Il desiderio italiano di essere servi
di Guido Viale (il manifesto, 29 aprile 2011)
In nessun paese la piaga del servilismo è prospera come da noi. Grazie anche ai comportamenti di questo governo e alla cultura che passa attraverso dei media sempre più asserviti È il trionfo della sistematica rinuncia alla propria dignità. Ma la voglia di affermarla torna a farsi strada nelle lotte che animano la scena sociale
La piaga che affligge il paese è il servilismo. Non è una piaga esclusivamente nostrana; è diffusa in tutto il mondo, e per ragioni strutturali che poco hanno a che fare con i "valori" propugnati da chi lo pratica. Ma in nessun paese è così pervasiva, consolidata e ostentata come da noi. Non è un fenomeno esclusivo del nostro tempo; è vecchio come il mondo.
Gli antichi Greci disprezzavano gli schiavi - prigionieri catturati in guerra o comprati e venduti - perché avevano preferito servire invece di morire. Il feudalesimo - un regime da non rimpiangere, per molti versi riproposto da alcuni tratti della nostra epoca - era fondato su un patto personale che implicava l’asservimento a tutti i livelli gerarchici. Ma quella fedeltà era regolata da un codice che impegnava tanto il signore che il vassallo.
Oggi invece il servilismo è "nomade": si offre di volta in volta a seconda delle convenienze: la compravendita di deputati con cui l’Italia si governa e fa mostra di sé al resto del mondo ne è una delle manifestazioni più esplicite.
Ciò che caratterizza il servilismo del nostro tempo e del nostro paese è l’essere il meccanismo operativo della competitività: cioè di quella guerra di tutti contro tutti, per affermarsi a spese degli altri, che è la riproposizione - nei rapporti interpersonali, nei meccanismi di promozione sociale, negli avanzamenti in carriera, nella selezione delle classi dirigenti - della concorrenza tra imprese. Un meccanismo che costituisce il fondamento (indiscusso quanto sistematicamente disatteso) di quel "pensiero unico" che ha improntato di sé la nostra epoca fin nei più reconditi e inesplorati recessi del nostro pensiero; anche quando siamo convinti di esserne immuni.
Il servilismo è la ricerca di un’affermazione personale - anche minima, anche irrisoria; solo a volte ben remunerata - a spese della propria autonomia. Cioè, non in base a quello che siamo, o ci sforziamo di essere, o abbiamo acquisito col tempo e a fatica; bensì rinunciando a tutte queste cose; mettendoci "a disposizione" del padrone di turno. Pronti non a sviluppare un nuovo modo di pensare - benvenga!- ma solo a passare a un diverso padrone, che ci dirà lui che cosa possiamo e dobbiamo "pensare". Il servilismo è la rinuncia sistematica e volontaria alla propria dignità.
Al servilismo è strettamente legato il razzismo, anch’esso dispiegato, feroce e ostentato in tutte le sue sfaccettature oggi più mai. Il razzismo è la rivendicazione di un rango, anche infimo, legato alla nascita, al proprio territorio, alla propria lingua, alle proprie abitudini, alla propria appartenenza a un "corpo sociale": un simulacro di una "dignità" affidata a una dimensione fantastica proprio da chi si sente schiacciato e perdente in un contesto dominato dalla competizione; costretto a "farsi servo" per cercare di conservare il proprio status. Il razzismo alligna sempre, in qualche forma sopita, dentro ciascuno di noi, ma si sviluppa - ce lo ha mostrato Zigmund Bauman fin dai tempi di Modernità e Olocausto - solo quando è fomentato e coltivato dall’alto, come compensazione delle frustrazioni di un’esistenza precaria.
