«Per i popoli più deboli globalizzazione significa trovarsi davanti a forze che non controllano né capiscono»: l’analisi di Zygmunt Bauman
Povertà liquida
«La "società aperta" di Popper oggi non è più opportunità, ma destino contrastato al quale non si può sfuggire»
di Zygmunt Bauman (Avvenire, 20.04.2007)
«Se vuoi la pace, cura la giustizia», asseriva la saggezza antica; e a differenza della conoscenza, la saggezza non invecchia. L’assenza di giustizia sta sbarrando la strada alla pace oggi come duemila anni fa. Le cose non sono cambiate. Ciò che è cambiato è che la «giustizia» oggi, a differenza dei tempi antichi, è una questione planetaria, che si misura e si valuta con confronti planetari; e questo per due ragioni.
La prima è che, in un pianeta attraversato in tutte le direzioni da «autostrade dell’informazione», nulla di quanto vi accade da qualunque parte può di fatto, o almeno potenzialmente, rimanere in un «fuori» intellettuale. La sofferenza umana di località distanti e modi di vivere remoti, e la dissolutezza di altri luoghi distanti e altri modi di vivere remoti entrano nelle nostre case attraverso le immagini elettroniche nella stessa vivida, straziante, vergognosa o umiliante maniera della miseria e dell’ostentata prodigalità degli esseri umani che incontriamo vicino alla casa nelle nostre. Le ingiustizie a partire dalle quali sono stati forgiati i modelli di giustizia non rimangono più confinate alle immediate vicinanze, non c’è più bisogno di andarle a cercare nella «privazione relativa» e nei «differenziali salariali» rispetto ai vicini della porta accanto, o agli amici che occupano il gradino successivo della scala sociale.
La seconda ragione è che, in un pianeta aperto alla libera circolazione delle merci e dei capitali, qualunque cosa accada in un posto comporta ricadute su come la gente vive, spera o si aspetta di vivere in tutti gli altri posti. Niente può essere considerato davvero materialmente «esterno». Niente è veramente, o può rimanere a lungo, indifferente a qualsiasi altra cosa, intatto e senza contatto. Il benessere di un luogo ha la sua parte di responsabilità nella sofferenza di un altro luogo. Nel succinto sommario di Milan Kundera, un’«unità dell’umanità» come quella portata dalla globalizza zione significa principalmente che «non c’è possibilità di fuga, in nessun posto e per nessuno». Come ha fatto notare Jacques Attali nella Voie humaine, i quarantanove Paesi più poveri, dove vive l’11% della popolazione mondiale, ricevono complessivamente soltanto lo 0,5% del prodotto globale. Mettete assieme tutti e due i tipi di «apertura» - intellettuale e materiale - e capirete perché qualsiasi danno, privazione relativa o indolenza congegnata giunga ovunque corredato dalla beffa dell’ingiustizia: il senso del torto che è stato perpetrato, un torto che chiede a gran voce di essere riparato, ma che prima di tutto costringe le vittime a vendicarsi delle proprie avversità...
L’«apertura» della società aperta ha acquisito un nuovo significato, che Karl Popper, al quale si deve l’espressione, non avrebbe mai immaginato. Come prima, questa espressione indica una società che ammette francamente la sua incompletezza e quindi smania di occuparsi delle proprie possibilità, ancora non intuite, né tanto meno esplorate; ma indica anche una società impotente, come mai prima d’ora, a decidere il proprio cammino con un minimo grado di certezza, e a tutelare l’itinerario scelto una volta presa la decisione.
L’«apertura», un tempo prodotto prezioso ancorché fragile di una capacità di farsi valere coraggiosa e faticosa al tempo stesso, oggi è associata prevalentemente a un destino cui non ci si può opporre; agli effetti collaterali, non pianificati né previsti, della «globalizzazione negativa»: una globalizzazione selettiva di commercio e capitali, sorveglianza e informazione, violenza e armi, delitti e terrorismo, tutti unanimemente concordi nel rifiuto del principio della sovranità territoriale e nella mancanza di rispetto per qualsiasi confine statale. Una società «aperta» è una società esposta ai colpi del «destino».
Se l’idea della «società aperta» in origine stava a indicare l’autodeterminazione di una società libera che aveva a cuore la s ua apertura, adesso ai più fa venire in mente la terrificante esperienza di una popolazione eteronoma, sventurata e vulnerabile, messa di fronte a forze che non controlla né capisce a fondo. In un pianeta globalizzato negativamente è impossibile ottenere la sicurezza all’interno di un solo Paese o di un gruppo scelto di Paesi: non con i loro mezzi soltanto, e non a prescindere da quanto accade nel resto del mondo. E neanche la giustizia, condizione preliminare di una pace duratura, può essere raggiunta, né tanto meno garantita, all’interno di un solo Paese.
L’«apertura» è essa stessa causa prima di ingiustizia e quindi, per vie traverse, di conflitti e di violenza. «Mercati senza frontiere» è la ricetta per l’ingiustizia e per il nuovo disordine mondiale che rovescia la famosa formula di Clausewitz, condannando la politica a diventare la continuazione della guerra con altri mezzi. La deregulation, che sfocia nell’illegalità planetaria, e la violenza armata si alimentano a vicenda, si rafforzano reciprocamente e traggono vigore l’una dall’altra; come avverte un altro adagio di antica saggezza, inter armas silent leges (quando parlano le armi, le leggi tacciono).
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l’anticipazione
L’insicurezza del mondo globalizzato
Il sociologo britannico Zygmunt Bauman sviluppa un nuovo capitolo della sua riflessione sulla «modernità liquida» nel suo ultimo saggio «Modus vivendi. Inferno e utopia del mondo liquido», in uscita per Laterza (pagine 132, euro 14,00). Il testo, del quale anticipiamo in queste colonne ampi stralci del primo capitolo, si sofferma in particolare sulla condizione di insicurezza vissuta da ogni abitante, ricco o povero, del pianeta globalizzato.
