia di un eccentrico di talento come Nicolás Gómez Dávila.
Allievo di Giuseppe Faggin, l’indimenticato studioso di Plotino, Volpi ha imparato fin dagli anni del liceo che quanto più si è interpreti fedeli e attenti, tanto più si è pensatori originali e in proprio. Appunto secondo l’esempio fornito da colui che più e meglio di chiunque altro trasmise all’occidente cristiano il lascito della filosofia classica. Plotino, che era greco di formazione, insegnava a Roma. Le sue lezioni si svolgevano per lo più in forma di commento e discussione delle tesi dei maestri del passato. Ma da quel suo esporre il pensiero altrui senza presunzione d’originalità sapeva ricavare approfondimenti che lasciano stupefatti per forza innovativa e capacità di penetrazione.
Qualcosa di simile si deve dire di Volpi. Ovunque egli tenesse cattedra (titolare in quelle di Padova e di Witten/Herdecke, oltre che visiting professor in alcune delle principali università europee e nordamericane), sempre si presentava quale in effetti era: storico della filosofia. Verrebbe da dire: filologo della filosofia. Ma filologo che sa la potenza e lo smalto della parola, oltre che la sua fallibilità: ciò che impone un di più di scrupolo, di dedizione, di "amore per il logos". Sono precisamente questi i tratti che caratterizzano l’impegno di Volpi, il suo limpido argomentare, il suo instancabile leggere e rileggere i testi. Ciò di cui il suo Dizionario delle opere filosofiche (Bruno Mondadori) è un’eloquente testimonianza.
E quando gli accade di confrontarsi con i grandi temi che abbracciano intere epoche storiche, allora il risultato inevitabilmente è di quelli che costringono a sostare e a riflettere. Si potrà non essere d’accordo con lui. Impossibile però ignorare le sue indicazioni. Prendiamo ad esempio il volume da lui dedicato ormai qualche anno fa a Il nichilismo (Laterza). È ancora attualissimo.
Volpi sa bene che il nichilismo è un fenomeno tipicamente moderno, sviluppatosi quasi interamente fra Ottocento e Novecento, e in quanto tale da indagare specialmente lungo l’asse Nietzsche-Heidegger. Ma sa anche che questo fenomeno viene da lontano, visto che alla sua radice c’è l’esperienza del nulla. Si può ignorare questa esperienza? O chi la ignorasse - chiede Volpi citando uno dei suoi maestri - non si metterebbe senza speranza fuori della filosofia? C’è tutto Volpi, in questo rilanciare le grandi questioni. E cioè nel suo restare in ascolto delle voci parlano dalle profondità di una tradizione tutt’altro che finita. Ma anche nel suo coraggioso riproporcele. E pensando a lui, al suo pensiero così aperto e vero, ci viene naturale farlo al presente, non al passato.
Spirito inquieto e anti-accademico
Cinquantasette anni, visse l’università con insofferenza, estraneo al potere
Cominciò a collaborare a "Repubblica" con un articolo sull’autore dello "Zarathustra"
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 15.o4.2009)
Franco Volpi è morto. E il primo pensiero va alla lunga amicizia che ci ha legato nel corso degli anni. Guardo con gratitudine a quel legame che è stato intenso e singolare. Il professore e il giornalista. C’eravamo conosciuti in occasione di una polemica che aveva diviso la scena filosofica italiana e che riguardava Nietzsche e il suo presunto testo La volontà di potenza. Mi colpì l’intervento che Volpi fece su queste pagine: demoliva i colpevolisti - coloro che imputavano a Nietzsche la sciocchezza di essere un nazista ante litteram - con garbo e competenza. Dietro lo stile preciso e l’argomentazione esauriente si scorgeva un’inquietudine antiaccademica che col tempo imparai a conoscere.