Ma che cosa ha reso il servilismo così prospero e diffuso nel nostro paese? Che cosa ci ha portato a cadere così in basso? Certamente, qui più che altrove, c’è stata una carenza di difese immunitarie; un deficit di presidi culturali (in senso antropologico e non elitario) che ha travolto tutta la società come una valanga che si ingrossa rotolando. Si tratta di un processo sicuramente promosso dall’alto: dai comportamenti di questo governo, dalla cultura che esprime attraverso mass media sempre più asserviti; da meccanismi di selezione di ministri, deputati, governatori, consiglieri, dirigenti politici, manager, banchieri, giornalisti e direttori di media e istituzioni, ai quali non sono stati e non sono certo estranei partiti, forze e culture della vera o presunta opposizione.
Ma quei presidi sono affondati, o - auspicabilmente - hanno imboccato un percorso carsico, anche per un processo che nasce "dal basso"; per responsabilità di molti di noi. Perché la rivendicazione della propria dignità, che quarant’anni fa aveva caratterizzato un intero decennio di lotte, di maturazione, di orgoglio di sentirsi protagonisti, di "presa di parola" da parte di persone che non l’avevano mai avuta, è stata per anni associata agli esiti fallimentari di quella stagione di cui molti di noi portano la responsabilità: un fardello che nessuno, o quasi, dei protagonisti di allora si è sentito di caricare sulle proprie spalle; o lo ha fatto in sordina, lasciando a pochi, e non certo ai più attrezzati, l’onere di rivendicare il carattere "formidabile" di quegli anni.
La dignità, la ricerca e la conquista di una propria autonomia personale all’interno di un processo condiviso, azzerando le disparità e le gerarchie che ne ostacolano la realizzazione, è il grande contenuto che aveva accomunato le rivolte studentesche del ’68 contro l’autoritarismo nelle scuole, nell’università, nelle istituzioni e nella società, con l’insubordinazione e la presa di parola degli operai nelle fabbriche, contro le discriminazioni, le gerarchie e i meccanismi di imposizione del servilismo propri dell’organizzazione - allora "fordista" - del lavoro. Un contenuto che si era andato via via diffondendo in tutti i gangli della società: carceri, magistratura, esercito, polizia, quartieri, redazioni; per spianare poi la strada al femminismo degli anni ’70, che in qualche modo aveva coronato, e anche concluso, quel processo.
Ed à proprio quel contenuto di fondo - premessa di ogni altra rivendicazione sostanziale, o di ogni progetto condiviso di trasformazione dei rapporti personali e sociali - quello che, a quarant’anni di distanza, i vari detrattori del "sessantotto" (ultimo in ordine di tempo, dopo Tremonti, Brunetta, Gelmini, Giovanardi & Co, si è ora aggiunto il ministro Sacconi) non riescono ancora e non riusciranno mai a capire; perché è del tutto estraneo al loro modo di vivere e pensare; e, per dirla tutta, al modo in cui hanno fatto carriera. Ma è anche un contenuto che molti di noi, se sufficientemente anziani, hanno dimenticato, o fatto o lasciato dimenticare; e, se più giovani, non hanno mai o quasi mai avuto l’occasione di sperimentare all’interno di un processo condiviso.
Oggi la voglia di affermare la propria dignità, la legittimità dei propri desideri, delle proprie aspirazioni, dei propri sforzi, ritorna con forza a farsi strada all’interno di molti dei processi di lotta o di resistenza che animano la scena sociale: e non solo da noi, ma anche, e molto di più, in paesi vicini da cui da troppo tempo avevamo colpevolmente distolto lo sguardo. In tutti i casi - i movimenti nostrani come le rivolte di altri popoli - si tratta di un fenomeno che va salutato con rispetto e accolto con gioia.
Si discute molto in questi mesi, soprattutto a proposito delle nuove generazioni, di una "scomparsa del desiderio" legata alla dissoluzione della figura del padre e del senso del limite che essa impone. Chi ha avuto occasione per motivi professionali di osservare da vicino questo fenomeno è certo attrezzato a parlarne con cognizione di causa.