La società dell’incertezza
Oggi, nell’epoca liquida, ci sono infinite ragioni, più che 50 anni fa, per sentirsi insicuri
La maggior parte di noi non possiede le risorse per innalzarsi al rango di individui di fatto
di Zygmunt Bauman (la Repubblica, 16.09.2010)
La modernità è arrivata come una promessa, ben determinata a sfidare e conquistare l’incertezza, a condurre contro quel mostro policefalo una guerra totale di logoramento. I filosofi dell’epoca spiegavano l’improvvisa abbondanza di crudeli e terrificanti sorprese - prodotte dalle forze sprigionate da lunghissime guerre di religione, fuori controllo e tali da sfuggire alla presa e al freno di pesi e contrappesi - con il fatto che Dio si era ritirato dalla supervisione diretta e dalla gestione quotidiana della Sua creazione, oppure con il cattivo funzionamento della creazione in quanto tale, ossia con i capricci e i ghiribizzi cui la Natura è soggetta finché, non venendo imbrigliata dall’ingegno umano, resta aliena e sorda rispetto ai bisogni e ai desideri degli uomini. Vi potevano essere differenze tra le spiegazioni preferite, tuttavia gradualmente emerse un ampio accordo relativo al fatto che l’attuale amministrazione degli affari mondani non reggeva alla prova e che il mondo aveva bisogno di essere urgentemente sottoposto a una nuova gestione (umana, questa volta) indirizzata a chiudere i conti una volta per tutte con i più terribili demoni dell’incertezza: la contingenza, la casualità, la mancanza di chiarezza, l’ambivalenza, l’indeterminazione e l’imprevedibilità. (...)
Quando tale compito sarebbe stato portato a compimento, gli esseri umani non sarebbero più stati dipendenti dai "colpi di fortuna". La felicità umana non sarebbe più stata un dono del fato, ben gradito, ma non richiesto, bensì il regolare prodotto di una programmazione fondata sulla conoscenza scientifica e sulle sue applicazioni tecnologiche.
In realtà la gestione umana non è stata in grado di corrispondere alle aspettative popolari, alimentate dalle assicurazioni generosamente concesse dai suoi dotti progettisti e dai suoi poeti di Corte. È vero che molti dispositivi ricevuti in eredità e accusati di saturare d’incertezza la ricerca umana erano stati smantellati e gettati via, ma il volume d’incertezza prodotto dai modelli che li avevano sostituiti non era inferiore al precedente. (...)
Per i primi cento o duecento anni della guerra contro l’incertezza si è minimizzato il fatto che non si fosse registrata una convincente vittoria. I sospetti che l’incertezza potesse essere una compagna permanente e inseparabile dell’esistenza umana tendevano a venire negati come essenzialmente sbagliati, o quanto come non sufficientemente dimostrati, dunque prematuri: nonostante le crescenti prove in contrario, era ancora possibile pronosticare che, dopo aver corretto questo o quell’errore e dopo aver superato o aggirato questo o quel rimanente ostacolo, si sarebbe potuta conseguire la certezza. (...)
Durante gli ultimi cinquant’anni, tuttavia, si è fatto largo un drastico cambiamento nella nostra visione del mondo, che ne condiziona adesso parti ancor più fondamentali rispetto alla concezione che avevano i nostri antenati riguardo al ruolo della contingenza negli itinerari congiunti della storia umana e della vita degli individui, e alle loro idee di come si poteva mitigarne l’impatto grazie al progresso della conoscenza e della tecnologia. Nelle nuove narrazioni delle origini e dello sviluppo dell’universo, della formazione del nostro pianeta, delle origini e dell’evoluzione della vita sulla Terra, così come nelle descrizioni della struttura e del movimento delle unità elementari di materia, gli eventi casuali - cioè eventi essenzialmente imprevedibili, indeterminati o del tutto contingenti - sono stati promossi e innalzati dal grado di marginali "fenomeni di disturbo" a quello di attributi primari della realtà e sua principale spiegazione.
La moderna idea di ingegneria sociale fondava la sua affidabilità sull’assunzione di ferree leggi che governavano la Natura e avrebbero reso l’esistenza umana ordinata e pienamente regolata, una volta spazzate via le contingenze responsabili delle turbolenze. Negli ultimi cinquant’anni, però, si è arrivati a mettere in questione e sempre più a dubitare dell’esistenza stessa di tali "ferree leggi" e della possibilità di concepire ininterrotte catene di causa-effetto. Oggi ci stiamo rendendo conto che contingenza, casualità, ambiguità e irregolarità sono caratteristiche inalienabili di tutto ciò che esiste, e pertanto sono irremovibili anche dalla vita sociale e individuale degli esseri umani. (...)
Detto questo, si noti che nella nostra epoca liquido-moderna ci sono infinite ragioni, più che cinquant’anni fa, per sentirsi incerti e insicuri. Dico "sentirsi", perché il volume delle incertezze non è aumentato: lo hanno fatto invece volume e intensità delle nostre preoccupazioni e ansie, e ciò è accaduto perché le lacune tra i nostri mezzi per agire efficacemente e la grandiosità dei compiti che ci troviamo di fronte e siamo obbligati a gestire sono divenute più evidenti, più ovvie e in verità più minacciose e spaventose rispetto a quelle di cui hanno fatto esperienza i nostri padri e i nostri nonni. A farci sentire un’incertezza più orrenda e devastante che in passato sono la novità nella percezione della nostra impotenza e i nuovi sospetti che essa sia incurabile. (...)