Gli chiesi se avesse voglia di collaborare con Repubblica e mi rispose che per lui sarebbe stato come evadere da una gabbia. Visse l’università con insofferenza: si sentiva estraneo alle beghe accademiche, ai rapporti di potere, ai programmi normalizzanti. Eppure era all’apparenza un tradizionalissimo filosofo venuto su con il pane di Aristotele e di Plotino, con i timidi affacci in Germania, dove aveva cominciato a specializzarsi su Heidegger.
Del filosofo della Selva Nera sapeva tutto, aveva letto tutto, frugato negli archivi, conosciuto le persone che gli erano state vicine e che potevano offrire una testimonianza di prima mano. Come il figlio Hermann, che andammo a trovare in una giornata di sole pallido, mentre tornavamo da Wilflingen, dove il giorno prima avevamo incontrato Ernst Jünger. Lungo la strada Volpi mi disse: «Sai, da queste parti abita il figlio di Heidegger. Non c’entra nulla con la filosofia, però gestisce l’intera eredità spirituale del padre». Gli chiesi se si poteva intervistare. Rispose che era molto difficile, e che aveva sempre rifiutato di incontrare i giornalisti. «Forse farà un’eccezione se sei tu a chiederglielo», replicai. Ci fermammo a pochi chilometri da Friburgo davanti a una cabina telefonica. Volpi lo chiamò e, con sorpresa di entrambi, Hermann Heidegger ci ricevette il giorno dopo.
Quell’intervista fece il giro del mondo. Se ripenso ai nostri viaggi, in Germania, in Francia, in Italia, mi torna in mente la sua velocità di pensiero. Sembrava un elfo contagiato dall’inquietudine. Credo si sentisse libero solo in movimento. Poteva coprire in macchina migliaia di chilometri su e giù per l’Europa - ha insegnato in molte università - o in aereo al di qua e al di là degli oceani, senza risentirne. Non so come facesse: un seminario a Nizza, una lezione a Jena, un convegno a Buenos Aires. Era un filosofo poliglotta.
Non ho mai conosciuto nessuno che avesse la versatilità per le lingue che aveva Volpi. Di tutti i viaggi fatti, di tutte le persone incontrate, di tutte le esperienze condivise - i luoghi, gli individui, i libri - mi resta chiarissima una frase che amava ripetere: «Sbagliano quelli che pensano che la vita si spiega con la filosofia. Per quanti sforzi il pensiero faccia, il risultato è sempre lo stesso: la filosofia arranca dietro la vita che se la ride». Volpi pensava da filosofo, ma agiva da uomo che vede il mondo andare in tutt’altra direzione.
Era convinto che i filosofi avessero perso la curiosità, il gusto di meravigliarsi, di lasciarsi sorprendere, di gioire del nuovo. Credevano di avere in pugno il mondo e avevano in pugno solo se stessi.
Pochi giorni fa ci sentimmo per un articolo sulle posizioni espresse dal Papa su Nietzsche. Fu puntuale come al solito. La nostra amicizia cominciò con Nietzsche e si è interrotta con lui. Continueremo a seguire da lontano gli amici che se ne vanno. La loro morte è parte della nostra morte che si annuncia attraverso il lutto e il dolore. Ma è anche la vita che ci donano come esempio e ricordo. È l’immagine che si fa traccia, che supera il pianto e ci fa dire: ho avuto la fortuna di conoscerti.
Franco Volpi, la filosofia al di là del nichilismo
Lo studioso di Heidegger, travolto in bicicletta da un’auto, si è spento ieri sera a Vicenza
di Armando Torno (Corriere della Sera, 15.04.2009)
Franco Volpi era nato a Vicenza nel 1952 e insegnava Storia della filosofia all’Università di Padova. È morto in un incidente stradale (lunedì era in bicicletta sui monti Berici, è stato travolto da un’auto), come Roland Barthes. Al suo nome sono legati, oltre a libri di alta e buona divulgazione, gli studi sul nichilismo, sul pensiero tedesco moderno e contemporaneo, e soprattutto il corpus delle opere di Martin Heidegger pubblicate da Adelphi. Volpi ha fatto molto per la cultura italiana e per la diffusione della filosofia in un periodo in cui l’antica disciplina di Platone e Aristotele è diventata una passione popolare. Cerchiamone il ritratto aprendo semplicemente i suoi libri.