Ma visto dall’esterno, e con diversità lessicali in cui si rispecchiano approcci tra loro distanti, l’impressione che si ricava da questo dibattito è quella di una distorsione ottica. Più che prodotto dalla ricerca di un godimento illimitato indotta dal consumismo, la "scomparsa del desiderio" sembra manifestarsi, per lo più, come uno stato di depressione provocato da un mondo senza sbocchi diversi dal servilismo.
È difficile, infatti, desiderare di farsi servi; anche se molti lo fanno: soprattutto per mettersi in grado di poter a loro volta asservire altri. Ma nella rivendicazione della dignità che torna a fare capolino come evento dirompente nei movimenti di questo periodo c’è la potenzialità di una reazione e di una "cura" della depressione, propria di un mondo senza sbocchi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Festival del Diritto 2016 *
Festival del Diritto
Il tema della IX edizione: Dignità
Piacenza, 23-25 settembre 2016
Dignità significa rispetto. Ma non, come nel mondo antico, per un particolare status, che assicura un rango e una condizione di privilegio. Al contrario, la dignità nel mondo moderno implica il riconoscimento di ciò che ci accomuna in quanto essere umani, l’impossibilità di trattare gli altri come mezzi e non come fini.
Oggi si parla molto di dignità, ma essa di fatto è continuamente violata. Eppure si tratta di una delle parole d’ordine che hanno determinato la rivoluzione costituzionale dell’ultimo dopoguerra. Questa ha dato vita al paradigma dello Stato costituzionale democratico e sociale, che ha consentito - almeno nell’Europa occidentale - di includere larghe masse nella cittadinanza democratica di Stati pluriclasse, superando quella guerra civile europea che aveva trascinato il mondo in un rovinoso conflitto totale. Non a caso, la dignità si trova in cima alla Carta tedesca, che si apre proprio con le parole: «La dignità umana è inviolabile».
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea si apre affermando lo stesso principio. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 integra la forma tradizionale «tutti gli uomini nascono liberi e uguali» aggiungendo «in dignità e diritti».
L’art. 3 della Costituzione italiana afferma che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale», arricchendo la nozione di dignità di una fondamentale connotazione sociale: essa non deve essere riconosciuta solo alla persona in quanto tale, ma anche nella relazione con gli altri. -Ciò significa che non si tratta solo di affermare un principio morale astratto, ma di concretizzare il riconoscimento dell’uguale valore delle persone - soprattutto quando sono più esposte e vulnerabili - nei contesti in cui si svolge la loro vita: nell’ambiente di lavoro, nei luoghi di cura, a scuola, in famiglia. La vulnerabilità dell’umano implica una presa in carico da parte del diritto, che avviene all’insegna dell’idea di dignità: ciò significa dare più forza a chi ne ha meno, impedire discriminazioni e prevaricazioni, in tutte le forme in cui possono manifestarsi.
Le conseguenze economiche e sociali di questa impostazione sono evidenti: nessun dogma tecnocratico né interesse geopolitico può giustificare un allentamento delle garanzie della dignità tale da minarne l’efficace protezione. Ciò significa che politiche pubbliche e prassi istituzionali le quali svuotino di fatto i diritti fondamentali, tanto civili quanto sociali e politici, sono prive di legittimità, perché incompatibili con il costituzionalismo più avanzato, affermatosi nella seconda metà del Novecento, quello appunto della dignità.
Nella società moderna, la dignità non indica un’essenza immutabile, magari da contrapporre polemicamente ad altre visioni della natura umana, ma le condizioni e le modalità di un esercizio della libertà in condizioni di effettiva parità. È il progetto di società della democrazia costituzionale, difficile, mai compiuto, destinato a scontrarsi costantemente con logiche di dominio - sia simbolico sia materiale - che opponendosi alla ridistribuzione di potere sociale ripropongono, anche nel mondo globale, un paradigma profondamente gerarchico.