Man mano che il potere di agire in modo efficace gli è scivolato via dalle dita, gli Stati, indeboliti, sono stati costretti ad arrendersi alle pressioni dei poteri globali e ad "appaltare" alla cura e alla responsabilità degli individui un numero crescente di funzioni in precedenza da loro erogate. Come ha mostrato Ulrich Beck, oggi ci si aspetta che siano donne e uomini singolarmente a cercare e trovare risposte individuali a problemi creati socialmente, ad agire su di essi utilizzando le loro risorse individuali e ad assumersi la responsabilità delle loro scelte, nonché del successo o insuccesso delle loro azioni.
In altri termini, oggi siamo tutti "individui per decreto", cui si ordina, presupponendo che ne siamo capaci, di progettare le nostre vite e di mobilitare tutto ciò che serve per perseguire e realizzare i nostri obiettivi di vita. Per la maggior parte di noi, tuttavia, questa apparente "acquisizione di capacità" è in tutto o quanto meno in parte una finzione.
La maggior parte di noi non possiede le risorse necessarie per innalzarsi dalla condizione di "individui per decreto" al rango di "individui di fatto". Ci mancano la conoscenza necessaria e la potenza richiesta. La nostra ignoranza e la nostra impotenza nel trovare e attuare soluzioni individuali a problemi socialmente prodotti hanno come esito perdita di autostima, vergogna per essere inadeguati di fronte al compito e umiliazione. Tutto ciò concorre all’esperienza di un continuo e incurabile stato di incertezza, cioè l’incapacità di assumere il controllo della propria vita, venendo così condannati a una condizione non diversa da quella del plancton, battuto da onde di origine, ritmo, direzione e intensità sconosciuti.
Traduzione di Daniele Francesconi
L’eclisse della modernità
vite precarie oltre l’ordine costituito
"In due libri di Zygmunt Bauman l’ambivalenza e il consumo sono la chiave di accesso alla comprensione di società che sacrificano la libertà in nome della sicurezza. Ma occorre pensare criticamente la trasformazione della realtà".
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 11.06.2010)
Il Novecento è stato il secolo delle promesse non mantenute. Secolo tremendo, certo, ma che lascia un’eredità respinta da molti contemporanei: la convinzione, cioè, che fosse possibile abolire il regno della necessità dove vivono la maggioranza degli uomini e delle donne per instaurare quello basato della libertà. Una promessa che non va iscritta solo al socialismo, l’esperienza più congrua all’idea di progresso maturata agli albori della modernità, ma anche alle società capitaliste. Perché se a Est dell’Elba quell’orizzonte così vicino, ma al tempo stesso lontanissimo di libertà ha legittimato regimi politici autoritari, nell’Europa figlia della grande filosofia tedesca e francese il capitalismo ha invitato uomini e donne a marciare compatti verso un avvenire in cui la sicurezza economica era in armonia con i diritti civili, politici e sociali.
Il socialismo e il capitalismo potevano inoltre fare leva su uno strumento davvero efficace nel trasformare in realtà la promessa di libertà, e di felicità. Lo stato-nazione, infatti, come un buon giardiniere era legittimato a estirpare tutte le erbacce che potevano infestare la nazione nel processo di costruzione di una società perfetta.
Alla fine del Novecento di quella promessa si vedono solo le macerie. Ma sbaglierebbe chi pensasse solo ai detriti lasciti dalla caduta del Muro di Berlino, perché è il progetto moderno che ha subito uno smacco, una sconfitta, perché il giardiniere, cioè lo stato, ha fallito nel suo progetto di edificare la società perfetta. Il disordine, il ritorno di credenze che si pensavano definitivamente archiviate grazie all’uso della ragione occupano ormai la scena stabile sia nelle realtà nazionali postsocialiste che nell’opulento capitalismo.
La retorica postmoderna
A scrivere del fallimento della modernità non è un incallito decostruzionista folgorato dagli scritti di Jacques Derrida o un nichilista sui generis, ma l’appassionato studioso della modernità Zygmunt Bauman in un volume scritto nel 1991 e finalmente tradotto dalla casa editrice Bollati Boringhieri (Modernità e ambivalenza, pp. 347, euro 25). Scritto cioè negli anni segnati dalla caduta del Muro e dall’annuncio di una guerra, quella del Golfo: due eventi, per usare un’espressione che lo studioso polacco giustamente usa con molta parsimonia, che hanno davvero cambiato il panorama mondiale.
Bauman, tuttavia, non è né un nostalgico delle democrazie popolari e ha ancora ben forte il ricordo della seconda guerra mondiale per rigettare culturalmente e politicamente il ricorso agli eserciti per dirimere i conflitti tra stati. Scrive il saggio mettendo i due eventi sullo sfondo, perché vuol fare i conti con la retorica, allora imperante, sulla fine delle grandi narrazioni e con quel minimalismo teorico che è stato chiamato postmoderno.
Termine quest’ultimo che Bauman usa sempre con circospezione per alcuni anni, per poi abbandonarlo e sostituirlo con «modernità liquida», espressione diventata così di moda che in tempi recenti, come nel libro pubblicato una manciata di settimane prima di quello sull’ambivalenza (L’etica in un mondo di consumatori Laterza, pp. 235, euro 16), preferisce laasciarla cadere nell’oblio, perché corrosa nella sua capacità descrittiva dal rumore di fondo che caratterizza la discussione pubblica.
Nonostante siano separati da vent’anni, i due libri sono tuttavia complementari, perché nel primo sono definiti tutti i nodi teorici che nel secondo saggio trovano una parziale soluzione, laddove Bauman afferma che viviamo ancora in una modernità che continua a inseguire il sogno di una libertà tanto radicale quanto foriera di felicità. Ma lo strumento per trasformare quel sogno in realtà non attiene più allo stato-nazione, ma al consumo, dove il principio del piacere regna sovrano. Peccato, però, che il consumo non consente che una misera libertà, quella appunto di essere plasmati dalla merce che si acquista e si getta via dopo poco tempo, perché si rischia di essere «disconnessi» dalla società.