Fu uno dei migliori allievi dell’«aristotelico» Enrico Berti, anzi è stato il più contemporaneista tra loro: ha esordito con il saggio Heidegger e Brentano (Cedam, 1976) e con il suo maestro ha firmato il terzo volume di una Storia della filosofia (Laterza, 1991) che conobbe una certa fortuna nei licei italiani.
Aveva la vocazione dell’organizzatore oltre che quella dello studioso. Sotto questo aspetto va elogiato per il Dizionario delle opere filosofiche (Bruno Mondadori, 2000) che reca il suo nome al frontespizio, ma si avvale di decine e decine di collaboratori per le singole voci. Di più: Volpi, insieme ad altri, curò nel 1988 l’edizione tedesca di questo Lexicon der philosophischen Werke, poi ampliata nel 1999; infine la sistemò per gli italiani. Le polemiche corse all’uscita sono ormai evaporate e oggi ci rendiamo conto che l’aver dimenticato - o volutamente non ospitato - i Principles of Mathematics di Bertrand Russell, non è peccato che richiede assoluzioni speciali.
Del resto, la sua eccellente conoscenza del tedesco lo portò a realizzare l’edizione italiana di alcune tra le più importanti opere di Heidegger. Se oggi riusciamo a leggere - e in Italia i professori che possono permettersi la lingua originale sono davvero pochi - pagine fondamentali di questo filosofo, dobbiamo ringraziare Franco Volpi. Senza di lui non avremmo nella prestigiosa «Biblioteca filosofica» Adelphi opere di Heidegger quali Segnavia, Parmenide, L’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul «Teeteto » di Platone, gli importanti Contributi alla filosofia o I concetti fondamentali della filosofia antica.
Certo, c’è stato anche un Volpi che si impegnava a diffondere, attraverso la collaborazione a Repubblica, le idee filosofiche (e con Antonio Gnoli firmò, tra l’altro, L’ultimo sciamano, Bompiani) o quello che si concedeva il lusso di arricciare il naso dinanzi alla nuova traduzione di Essere e tempo di Heidegger realizzata da Alfredo Marini (Mondadori), e riproponeva la vecchia versione di Pietro Chiodi, limitandosi ad aggiungere degli apparati critici alla fine.
Franco Volpi rimarrà per il suo saggio su Il nichilismo (Laterza). Si legge facilmente e insegna che la crisi della ragione, la perdita del centro, la decadenza dei valori si presentano a noi ogni giorno con il proprio nome o sotto altre sembianze. Nietzsche definiva tutto ciò «ospite inquietante». Si aggira in casa nostra ed è quasi impossibile metterlo alla porta. Anche se Volpi era convinto che prima o poi se ne sarebbe andato e preparava, per questo, una prospettiva «oltre il nichilismo
Così naufragò il grande bastimento di Heidegger
Volpi «La selvaggia chiarezza»: gli scritti che delucidano il percorso del filosofo tedesco
"La radicalità filosofica diventa vaniloquio, rifiuto della razionalità, visione catastrofica mal argomentata"
Franco Volpi LA SELVAGGIA CHIAREZZA. SCRITTI SU HEIDEGGER Adelphi, pp. 336, 16
Franco Volpi Il filosofo è scomparso nel 2009
di Franca D’Agostini (La Stampa TuttoLibri, 12.11.2011)
La selvaggia chiarezza, raccolta degli scritti su Heidegger di Franco Volpi, curata da Antonio Gnoli, è un libro importante per più ragioni, ma anzitutto perché mette in luce una questione cruciale, a cui dovrebbero essere interessati non soltanto gli heideggeriani, ma anche i filosofi analitici, e chiunque lavori in filosofia con la coscienza critica di quel che sta facendo, può fare e vuole fare. La questione è ben espressa nel titolo doppio dell’ultima importante opera di Heidegger, a cui è dedicato l’ultimo scritto della raccolta: Dall’evento. Contributi alla filosofia. Perché mai Heidegger adottò il doppio titolo? Perché non limitarsi al suggestivo Vom Ereignis o al minimalista Beiträge zur Philosophie? La diagnosi di Volpi, espressa con la pacatezza elegante e profonda che gli era caratteristica, è che Heidegger intendeva «tenere distinta la superficie, la facciata pubblica, da ciò che vi si nasconde». In altri termini: la filosofia è la domanda, la facciata pubblica, l’evidenza che ci interroga, e «dall’evento» è la risposta.