La lotta per la dignità è la lotta per i diritti quali strumenti di liberazione sociale e personale: qui può essere la leva per impedire che il caos geopolitico ed economico nel quale siamo gettati abbia esiti esiziali per la democrazia. Soprattutto l’Europa deve risvegliarsi e ritrovare le proprie radici costituzionali, se non vuole condannarsi all’impotenza e alla disgregazione, e perciò ad essere fattore non di razionalità politica, ma di regresso civile.
Le questioni dei rifugiati e delle migrazioni, quelle relative al tipo di risposta (se emergenziale o politica) da dare al terrorismo fondamentalista, le preoccupazioni connesse alle guerre ai nostri confini (le cui conseguenze entrano sempre di più all’interno dell’Europa) si legano ai problemi della sicurezza sociale, agli effetti della disoccupazione (soprattutto giovanile) e della svalutazione del lavoro. Questo cortocircuito non solo continua ad alimentare la crisi, ma produce una radicale delegittimazione degli ordinamenti politici e costituzionali. La saldatura tra paure, rabbia sociale e sfiducia può condurre ad avventure.
A questo non si risponde rinserrandosi nell’oligarchia, ma raccogliendo le sfide per la dignità sociale che provengono dal basso. Se il diritto riannoda questo filo, potrà contribuire a superare il divorzio governati-governanti e a costruire un nuovo habitat per realizzare forme di liberazione (che saranno sempre parziali e provvisorie, ma non per questo meno irrinunciabili) dall’oppressione del potere arbitrario e dal bisogno: solo così è plausibile l’idea, altrimenti retorica e ingannevole, di una società nella quale, realmente, tutti possano essere liberi.
Il Festival del diritto 2016, attraverso la bussola della “dignità”, punterà a offrire un quadro critico delle grandi sfide che attendono il diritto nel tempo presente, che rendono necessarie innovazioni coraggiose, ma nelle consapevolezza profonda dei fondamenti, inscritti nella tradizione del razionalismo giuridico moderno, sui quali costruire. Quelle sfide investono ambiti molto concreti della vita delle persone, mutandone l’esperienza: dal mondo del lavoro agli effetti delle migrazioni, dalla rivoluzione delle donne e dei diritti di genere alle trasformazioni della famiglia, dalla tutela dell’ambiente a quella della salute, dal funzionamento della giustizia al potere dei media. Come ogni anno, il Festival sarà un lavoro comune e aperto, che vedrà il contributo plurale di associazioni di volontariato, scuole, autorevoli studiosi (giuristi e non) e testimoni della contemporaneità.
Stefano Rodotà, responsabile scientifico
*FONTE: EDITORI LATERZA
Quando la volontà non è più popolare
di Giovanni Valentini (la Repubblica, 30.04.2011(
Per una maggioranza parlamentare fondata sul populismo mediatico, assuefatta alla ricerca e alla raccolta del consenso attraverso il controllo pressoché esclusivo della televisione, pubblica e privata, il subdolo tentativo di sottrarsi ai tre referendum in calendario a metà giugno è un paradosso imbarazzante che ha tutte le caratteristiche di una nemesi storica. Ovvero, di una pena del contrappasso di dantesca memoria. Tanto è avvezzo il centrodestra a invocare come un’ordalia la volontà o la sovranità popolare, al riparo del conflitto di interessi che fa capo al presidente del Consiglio e in forza di questo o quel sondaggio d’opinione, quanto il governo appare adesso preoccupato e smarrito di fronte alla verifica di una consultazione diretta.
Che cosa c’è di più "popolare" di un referendum? In quale altra occasione o con quale altro strumento si può esprimere più efficacemente la volontà del popolo? E in quale istituto della democrazia, appunto, si manifesta meglio la sua sovranità?
Innescata dalla catastrofe atomica giapponese, la paura di una sconfitta politica nel referendum sul nucleare ha indotto il centrodestra a ricorrere a una duplice ipocrisia: prima, quella della "pausa di riflessione"; poi, la cosiddetta "moratoria". Entrambe all’insegna di un proclamato "senso di responsabilità", pubblicamente contraddetto nell’arco di pochi giorni dallo stesso Berlusconi con l’improvvido annuncio che se ne riparlerà comunque fra uno o due anni, appena superato il tragico ricordo di Fukushima. Se questo non è un trucco, uno scippo, una truffa, ai danni della volontà popolare, tanto vale abolire il referendum dal testo della Costituzione.