In altri termini, per Bauman, il consumo è la forma attraverso il quale viene esercitato un impalpabile dominio. In questo caso, però, la categoria dell’ambivalenza torna utile. Da una parte il consumo è sì la forma socialmente definita per ratificare l’assoggettamento al regno della necessità, ma per chi vive precariamente sul confine tra inclusione e esclusione sociale è il modo per ottenere il riconoscimento di alcuni diritti civili e sociali.
Ma se nel libro Modernità e ambivalenza lo studioso di origine polacca voleva fare i conti i conti con le contraddizioni del progetto moderno, nel saggio dedicato al consumo preferisce svelare l’inganno che si cela dietro la centralità assegnata al principio del piacere, in base al quale ogni uomo o donna può recidere ogni legame e rapporto di reciproca responsabilità con i suoi simili. Insomma, due momenti di un movimento della prassi teorica di Bauman dove i fratelli gemelli della società contemporanea - il caos e l’ordine - sono ricondotti alla comune matrice racchiusa nel progetto di «buona società».
Il tratto saliente della modernità, afferma Bauman, è la continua battaglia contro l’ambivalenza, che non è, come sostengono alcuni filosofi, un limite del linguaggio nel nominare una realtà sfuggente, bensì il sentimento dominante di qualsiasi forma di vita sociale. Ogni azione, ogni scelta ha una sua ambivalenza, cioè sono azioni e scelte aperte a esiti tra loro sempre confliggenti. Per questo la modernità ha come pilastri l’attitudine a catalogare, classificare, definire, manipolare quei comportamenti tanto individuali che collettivi per impedire all’ambivalenza di manifestare il suo potere, alimentando così il caos. E così, mentre si appresta a realizzare un così ambizioso progetto, la modernità svela anche il suo lato oscuro, coercitivo, autoritario. Un lato oscuro che nel Novecento ha talvolta preso il sopravvento, mettendo in discussione e spesso all’angolo le aspirazioni alla libertà, all’eguaglianza e alla fraternità.
In difesa del flâner
Questa «dialettica dell’illuminismo» ha avuto, ma questo è noto, la sua massima manifestazione nelle baracche e nei forni allestiti a Auschwitz per sterminare gli ebrei. Nei lager, infatti, le arti della catalogazione, della pianificazione per cancellare ogni forma di ambivalenza sono state coltivata con un’attitudine moderna. Da questo punto di vista, l’ambivalenza strutturale delle figure dello straniero e dell’ebreo ha costituito la condizione mimetica di una resistenza al principio ordinatore della modernità. Lo straniero e l’ebreo, figure distinte, ma spesso coincidenti, sono infatti gli «indecidibili», cioè vivono in una società che non li vuol mai sentire parte integrante della nazione. E per quanti sforzi facciamo, gli stranieri e gli ebrei, per essere assimilati, rimangono sempre incarnazione di una estraneità. Meglio di un’ambivalenza considerata ostile per chi definisce le regole dell’ordine sociale.
La resistenza alla funzione ordinatrice della modernità mette così in discussione il suo lato oscuro, oppressivo, assieme al concetto stesso di società. Da questo punto di vista è del tutto condivisibile il richiamo a Georg Simmel, lo studioso tedesco che ha messo al centro della sua analisi sulle forme di vita metropolitane proprio il concetto di ambivalenza in quanto carattere immanente della socialità, cioè di quell’attitudine solo umana al vivere insieme per produrre le condizioni necessarie alla riproduzione della specie.
Il flâner e il conseguente atteggiamento blasè studiati da Georg Simmel, e da Walter Benjamin, sono quindi da considerare come il rifiuto dell’imposizione di una verità che la modernità vuole universale. Ma la verità, come l’universalismo dei valori, hanno una funzione sociale, sono cioè i termini in cui si manifesta il rapporto asimmetrico di potere tra dominanti e dominati. E questo il secondo smacco che la modernità conosce, perché la critica al concetto di verità e dell’universalismo dei valori nasce proprio nel cuore della modernità, in quella Europa e in quegli Stati Uniti che si sono investiti del ruolo civilizzatore del mondo.
La forza dissacrante del postmoderno risiede dunque nell’aver usato tutti gli strumenti della modernità per criticarla. E proprio quando celebra la fine della modernità, il postmoderno ne riafferma una delle caratteristiche principali, l’esercizio della critica e la potenza della ragione rispetto alle credenze particolari. Nulla di nuovo, dunque, sotto il sole. Non fine della modernità, ma l’eclissi di quella fiducia nel progresso che avrebbe avuto al capolinea della storia .la società perfetta tanto agognata.
Più prosaicamente, annota amaramente Bauman, è ormai il consumo la linfa vitale delle società contemporanee. Attraverso il consumo uomini e donne inventano la loro identità, che si può cambiare allorquando arriva sul mercato un’altra linea di abbigliamento o telefono cellulare. Ed è attraverso il consumo che si combattono, infine, le battaglie per il riconoscimento, dopo che le appartenenze sociali hanno perso il potere ordinativo.
Identità prêt-à-porter
È in questa situazione che lo stato-nazione ha dismesso i panni del giardiniere e si è riconvertito al mestiere di guardiano affinché la santa trinità delle società tardomoderne - securitè, paritè, reseau, cioè sicurezza, parità e rete - sia al riparo dalla potere potenzialmente distruttivo dell’ambivalenza. L’ambivalenza va quindi addomesticata, facendola diventare la leva per alimentare la spinta a nuovi consumi che «l’essere malinconico» della tardomodernità viva la sua condizione di infelicità e di oppressione come tollerabile.
