Modi di vedere - Tempeste sull’Iran
Conteggio alla rovescia
di Alain Gresh (Le Monde Diplomatique, Quaderno della serie Manière de voir)
(traduzione dal francese di José F. Padova)
Silenziosamente, furtivamente, al riparo dalle telecamere, la guerra contro l’Iran è cominciata. Numerose fonti confermano che gli Stati Uniti hanno intensificato i loro aiuti a diversi movimenti armati a base etnica - azeri, beluchi, arabi, curdi, minoranze che, prese nell’insieme, rappresentano circa il 40% della popolazione iraniana - allo scopo di destabilizzare la Repubblica islamica. All’inizio di aprile la televisione ABC rivelava che il gruppo beluchi Jound Al-Islam («I soldati dell’Islam»), che aveva appena sferrato un attacco contro alcuni guardiani della rivoluzione (una ventina i morti), -aveva goduto di un’assistenza segreta americana. Un rapporto di The Century Foundation (1) rivela che commando americani operano all’interno stesso dell’Iran dall’estate del 2004. il 29 gennaio 2002, nel suo discorso sullo Stato dell’Unione, il presidente Gorge W. Bush classificava l’Iran, con la Corea del Nord e l’Iraq, nell’ «Asse del Male». Il 18 giugno 2003 affermava che gli Stati Uniti e i loro alleati «non tollererebbero» l’accesso di questo paese all’armamento nucleare. Non è inutile ricordare il contesto dell’epoca. Mohammad Khatami era allora presidente della Repubblica islamica e moltiplicava i suoi appelli al «dialogo fra le civiltà». In Afghanistan gli Stati Uniti avevano beneficiato del sostegno attivo di Teheran, che aveva messo in moto le sue molteplici reti di contatti per facilitare il rovesciamento del regime dei taliban. Il 2 maggio 2003, in occasione di un incontro a Ginevra fra l’ambasciatore iraniano Javad Zarif e Zalmay Khalilzad, all’epoca inviato speciale del presidente Bush in Afghanistan, i dirigenti di Teheran presentavano alla Casa Bianca una proposta di negoziato globale sui tre temi: le armi di distruzione di massa; il terrorismo e la sicurezza; la cooperazione economica (2). La Repubblica islamica si dichiarava pronta a sostenere l’iniziativa di pace araba del vertice di Beyrut (2002) e a contribuire alla trasformazione degli Hezbollah libanesi in un partito politico. Il 18 dicembre 2003 Teheran firmava il protocollo addizionale del trattato di non proliferazione nucleare (TNP), protocollo che soltanto qualche Paese ha ratificato e che rafforza considerevolmente le capacità di sorveglianza dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA).
Tutti questi gesti di apertura furono totalmente e semplicemente spazzati via dall’Amministrazione americana, che rimane focalizzata su un obiettivo, il rovesciamento del «regime dei mullah». Per creare le condizioni favorevoli a un eventuale intervento militare essa continua ad agitare la «minaccia nucleare». Da anni sono stati prodotti dalle succedentisi amministrazioni americane rapporti allarmisti, sempre smentiti. Nel gennaio 1995 il direttore dell’Agenzia americana per il controllo degli armamenti e il disarmo affermava che l’Iran avrebbe potuto avere la bomba nel 2003; parallelamente, il segretario alla Difesa William Perry affermava che questo obiettivo sarebbe raggiunto prima del... 2000. queste «previsioni» furono ripetute l’anno successivo da Shimon Peres (3). Tuttavia, in aprile 2007, malgrado i progressi compiuti dall?Iran in materia di arricchimento dell’uranio, l’AIEA stimava che Teheran non disporrà «della capacità» di produrre la bomba entro quattro/sei anni.
Come stanno realmente le cose? Dagli anni ’60, quindi ben prima della vittoria della rivoluzione islamica, l’Iran ha cercato di sviluppare una filiera nucleare per preparare il dopo-petrolio. Con l’evoluzione delle tecnologie, la padronanza totale del ciclo del nucleare civile rende più facile il passaggio al militare. I dirigenti di Teheran hanno preso una simile decisione? Nulla permette d’affermarlo. Il rischio esiste? Si, e per motivi facili da comprendere.
Durante la guerra fra Iraq e Iran (1980-1988) il regime di Saddam Hussein ha utilizzato, in violazione di tutti i trattati internazionali, le armi chimiche contro l’Iran; né gli Stati Uniti né la Francia si sono indignati per questo impiego di armi di distruzione di massa che ha traumatizzato il popolo iraniano. D’altra parte, le truppe americane occupano l’Iraq e l’Afghanistan e l’Iran è racchiuso da una rete densa di basi militari straniere. Infine, due Paesi vicini, il Pakistan e Israele, dispongono dell’arma nucleare. Quale leader politico iraniano sarebbe insensibile di fronte a una simile situazione?