La questione cruciale è dunque chiara, e accompagna tutta l’opera di Heidegger, direi di più: accompagna quasi tutta la filosofia del Novecento. Si tratta del senso e del destino della filosofia, disciplina accademica, sapere istituito insieme agli altri, ma il cui stesso nome è improprio, implicando con il fileo una passione imbarazzante, e con la sofia una pratica di pensiero ed esercizio di vita tipicamente pre-scientifico e pre-accademico. Per di più, essendo la filosofia tecnicamente legata all’ esplorazione di concetti vasti e linguisticamente complessi, come essere, verità, giustizia, bellezza, ecc., diventa difficile pensarla in un’epoca in cui concetti di questo genere nella cultura comune, nella scienza, e nella vita pubblica, sembrano essere ormai «gli ultimi fumi della svaporante realtà», come scriveva Nietzsche.
In questa prospettiva si apre un modo di leggere Heidegger, ma più in generale la filosofia contemporanea, che ha orientato il lavoro di Volpi, un filosofo sottile e uno storico della filosofia, oltre che traduttore e interprete di Heidegger, purtroppo prematuramente scomparso. Chi è infatti Heidegger, per noi? L’ambiguo pensatore quasi-nazista; l’oscuro rimescolatore di carte concettuali, creatore di etimologie lambiccate e sbrigative analogie, interprete confuso e confondente dei grandi filosofi, maestro di tutti gli impasticciatori di professione che in suo nome e lanciando a casaccio le sue parole d’ordine hanno gettato nel fango e nella disperazione la grande tradizione della filosofia tedesca. Ma Heidegger, come Volpi ci insegna, è stato anche un pensatore «onesto», profondamente onesto nei confronti della filosofia. Anzi proprio tutte le sue bizzarrie espressive e i suoi argomenti imperfetti sono la testimonianza di un problema avvertito autenticamente. Non per nulla un periodo di crisi sopraggiunge per Heidegger negli anni 1936-46, quando medita il suicidio. Al centro della crisi, ricorda Gnoli nell’introduzione, non è tanto l’esperienza del nazismo ma il confronto con Nietzsche, che culmina con il Nietzsche , l’opera del 1961.
Trascurare il nazismo per preoccuparsi della filosofia fu la speciale insensatezza del lavoro heideggeriano. La prima grande opera di Heidegger, Essere e tempo (1927), si era interrotta «per il venir meno del linguaggio». L’operazione di «dire l’essere dal punto di vista dell’essere» risultava fallimentare, visto che comunque nel dire usiamo il linguaggio della tradizione filosofica, ed è quel linguaggio che secondo l’autore consegna l’essere all’oblio.
Di qui in avanti, Heidegger tenta nuove vie: «oltrepassare la metafisica»; abbandonare «il soggetto»; abbandonare «la filosofia» stessa; cercare una nuova lingua per il pensiero, una lingua «poetante», o «meditante». O anche: cogliere l’essere come evento della «provenienza», di cui il von è espressione. Ma a mano a mano la radicalità filosofica di Heidegger diventa vaniloquio, rifiuto della razionalità, visione catastrofica mal argomentata. E in ultimo, spiega Volpi, il «grande bastimento» del pensiero heideggeriano s’inclina, irreparabilmente, e va incontro a un clamoroso naufragio.