Lo stato garantisce quindi la sicurezza, aggiornando continuamente la tassonomia degli stranieri e degli indesiderabili in nome della sicurezza nazionale. Al mercato il compito di garantire la parità non delle condizioni sociali, ma di essere sulla stessa linea di partenza nella corsa all’acquisto, attraverso una merce griffata, di uno stile di vita e di una identità. Ai singoli spetta il compito di costruire la propria appartenenza, attraverso una effimera rete di legami che non vincola niente e nessuno.
Celebrato come uno dei massimi sociologi della contemporaneità, Bauman è uno studioso che ha sempre privilegiato l’ottimismo della ragione rispetto al pessimismo della volontà. Se critica va fatta ai suoi testi riguarda il rifiuto di considerare l’ambivalenza un fattore potenzialmente sovversivo della realtà.
L’ambivalenza non come ambiguità, ma come condizione aperta alla possibilità di trasformare la realtà.
Accanto alle figure dello straniero e dell’ebreo andrebbe infatti aggiunta anche quella del «precario». Il precario e la precarie sono infatti l’incarnazione dell’ambivalenza. Oscillanti tra lavoro e non lavoro, sono costretti nella camicia di forza di un lavoro salariato spogliato però di quei diritti sociali che lo avevano reso condizione sopportabile. Non vincolato a nessuna stabile e duratura gerarchia, ma tuttavia costretti a inventaris il suo reseau sociale. Ma questa condizione ambivalente è aperta alle possibilità della trasformazione sociale.
Di questo programma di lavoro teorico e politico Bauman sorriderebbe. Ha attraversato il Novecento e ha sperimentato nella Polonia il vecchio adagio che le strade dell’inferno sono lastricate sempre da buone intenzione. In questo caso non ci sono però buone intenzione, né la ricerca della strada per il paradiso. Semmai c’è l’urgenza teorica e dunque politica di riprendere il cammino verso il regno della libertà.
La postmodernità secondo Bauman
di Zygmunt Bauman
Anticipiamo un brano del libro di "Modernità e ambivalenza" pubblicato da Bollati Boringhieri e in uscita in questi giorni. *
Il crollo delle "grandi narrazioni" (come le definisce Lyotard) - il dissolversi della fede nelle corti d’appello sovraindividuali e sovracomunitarie - è stato visto con timore da molti osservatori, come un invito a una situazione del tipo "tutto va bene", alla permissività universale e dunque, alla fine, alla rinuncia a ogni ordine morale e sociale. Memori della massima di Dostoevskij «Se Dio non esiste, tutto è permesso», e dell’identificazione durkheimiana del comportamento asociale con l’indebolirsi del consenso collettivo, siamo giunti a credere che, a meno che un’autorità imponente e indiscussa - sacra o secolare, politica o filosofica - non incomba su ogni individuo, il futuro ci riserverà probabilmente anarchia e carneficina universale. Questa credenza ha efficacemente sostenuto la moderna determinazione a instaurare un ordine artificiale: un progetto che sospettava di ogni spontaneità finché non se ne provava l’innocenza; un progetto che metteva al bando tutto ciò che non era esplicitamente prescritto e identificava l’ambivalenza con il caos, con la "fine della civiltà" così come la conosciamo e potremmo immaginarla.
Forse la paura scaturiva dalla coscienza repressa che il progetto era condannato fin dal principio; forse era coltivata deliberatamente, dal momento che svolgeva l’utile ruolo di baluardo emotivo contro il dissenso; forse era solo un effetto collaterale, un ripensamento intellettuale nato dalla pratica sociopolitica della crociata culturale e dell’assimilazione forzata. In un modo o nell’altro, la modernità decisa a demolire ogni differenza non autorizzata e tutti i modelli di vita ribelli non poteva che concepire l’orrore per la deviazione e trasformare la deviazione in sinonimo di diversità. Come commentano Adorno e Horkheimer, la cicatrice intellettuale ed emotiva permanente lasciata dal progetto filosofico e dalla pratica politica della modernità è stata la paura del vuoto; e il vuoto era l’assenza di uno standard vincolante, inequivocabile e applicabile a livello universale.
Della popolare paura del vuoto, dell’ansia nata dall’assenza di istruzioni chiare che non lascino nulla alla straziante necessità della scelta, siamo informati dai racconti preoccupati degli intellettuali, interpreti designati o autodesignati dell’esperienza sociale. I narratori però non sono mai assenti dalla loro narrazione, ed è un compito disperato quello di provare a separare la loro presenza dalle loro storie. È possibile che in generale ci fosse una vita fuori dalla filosofia, e che questa vita non condividesse le preoccupazioni dei narratori; che se la passasse piuttosto bene anche senza essere disciplinata da standard di verità, bontà e bellezza provati razionalmente e approvati filosoficamente.
È possibile persino che molta di questa vita fosse vivibile, ordinata e morale proprio perché non era ritoccata, manipolata e corrotta dagli agenti autoproclamati della "necessità universale". Ma non c’è dubbio sul fatto che una particolare forma di vita non possa passarsela bene senza il sostegno di standard universalmente vincolanti e apoditticamente validi: si tratta della forma di vita dei narratori stessi (più precisamente, la forma di vita che contiene le storie narrate per gran parte della storia moderna).
È stata soprattutto quella forma di vita a perdere il suo fondamento una volta che i poteri sociali hanno abbandonato le loro ambizioni ecumeniche, e a sentirsi dunque minacciata più di chiunque altro dal dissolversi delle aspettative universalistiche. Finché i poteri moderni si sono aggrappati con risolutezza all’intenzione di costruire un ordine più efficace, guidato dalla ragione e dunque in definitiva universale, gli intellettuali non hanno avuto grande difficoltà ad articolare la loro rivendicazione a un ruolo cruciale nel processo: l’universalità era il loro dominio e il loro campo di specializzazione.