Da allora, come fare per evitare che Teheran acceda alle armi nucleari, ciò che rilancerebbe la corsa agli armamenti in una regione già molto instabile e che darebbe un colpo indubbiamente fatale al trattato di non proliferazione? Contrariamente a quello che si è sovente ventilato, l’ostacolo essenziale non sta nella volontà di Teheran di arricchire l’uranio: l’Iran, secondo il TNP, ne ha il diritto ma ha sempre affermato di essere pronto ad apportare volontariamente restrizioni a questo diritto e ad accettare un rafforzamento dei controlli dell’AIEA, per evitare ogni eventuale utilizzo dell’uranio arricchito a fini militari.
D’altra parte la preoccupazione fondamentale della Repubblica islamica è altrove, come lo prova l’accordo sottoscritto il 14 novembre 2004 con la «troika» europea (Francia, Regno Unito, Germania): l’Iran accettava di sospendere provvisoriamente l’arricchimento dell’uranio, dato per inteso che un accordo a lungo termine «fornirebbe impegni fissi sulle questioni di sicurezza». Poiché questi impegni sono stati rifiutati da Washington, l’Iran ha ripreso il suo programma di arricchimento.
Invece di sviluppare una politica indipendente, l’Unione Europea si è allineata su Washington. Le nuove proposte formulate dai cinque membri del Consiglio di Sicurezza e dalla Germania, nel giugno 2006, non contenevano alcuna garanzia di non-intervento negli affari iraniani. Nella sua risposta, in agosto, Teheran esigette di nuovo che «le parti occidentali che vogliono partecipare alle negoziazioni dichiarano a nome loro e degli altri Paesi europei la rinuncia alle politiche di intimidazione, di pressione e di sanzioni contro l’Iran». Solamente un simile impegno permetterebbe di riavviare i negoziati. Altrimenti l’escalation è inevitabile. Tanto più che l’elezione alla presidenza, in giugno 2005, di Mahmud Ahmadinejad non facilita il dialogo, perché il nuovo eletto moltiplica le dichiarazioni incendiarie, specialmente sul genocidio degli Ebrei e su Israele.
Ma l’Iran, un grande Paese dalla ricca storia, non può essere riassunto al suo solo presidente. Nel seno stesso del potere le tensioni sono forti e Ahmadinejad alle elezioni municipali e a quelle dell’Assemblea dei saggi in dicembre 2006 ha subito una disfatta elettorale. In senso più largo, la contestazione a un tempo economica e sociale rimane forte e sono vivaci le aspirazioni a più libertà, in particolare nelle donne e nei giovani. La società rifiuta ogni azione tendente a irreggimentarla. Il solo strumento di cui il regime dispone per cementare la popolazione attorno a sé resta proprio il nazionalismo, il rifiuto delle ingerenze straniere delle quali l’Iran ha sofferto nel corso dell’intero XX secolo...
Malgrado il disastro iracheno niente indica che il presidente Bush abbia rinunciato ad attaccare l’Iran. Questo obiettivo s’inscrive nella sua visione di una «terza guerra mondiale» contro il «fascismo islamico», una guerra ideologica che non può finire se non con la vittoria totale. La demonizzazione dell’Iran, facilitata dall’atteggiamento del suo presidente, s’inscrive in questa strategia, che può sfociare in una nuova avventura militare. Sarebbe una catastrofe, non soltanto per l’Iran e per il Vicino Oriente, ma anche per le relazioni che l’Occidente, e in primo luogo l’Europa, mantiene con questa regione del mondo.
(1) Sam Gardiner, « The end of the “summer of diplomacy” : Assessing US military options on Iran », Washington, DC, 2006.
(2) Circa questa offerta leggere Gareth Porter, « Burnt offering », The American Prospect, Washington, DC, juin 2006.
(3) Vedi « Quand l’Iran aura-t-il l’arme nucléaire ? », « Nouvelles d’Orient », 4 septembre 2006.
Testo originale:
Manière de voir - Tempêtes sur l’Iran.