Spiegare Heidegger (finalmente)
Quei saggi che svelano il filosofo esoterico
Una raccolta di testi di Franco Volpi sul pensatore tedesco permettono di chiarire le sue idee e i suoi concetti
Troppo spesso si è giocato a ricalcare i termini tedeschi: un vezzo che ha impedito a tanti di leggerlo davvero
Le tormentate vicende esistenziali aiutano a capire un personaggio difficile e sfuggente
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 12.11.2011)
Tradurre Heidegger, per Volpi, ha significato inoltrarsi nel vasto territorio della filosofia che il "mago di Messkirch" aveva percorso e mutato. Senza tuttavia dimenticare che, malgrado le novità radicali che gli si presentavano, l’obiettivo era mettere il lettore in grado di leggere quei testi e orientarsi. Per questo Volpi non ha mai ceduto al vezzo del gergo esoterico, tipico di quegli heideggeriani il cui operato, «per aver troppo giocato a ricalcare i termini tedeschi, risulta alla fine comprensibile solo a chi già conosce il tedesco». Lezione di umiltà basata su poche ma efficaci regole: fedeltà, leggibilità, comprensibilità del testo tradotto. Favorita, quest’ultima, per alcune opere particolarmente complesse, dallo strumento dei glossari. Attraverso di essi Volpi spiegava - con grande chiarezza - l’uso e il significato, spesso complicato e oscuro, del vocabolario heideggeriano. Proprio perché consapevole che non si dava la traduzione perfetta, egli cercò di arricchire l’apparato filologico e farne un mezzo indispensabile per chiunque si accostasse al testo tradotto.
Dopo Essere e tempo - opera del 1927 per molti versi innovativa, ma nella quale è ancora visibile lo sforzo dell’analitica esistenziale di trovare un fondamento all’agire pratico -, matura l’idea che il pensiero debba separarsi dai tradizionali linguaggi filosofici. Troppo condizionata dalle teorie della conoscenza, la filosofia è incapace di fornire una convincente giustificazione al proprio ruolo. Occorreva, perciò, cercare altrove le risposte a quella crisi che si era manifestata fin quasi dai suoi albori. Fin da quando - come fa notare Volpi - si assiste in Platone a un mutamento del concetto di verità: da evento o, meglio, apertura o non latenza dell’Essere a mero valore conoscitivo. È contro una tale regressione, di cui la metafisica si sarebbe resa colpevole, che Heidegger tentò - soprattutto a partire dai Contributi - di dare una risposta all’altezza della drammaticità concettuale che stava vivendo. Ne uscirono, come Volpi sperimentò, pagine tormentatissime e oscure. Per Volpi poco si capirebbe di quell’opera se non si tenesse conto anche dello scacco speculativo che il filosofo si era trovato a vivere. La baldanza con cui, solo un paio di anni prima, aveva ordito il discorso del rettorato (tenuto il 27 maggio 1933) lasciò lo spazio ai dubbi, alle incertezze, alle miserie del proprio tempo. A un tratto avvertì che la filosofia, la cui missione - secondo appunto le linee disegnate dall’Autoaffermazione dell’università tedesca - sarebbe dovuta essere quella di illuminare il cammino della nazione, scoprire le virtù originarie di un popolo, sollevare il potere dalle mediocri incombenze, non possedeva né la forza né la lingua per assolvere a tali compiti.
Con Essere e tempo Heidegger si era inoltrato a fari spenti nella notte novecentesca. Aveva combattuto una strenua battaglia contro le grandi macchine del pensiero confidando nella selvaggia chiarezza del suo talento filosofico. Si sentiva un uomo in guerra con il vecchio mondo. Si considerava il nuovo. E quando il nuovo non produsse ciò che si attendeva, quell’uomo complicato, impenetrabile, tagliente all’improvviso smarrì ogni certezza.