Hanno ragione perciò i comitati referendari a protestare contro l’oscuramento decretato dalla Rai, nell’ultima fase della dissennata gestione di Mauro Masi, violando palesemente i compiti d’informazione e gli obblighi d’imparzialità e completezza che spettano al servizio pubblico radiotelevisivo. E mentre l’Autorità sulle Comunicazioni richiama i telegiornali per la "sovraesposizione del premier", fa bene ora il sindacato dei giornalisti interni a reclamare un segnale immediato di discontinuità da parte della nuova direzione generale. Piaccia o non piaccia al governo in carica e alla maggioranza posticcia che ancora lo sorregge, il ricorso al referendum abrogativo è un diritto supremo che garantisce il rispetto della volontà e della sovranità popolare.
A ulteriore conferma di questa operazione truffaldina, c’è poi il boicottaggio annunciato contro il referendum sull’acqua. Lasciamo stare qui il merito della questione: se l’acqua resta una risorsa pubblica, se si tratta di un’effettiva privatizzazione oppure se si possa distinguere tra gestione e distribuzione. Quello che conta è che c’è una legge approvata dal Parlamento e che questa legge può essere abrogata o meno attraverso una consultazione popolare. Non è accettabile sul piano democratico che la maggioranza cerchi di cambiare in extremis le carte in tavola, ricorrendo a qualche espediente per modificare o correggere un provvedimento già sottoposto alla procedura referendaria. Allo scippo, si aggiungerebbe in questo caso anche l’esproprio.
Ma il "clou" della manovra anti-referendaria, dissimulata sistematicamente dalla propaganda filo-governativa, riguarda il "legittimo impedimento": cioè il meccanismo che consente al capo del governo di decidere se ed eventualmente quando presentarsi in tribunale, per rispondere alle varie accuse che gli vengono rivolte dalla magistratura, chiamata ad amministrare la giustizia proprio "in nome del popolo italiano". E questo sarebbe davvero il colpo grosso, con l’unico obiettivo di difendere la posizione giudiziaria del presidente del Consiglio. Anche qui, a parte il merito della questione, si tratta essenzialmente di rispettare il fondamentale diritto dei cittadini a esprimere un giudizio definitivo su una legge votata da una maggioranza di parlamentari nominati dai capi-partito.
Arriviamo così all’invereconda situazione di un centrodestra che vince le elezioni con il sostegno di un apparato mediatico in cui si realizza il più macroscopico conflitto di interessi al mondo. Attraverso una legge elettorale definita notoriamente una "porcata", conquista una maggioranza dei seggi in Parlamento pur avendo ottenuto una minoranza dei voti nelle urne. E poi, invocando a ogni piè sospinto la volontà o la sovranità popolare, nega al popolo la possibilità concreta di ricorrere al referendum abrogativo. Se questa è ancora una democrazia, bisogna dire che è gravemente malata.
Da Leopardi a Cordero
«Gli italiani? Schiavi dell’oggi e del futile divertimento»
Individualisti, dediti solo a svaghi e chiesa, senza sentimento del futuro: così nel suo celebre «Discorso» Leopardi dipingeva gli italiani quasi due secoli fa. Franco Cordero riprende il testo e lo legge alla luce dell’oggi
di Gaspare Polizzi (l’Unità, 27.04.2011)
Ci si interroga sull’assenza, in Italia, di indignazione contro il malcostume e l’illegalità diffusi. Certo, come gli altri Paesi dell’Occidente anche la nazione italiana è priva «d’ogni fondamento di morale, e d’ogni vero vincolo e principio conservatore della società», Nel processo di annientamento di fedi e valori della modernità gli Italiani sono però arrivati al capolinea, dissolvendo ogni principio morale e vincolo sociale in un distruttivo individualismo di massa, nel quale vige l’unico principio che suona «ciascuno fa come meglio crede».