Compte à rebours
Silencieusement, furtivement, à l’abri des caméras, la guerre contre l’Iran a commencé. De nombreuses sources confirment que les Etats-Unis ont intensifié leur aide à plusieurs mouvements armés à base ethnique - Azéris, Baloutches, Arabes, Kurdes, minorités qui, ensemble, représentent environ 40 % de la population iranienne -, dans le but de déstabiliser la République islamique. Début avril, la télévision ABC révélait ainsi que le groupe baloutche Jound Al-Islam (« Les soldats de l’islam »), qui venait de mener une attaque contre des gardiens de la révolution (une vingtaine de tués), avait bénéficié d’une assistance secrète américaine. Un rapport de The Century Foundation (1) révèle que des commandos américains opèrent à l’intérieur même de l’Iran depuis l’été 2004. Le 29 janvier 2002, dans son discours sur l’état de l’Union, que le président George W. Bush classait l’Iran, avec la Corée du Nord et l’Irak, dans l’« axe du Mal ». Le 18 juin 2003, il affirmait que les Etats-Unis et leurs alliés « ne toléreraient pas » l’accession de ce pays à l’arme nucléaire. Il n’est pas inutile de rappeler le contexte de l’époque. M. Mohammad Khatami était alors président de la République islamique et multipliait les appels au « dialogue des civilisations ». En Afghanistan, les Etats-Unis avaient bénéficié du soutien actif de Téhéran, qui avait utilisé ses nombreux relais pour faciliter le renversement du régime des talibans. Le 2 mai 2003, lors d’une rencontre à Genève entre l’ambassadeur iranien Javad Zarif et M. Zalmay Khalilzad, à l’époque envoyé spécial du président Bush en Afghanistan, les dirigeants de Téhéran soumettaient à la Maison Blanche une proposition de négociation globale sur trois thèmes : les armes de destruction massive ; le terrorisme et la sécurité ; la coopération économique (2). La République islamique se déclarait prête à soutenir l’initiative de paix arabe du sommet de Beyrouth (2002) et à contribuer à la transformation du Hezbollah libanais en parti politique. Le 18 décembre 2003, Téhéran signait le protocole additionnel du traité de non-prolifération nucléaire (TNP), protocole que seuls quelques pays ont ratifié et qui renforce considérablement les capacités de surveillance de l’Agence internationale de l’énergie atomique (AIEA).
Tous ces gestes d’ouverture furent purement et simplement balayés par l’administration américaine, qui reste focalisée sur un objectif, le renversement du « régime des mollahs ». Pour créer les conditions d’une éventuelle intervention militaire, elle continue à agiter la « menace nucléaire ». Depuis des années, des rapports alarmistes ont été produits par les administrations américaines successives, et toujours démentis. En janvier 1995, le directeur de l’Agence américaine pour le contrôle des armements et le désarmement affirmait que l’Iran pourrait avoir la bombe en 2003 ; parallèlement, le secrétaire à la défense William Perry affirmait que cet objectif serait atteint avant... 2000. Ces « prévisions » furent répétées l’année suivante par M. Shimon Pérès (3). Pourtant, en avril 2007, malgré les progrès accomplis par l’Iran en matière d’enrichissement d’uranium, l’AIEA estime que Téhéran ne disposera « des capacités » de produire la bombe que d’ici quatre à six ans.
Qu’en est-il réellement ? Depuis les années 1960, donc bien avant la victoire de la révolution islamique, l’Iran a cherché à développer une filière nucléaire pour préparer l’après-pétrole. Avec l’évolution des technologies, la maîtrise totale du cycle du nucléaire civil rend plus facile le passage au militaire. Les dirigeants de Téhéran ont-ils pris une telle décision ? Rien ne permet de l’affirmer. Le risque existe-t-il ? Oui, et pour des raisons faciles à comprendre.
Durant la guerre irako-iranienne (1980-1988), le régime de Saddam Hussein a utilisé, en violation de tous les traités internationaux, des armes chimiques contre l’Iran ; ni les Etats-Unis ni la France ne se sont indignés de cet usage d’armes de destruction massive qui a traumatisé le peuple iranien. D’autre part, les troupes américaines campent en Irak et en Afghanistan, et l’Iran est enserré dans un réseau dense de bases militaires étrangères. Enfin, deux pays voisins, le Pakistan et Israël, disposent de l’arme nucléaire. Quel leader politique iranien serait insensible à un tel contexte ?
Comment, dès lors, éviter que Téhéran n’accède à l’arme nucléaire, ce qui relancerait la course aux armements dans une région déjà bien instable et porterait un coup sans doute fatal au traité de nonprolifération ? Contrairement à ce qui est souvent avancé, l’obstacle essentiel ne réside pas dans la volonté de Téhéran d’enrichir l’uranium : l’Iran, selon le TNP, en a le droit mais a toujours affirmé qu’il était prêt à apporter volontairement des restrictions à ce droit et à accepter un renforcement des contrôles de l’AIEA pour éviter toute éventuelle utilisation de l’uranium enrichi à des fins militaires.