Finché i poteri moderni hanno insistito sull’eliminazione dell’ambivalenza come misura del miglioramento sociale, gli intellettuali hanno potuto considerare il loro lavoro - la promozione di una razionalità universalmente valida - come veicolo principale e forza trainante del progresso. Finché i poteri moderni hanno continuato a denigrare, mettere al bando e sfrattare l’Altro, il diverso, l’ambivalente, gli intellettuali hanno potuto contare su un massivo supporto alla loro autorità di giudicare e di distinguere il vero dal falso, la conoscenza dalla mera opinione.
Come il protagonista adolescente dell’Orfeo di Jean Cocteau, convinto che il sole non sorgesse senza la serenata della sua chitarra, gli intellettuali si sono convinti che il fato della moralità, della vita civile e dell’ordine sociale dipendesse dalla loro soluzione del problema dell’universalità: dalla loro capacità di fornire la prova decisiva e definitiva del fatto che il "dovere" umano sia inequivocabile, e che la sua inequivocabilità abbia fondamenti incrollabili e totalmente affidabili.
Questa convinzione si è tradotta in due credenze complementari: che non ci sarebbe stato niente di buono nel mondo, a meno che non ne fosse provata la necessità; e che provare questa necessità, se e quando ci si fosse riusciti, avrebbe avuto sul mondo un effetto simile a quello attribuito agli atti legislativi di un governante: avrebbe sostituito il caos con l’ordine e reso trasparente ciò che era opaco.
L’effetto più spettacolare e durevole dell’ultima battaglia della verità assoluta non è stato tanto la sua inconcludenza, derivante come direbbero alcuni dagli errori di progetto, ma la sua totale irrilevanza per il destino mondano di verità e bontà. Questo destino è stato deciso molto lontano dalle scrivanie dei filosofi, giù nel mondo della vita quotidiana dove infuriavano le lotte per la libertà politica e dove si spingevano avanti e si ricacciavano indietro i confini dell’ambizione statale di legiferare sull’ordine sociale, di definire, segregare, organizzare, costringere e reprimere.
* la Repubblica, 12 maggio 2010
Quel diverso che ci fa paura. Perché la tolleranza non basta più
Così nelle società globalizzate la convivenza tra culture differenti è diventata una caratteristica ineliminabile
Nel passato la presenza dello "straniero" era sempre un dato temporaneo
È necessario comprendere che le differenze sono una ricchezza inestimabile.
di Zygmunt Bauman (la Repubblica, 16.11.2009)
Pubblichiamo una parte dell’intervento tenuto in videoconferenza da Zygmunt Bauman al convegno su "La qualità dell’integrazione scolastica" che si è tenuto a Rimini nei giorni scorsi
Vivere con gli stranieri, che è il fondamento demografico e sociale dell’esposizione alle differenze, a una qualche sorta di alterità, non è affatto nuova nella storia moderna. Ma l’idea era grosso modo che chiunque sia alieno, straniero, diverso da te perderà prima o poi il suo carattere di straniero. La politica dominante verso gli stranieri, per la maggior parte della storia moderna, è stata una politica di assimilazione: "Voi siete qui, siete fisicamente vicini; diventiamo quindi vicini anche spiritualmente, mentalmente, eticamente", che vuol dire accettare gli stessi valori universali dove però, per "universali", abbiamo sempre inteso i "nostri" valori. Quindi, con questa prospettiva dove l’essere stranieri era soltanto uno spiacevole fastidio temporaneo, non esisteva l’idea di dover imparare a vivere con il diverso.
Ora per la prima volta nella storia moderna siamo arrivati a renderci conto che le cose non stanno così. La modernità è sempre stata un periodo di migrazioni massive di persone da un continente all’altro, da un capo del mondo all’altro, da una cultura all’altra, e la migrazione è avvenuta per necessità nelle circostanze moderne in cui le persone cosiddette in soprannumero, persone per cui non si poteva trovare una sistemazione nella loro società d’origine, non c’era spazio per loro nel nuovo ordine, nel nuovo stato avanzato del progresso economico, erano costrette a viaggiare. Tuttavia c’è una differenza: le migrazioni contemporanee hanno un carattere diasporico, non assimilatorio. Le persone che vanno in un altro Paese non ci vanno con l’intenzione di diventare come la popolazione ospite. La popolazione ospite, nativa, non è particolarmente interessata ad assimilarle.
Ci sono circa 180 diaspore che convivono a Londra, 180 diverse lingue, culture, tradizioni, memorie collettive. E il problema è che se la politica di assimilazione non è più facilmente percorribile, come possiamo vivere giorno per giorno con gli stranieri? Come possiamo comunicare, cooperare, vivere in pace senza che noi perdiamo la nostra identità e che loro perdano la loro, quindi in una coabitazione che non porta all’uniformità? In altre parole la questione non è più quella di essere tolleranti verso le persone diverse. La tolleranza in realtà è molto spesso un altro volto della discriminazione. "Sono tollerante verso le tue abitudini e le tue usanze bizzarre. Sono una persona molto aperta, sono superiore a te. Capisco che il mio stile di vita è irricevibile per te. Tu non puoi raggiungere lo stesso livello. Quindi ti permetto di seguire il tuo stile di vita ma io non lo farei mai se fossi in te".