A questo punto della vita di Heidegger si affacciò in Volpi il bisogno di una istruttoria psichica che chiarisse il senso di un decennio drammatico (dal 1936 al 1946) nel quale il filosofo -secondo la testimonianza privata riferita da Otto Pöggeler allo stesso Volpi - pensò perfino al suicidio. Cosa accadde di tanto grave da spingere Heidegger a meditare un gesto così estremo? Volpi insiste molto sui riflessi negativi - almeno sul piano nervoso - che ebbero i seminari e i corsi universitari su Nietzsche. Ci fa rivivere il clima di profonda crisi personale e filosofica nel quale Heidegger è immerso, finendo così «per esperire su di sé tutta la devastante potenza della scepsi nietzscheana. E nel suo corpo a corpo con i testi e con le pericolose fantasmagorie che essi evocano finisce per precipitare, egli stesso, in quello che da un certo momento in poi chiamerà "l’abisso di Nietzsche"».
Ad aggravare lo stato di prostrazione nel quale il filosofo era caduto contribuiranno le accuse psicologicamente devastanti di collaborazionismo, alle quali seguiranno, come effetti immediati, la requisizione della casa, il tentativo di sequestrargli la biblioteca, l’obbligo di lavorare nelle squadre incaricate di ripulire le città tedesche dalle macerie e, naturalmente, l’allontanamento dall’università.
Insistiamo su questo punto perché siamo convinti che Volpi non fu indifferente alla vita privata di Heidegger. Non riteneva che questa incidesse sulla riflessione teorica del filosofo, ma pensava tuttavia che il grafico esistenziale potesse completare una figura tanto difficile e sfuggente. C’era dunque un bisogno di capire, anche seguendo la via privata cosparsa di umori aspri, di scelte drammatiche, di soluzioni opportunistiche e di amori clandestini. A cominciare dal rapporto più intenso e sofferto di Heidegger: quello con Hannah Arendt, la passione irrisolta di una vita, per finire con quel moltiplicarsi di avventure galanti che fecero del filosofo - secondo la testimonianza delle lettere scambiate con la moglie Elfride Petri - il grottesco esempio di un marito infedele.
Tra autenticità e squallore, mondo dell’Essere e mondo ambiente, grandiosità e bassezza, l’oscillazione fu massima. Affrontarne il movimento pendolare per Volpi fu anche un modo per non distogliere lo sguardo dall’enigma politico di un pensatore frettolosamente liquidato per aberrazione ideologica. Ma in realtà - dopo la parentesi nazista - impegnato a dissolvere lo stesso nazismo negli acidi della modernità, e a vederne la forma totalitaria come un effetto della tecnica ormai planetaria.
Chi apre, insomma, questi testi con cui Volpi ha integrato il proprio lavoro di traduttore noterà la costruzione di un edificio laconico, ma indispensabile alla comprensione del filosofo. Dal quale, come mostra l’ultima delle sue introduzioni, qui presentata nella forma integrale rispetto alla versione pubblicata, stava lentamente prendendo le distanze. Non per insofferenza culturale o per noia, come accade, talvolta, in rapporti usurati dal tempo, ma per un ripensamento più radicale. Quasi che la misura retorica dell’ultimo Heidegger fosse colma e rischiasse di diventare uno sterile esercizio di pensiero. Volpi era ben conscio della tragicità filosofica nella quale Heidegger versava al punto da leggere molte sue pagine come una sorta di «diario di bordo di un naufragio». O più semplicemente come un fallimento assolutamente frainteso dagli heideggeriani, categoria alla quale Volpi non si iscrisse mai, detestando, come annotò, «quel l’ammirazione supina e spesso priva di spirito critico che gli è stata tributata e che ha prodotto tanta scolastica».