MESSE E DIVERTIMENTI
Nella società italiana le uniche forme di aggregazione sono «il passeggio, gli spettacoli, e le Chiese»: «Essi (gli Italiani) dunque passeggiano, vanno agli spettacoli e divertimenti, alla messa e alla predica, alle feste sacre e profane. Ecco tutta la vita e le occupazioni di tutte le classi non bisognose in Italia». Così scriveva Giacomo Leopardi tra la primavera e l’estate del 1824 nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, negli stessi giorni in cui componeva il «terribile» Dialogo della Natura e di un Islandese. Se intendiamo il passeggio alla maniera delle distrazioni turistiche e dei viaggi, traduciamo gli spettacoli e i divertimenti nei format televisivi con giochi e veline, lasciando al suo posto secolare la Chiesa, apriamo uno sguardo impietoso sul nostro presente.
Non soltanto manca in Italia l’opinione pubblica, «regolarmente incerta e senza regola; incostante», «varia e mutabile ogni giorno», «le più volte ingiusta, favorevole al male e a’ mali», ma manca anche «ogni sorta di attività» che comporti la ricerca di un obiettivo e la «speranza nell’avvenire»; priva di illusioni e di aspettative, «or la vita degl’italiani è appunto tale, senza prospettiva di miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, e ristretta al solo presente».
Ora Franco Cordero, in un libro prezioso (Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani seguito dai pensieri d’un italiano d’oggi, Bollati Boringhieri 2011) propone una ristampa molto opportuna del Discorso, integrata da un ampio e coraggioso saggio di ricognizione su Gli ultimi due secoli della malata. Niente di più sensato del riconoscimento che il quadro antropologico descritto da Leopardi non è mutato e del fatto che, se di unità e identità d’Italia si deve tornare oggi a parlare sfruttando al meglio e per il futuro l’occasione del 150 ̊, riformulare la diagnosi di questa «malata» cronica non può che aiutare per una possibile, e sperabile, prognosi.
CINQUE CAPITOLI
Cordero ci offre in cinque ampi capitoli una rassegna ragionata di vicende che - dall’unità d’Italia a oggi - confermano e arricchiscono il quadro delle miserie italiane fornito da Leopardi, tracciano un vademecum che orienta nella società italiana, tramite cronache politiche, sociali e culturali che mettono in scena i miti d’Italia, da Carducci a D’Annunzio, da Giolitti a Prezzolini e a Papini, da Martinetti a Salvemini, e poi il Carnevale nero di Mussolini e del fascismo, per finire con i Tristia, che conducono alla resistibile (ci si augura) ascesa di un «giovane businessman d’anima concupiscente avvolta in sette pelli» che diventa «monarca assoluto della televisione commerciale», di «un pirata, nel cui lessico ‘politica’ significa dominio, lucri, impunità», che «invecchiando perde ogni cautela, torvo e violento».
Ecco il malcostume degli Italiani denunciato da Leopardi: un consenso che poggia su «spettacoli e divertimenti » («tra i suoi elettori meno d’uno su tre sfoglia qualche giornale; in compenso ingoiano almeno tre ore d’ipnosi televisiva quotidiana»). Ma si tratta del radicamento progressivo di una malattia che attecchisce perché «l’organismo italiano, malato, non sviluppa anticorpi».
Ci voleva un giurista dalla penna fine e graffiante per renderci, con contenuti rinnovati, la medesima disincantata diagnosi leopardiana, che rischia di spingere alla solitudine del metafisico, piuttosto che all’impegno del «filosofo di società». E tuttavia, «Il disincanto stimola meccanismi volitivi: non foss’altro, è questione estetica; abitiamo un mondo sordido, ritocchiamolo in meglio».