La sfida con cui ci dobbiamo confrontare oggi consiste nel passare da questo atteggiamento di tolleranza a un livello più alto, cioè a un atteggiamento di solidarietà. Dobbiamo rassegnarci al fatto che ci sono degli stranieri ma anche imparare a ricavarne dei vantaggi. La maggior parte di noi vive in grandi città. Le città sono sempre piene di stranieri e la loro presenza è inquietante perché non sai come si comporterebbero se non li tenesse a distanza, destano sospetto, fanno orrore semplicemente perché sono delle entità estranee. Gli stranieri fanno paura. Ho chiamato questa paura tipica delle città contemporanee mixofobia, la fobia di mescolarsi con altre persone, perché là dove ci mescoliamo ad altre persone in un ambiente poco familiare tutto può succedere.
Ma la stessa condizione di mescolanza con gli stranieri provoca anche un altro atteggiamento. Ci sono due reazioni contraddittorie al fenomeno, entrambe osservabili nelle città contemporanee. La seconda è la mixofilia, la gioia di essere in un ambiente diverso e stimolante. Hannah Arendt fu probabilmente la prima pensatrice moderna che ripensando a Gotthold Ephraim Lessing, uno dei pionieri dell’Illuminismo tedesco, vide in lui una delle figure più lungimiranti fra i filosofi della prima modernità.
Secondo Lessing non bisogna limitarsi ad accettare il fatto che la differenza sia destinata a perdurare ma bisogna effettivamente apprezzarla, riconoscere che in essa c’è un potenziale creativo senza precedenti. Il fatto di mettere insieme esperienze, ricordi, visioni del mondo molto diverse può portare a una prosperità di sviluppo culturale.
È troppo presto per dire quali potranno essere gli sviluppi perché le due tendenze contrapposte, la mixofobia e la mixofilia, hanno più o meno uguale forza. A volte prevale l’una, a volte l’altra. La questione è incerta, siamo ancora nel mezzo di un processo che non sappiamo bene come andrà a finire.
Quel che stiamo facendo nelle vie delle città, nelle scuole primarie e secondarie, nei luoghi pubblici dove stiamo accanto ad altre persone è di estrema importanza non soltanto per il futuro delle città in cui vogliamo trascorrere il resto della nostra vita, o perlomeno in cui viviamo al momento, ma è di somma importanza per il futuro dell’umanità. Viviamo in un mondo globalizzato.
La globalizzazione ha raggiunto un punto di non ritorno, non possiamo tornare indietro, siamo tutti interconnessi e interdipendenti. Ciò che avviene in luoghi remoti ha un impatto formidabile sulle prospettive di vita e sul futuro di ognuno di noi.
Quindi è giunto il momento di fare ciò che Lessing predisse che avremmo dovuto fare, cioè imparare ad apprezzare le opportunità create dalle nostre differenze, anziché temere le conseguenze morbose del convivere con le differenze. Ci confrontiamo con le conseguenze della globalizzazione in ogni strada delle città in cui viviamo, in ogni scuola in cui insegniamo, ma dal canto opposto per la stessa ragione, le città, le scuole sono il laboratorio in cui sviluppiamo i modi per imparare, trarre beneficio, tesaurizzare e rallegrarci per l’appunto della natura diasporica della realtà contemporanea.
Non sto dicendo che si tratti di un compito facile. Confrontarsi con una sfida che i nostri antenati non hanno mai raccolto, ci pone di fronte a un compito che mette a dura prova la nostra mente e le nostre emozioni e che dobbiamo riuscire ad affrontare nel suo dispiegarsi, in corso d’opera, senza disporre di soluzioni precostituite.
Com’è cambiata l’arte di esistere
IL MONDO LIQUIDO E LA FELICITA’
Bauman: i nuovi valori della vita
Bisogna affrontare le sfide difficili, cercando di dare una forma a quel che è indefinito. Ed essere consapevoli che lo sforzo sarà sempre enorme
Servono legami responsabili: l’amore richiede cure, non consumo
Il nostro tempo è governato "dall’economia delle esperienze"
di Zygmunt Bauman (la Repubblica, 07.05.2009)
Anticipiamo un brano del nuovo libro di "L’arte della vita" (Laterza, pagg.178, euro 15) da oggi in libreria
Ognuno di noi è artista della propria vita: che lo sappia o no, che lo voglia o no, che gli piaccia o no. Essere artista significa dare forma e struttura a ciò che altrimenti sarebbe informe e indefinito. Significa manipolare probabilità. Significa imporre un «ordine» a ciò che altrimenti sarebbe «caos»: «organizzare» un insieme di cose ed eventi che altrimenti sarebbe caotico (casuale, fortuito e dunque imprevedibile), rendendo così più probabile il verificarsi di certi eventi anziché di altri.
A chi dovremo ispirarci per sapere come organizzare (e organizzarci), se non ai professionisti, a chi è responsabile di quelle entità che si chiamano «organizzazioni»?
Fino a pochissimo tempo fa il concetto di «organizzazione» era entrato a far parte dell’uso comune associato a grafici, diagrammi, organigrammi, dipartimenti, tempistiche, regolamenti; alla vittoria dell’ordine (di uno stato in cui si fa in modo che alcuni eventi siano molto più probabili di qualsiasi altro) sul caos (su uno stato in cui ogni cosa ha la stessa probabilità o una probabilità incalcolabile di accadere).
Ho scritto «fino a pochissimo tempo fa» perché oggi, entrando nella sede centrale di un’organizzazione, si sentono soffiare i venti del cambiamento. Qualche anno fa Joseph B. Pine e James H. Gilmore pubblicarono un libro, L’economia delle esperienze, il cui titolo (sicuramente anche grazie all’aiuto dalle credenziali della Harvard Business School) accese immediatamente la fantasia degli studenti di Economia aziendale, elevando l’attuale modo di pensare di direttori e presidenti di aziende a nuovo paradigma degli studi di organizzazione.
In un volume di stimolanti saggi pubblicato dalla Copenhagen Business School Press, i curatori Daniel Hjorth e Monika Kostera hanno delineato in termini generali e con notevole ricchezza di particolari il percorso dal vecchio paradigma organizzativo, imperniato sul «management» e sulla priorità del controllo e dell’efficienza, al paradigma emergente, che guarda soprattutto allo spirito imprenditoriale e sottolinea «le caratteristiche più vitali dell’esperienza: immediatezza, spirito ludico, soggettività e performatività».
Niels Akerstrom, docente alla Copenhagen Business School, paragona l’attuale situazione del dipendente di un’organizzazione a quella che si vive oggi da sposati o conviventi. L’analisi di Akerstrom sulla tendenza a ridefinire le organizzazioni secondo uno schema simile a quello delle relazioni d’amore ci rinvia a una trasformazione ancora più vasta, che è probabilmente alla base del «cambio di paradigma»: alla trasformazione profonda del ruolo svolto nel contesto liquido-moderno dai legami umani, in particolare dai rapporti d’amore e più in generale dall’amicizia. La loro forza d’attrazione raggiunge oggi, a detta di tutti, livelli senza precedenti, ma è inversamente proporzionale alla capacità di svolgere il ruolo sperato e atteso, che era e resta la causa principale di quell’attrazione. E’ proprio perché siamo disponibili ad «amicizie e unioni profonde», proprio perché lo desideriamo più forte e disperatamente che mai, che i nostri rapporti sono pieni di rumore e furore, carichi di ansia e in perenne allerta.
Vorremmo la mano disponibile di una persona amica, affidabile, fedele, alla «finché-morte-non-ci-separi», che ci venga tesa sicuramente, prontamente e di buon grado in qualsiasi momento si renda necessaria, che sia come l’isola per il naufrago o l’oasi per chi si è perso nel deserto: sono queste le mani che ci occorrono, che vorremmo attorno a noi, tanto più numerose tanto meglio.
Eppure. Nel nostro ambiente liquido-moderno la fedeltà a vita è una grazia, inseparabile da varie disgrazie. Che fare se le onde cambiano direzione, se emergono nuove opportunità che trasformano i rassicuranti punti di forza di ieri nelle minacciose debolezze di oggi, gli averi che un tempo ci si teneva stretti in fastidiose zavorre, i giubbotti salvagente in cinture con i piombi?
«Dov’è il confine tra il diritto alla felicità personale e al nuovo amore e l’egoismo esasperato disposto a mandare in frantumi la famiglia, e magari a danneggiare i figli?», si chiede Ivan Klíma. Tracciare questo confine con precisione può essere doloroso, ma di una cosa possiamo esser certi: quel confine, ovunque sia, viene violato nel momento in cui l’atto di stringere e sciogliere legami tra gli uomini è dichiarato moralmente indifferente e neutro, sollevando a priori gli attori dalla responsabilità delle reciproche conseguenze di ciò che fanno: da quella stessa responsabilità incondizionata che l’amore promette, nella buona e nella cattiva sorte, e che lotta per costruire e conservare. «La creazione di una relazione buona e durevole», in netta opposizione alla ricerca di godimento attraverso oggetti di consumo, «richiede uno sforzo enorme».
Per farla breve: l’amore non è qualcosa che si possa trovare, non è un objet trouvé o un ready-made. E’ qualcosa che richiede di essere creato e ricreato ogni giorno, ogni ora; che ha bisogno di essere costantemente risuscitato e riaffermato e richiede attenzione e cure. In linea con la crescente fragilità dei legami umani, con l’impopolarità degli impegni a lungo termine, con l’eliminazione dei «doveri» dai «diritti» e l’elusione di ogni obbligo che non sia «verso se stessi» («me lo devo», «me lo merito», e via dicendo) si tende a vedere nell’amore qualcosa che è perfetto dall’inizio oppure è fallito, e che dunque è meglio abbandonare e sostituire con esemplari «nuovi e migliorati», si spera davvero perfetti. Un simile amore non sopravvivrà al primo piccolo litigio, e tanto meno al primo serio disaccordo e scontro.
La felicità - per richiamare la diagnosi di Kant - non è un’ideale della ragione, ma dell’immaginazione. E lo stesso Kant avvertì che dal legno storto dell’umanità non si sarebbe mai potuto ricavare nulla di dritto. John Stuart Mill parve riunire entrambe le nozioni in un avvertimento: chiediti se sei felice e cesserai di esserlo. Gli antichi probabilmente già lo sospettavano ma, guidati dal principio Dum spiro, spero - finché c’è vita, c’è speranza -, sostenevano che senza duro lavoro la vita non offrirebbe nulla che abbia valore. Duemila anni dopo, questo suggerimento non ha perso affatto la sua attualità.
© 2008, Zygmunt Bauman
© 2009, Laterza
Traduzione di Marco Cupellaro
Moneta di Carta e Tirannia
Scritto da Ron Paul
Friday 05 September 2003
Riproponiamo uno dei migliori pezzi sulla moneta scritti da Ron Paul, candidatosi nel 1988 alla presidenza come libertario; corre per le prossime elezioni nelle liste repubblicane. Nonostante cio’, rimane un vero libertario, non ha niente a che vedere con la politica di bush, del quale e’ uno dei maggiori oppositori, e ha sempre criticato aspramente al congresso la politica monetaria di Greenspan e ora quella di Bernanke. Potrebbe essere l’uomo sorpresa per un cambiamento radicale degli stati uniti.
HON. RON PAUL OF TEXAS
IN THE HOUSE OF REPRESENTATIVES
September 5, 2003
http://www.house.gov/paul/congrec/congrec2003/cr090503.htm
Traduzione di Roberta Panizzoli
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1. Introduzione
2. La moneta come questione morale
3. La moneta come questione politica
4. La moneta come questione economica
5. La situazione attuale (I parte)
6. La situazione attuale (II parte)
7. Conclusioni
Fonte: Usemlab