La préoccupation fondamentale de la République islamique est ailleurs, comme le prouve l’accord signé le 14 novembre 2004 avec la « troïka » européenne (France, Royaume-Uni, Allemagne) : l’Iran acceptait de suspendre provisoirement l’enrichissement de l’uranium, étant entendu qu’un accord à long terme « fournirait des engagements fermes sur les questions de sécurité ». Ces engagements ayant été refusés par Washington, l’Iran reprit son programme d’enrichissement.
Au lieu de poursuivre une politique indépendante, l’Union européenne s’est alignée sur Washington. Les nouvelles propositions formulées par les cinq membres du Conseil de sécurité et par l’Allemagne, en juin 2006, ne contenaient aucune garantie de non-intervention dans les affaires iraniennes. Dans sa réponse, en août, Téhéran exigea à nouveau que « les parties occidentales qui veulent participer aux négociations annoncent en leur nom et celui des autres pays européens la mise de côté des politiques d’intimidation, de pressions et de sanctions contre l’Iran ». Seul un tel engagement permettrait de relancer les négociations.`
Autrement, l’escalade est inévitable. D’autant que l’élection à la présidence, en juin 2005, de M. Mahmoud Ahmadinejad ne facilite pas le dialogue, le nouvel élu multipliant les déclarations incendiaires, notamment sur le génocide des Juifs et sur Israël. Mais l’Iran, un grand pays à la riche histoire, ne se résume pas à son président. Les tensions sont fortes au sein même du pouvoir, et M. Ahmadinejad a subi une déroute électorale aux élections des municipalités comme de l’Assemblée des experts en décembre 2006. Plus largement, la contestation à la fois économique et sociale reste forte, et les aspirations à plus de libertés sont vives, notamment chez les femmes et chez les jeunes. La société refuse toute caporalisation. Le seul atout que possède le régime pour souder la population autour de lui reste, justement, le nationalisme, le refus des ingérences étrangères dont l’Iran a souffert tout au long du XXe siècle...
Malgré le désastre irakien, rien n’indique que le président Bush ait renoncé à attaquer l’Iran. Cet objectif s’inscrit dans sa vision d’une « troisième guerre mondiale » contre le « fascisme islamique », une guerre idéologique qui ne peut se terminer que par la victoire totale. La diabolisation de l’Iran, facilitée par la posture de son président, s’inscrit dans cette stratégie, qui peut déboucher sur une nouvelle aventure militaire. Ce serait une catastrophe, non seulement pour l’Iran et pour le Proche-Orient, mais aussi pour les relations que l’Occident, et en premier lieu l’Europe, entretient avec cette région du monde.
Alain Gresh.
(1) Sam Gardiner, « The end of the “summer of diplomacy” : Assessing US military options on Iran », Washington, DC, 2006.
(2) Sur cette offre, lire Gareth Porter, « Burnt offering », The American Prospect, Washington, DC, juin 2006.
(3) Lire « Quand l’Iran aura-t-il l’arme nucléaire ? », « Nouvelles d’Orient », 4 septembre 2006.
26 maggio 2007
Ansa» 2008-01-10 06:19
BUSH IN ISRAELE: SPERA NELLA PACE MA MINACCIA L’IRAN
Dall’inviato Cristiano del Riccio
GERUSALEMME - E’ giunto in Israele per cogliere la "opportunità storica" di un accordo di pace tra israeliani e palestinesi. Ma il presidente americano George W. Bush, nel primo giorno del suo ambizioso viaggio in Medio Oriente, si ritrova ad agitare la sciabola nei confronti dell’Iran, ammonendo Teheran, dopo l’incidente di domenica nello Stretto di Hormuz, che vi saranno "serie conseguenze" in caso di nuove provocazioni contro le navi Usa . "L’Iran continua ad essere una minaccia per la pace mondiale - afferma Bush nella sua conferenza stampa congiunta col premier israeliano Ehud Olmert -. Il mio consiglio a Teheran è di non continuare in questi attacchi provocatori: non fatelo più".
La gamma delle "serie conseguenze" non è precisata ma Bush sottolinea che "tutte le opzioni" sono sul tavolo. Poco prima la Casa Bianca aveva già ammonito l’Iran "a non scherzare col fuoco". Facendo sapere che erano pronte nuove sanzioni contro la brigata iraniana Qods (l’elite della Guardia Rivoluzionaria) per avere fomentato la violenza in Iraq. Lo scopo principale della visita, la prima di Bush in Israele da presidente, rischia quasi di passare in secondo piano. Anche se l’inquilino della Casa Bianca ha spiegato che esiste una "opportunità storica" per arrivare ad un accordo di pace e per "diffondere la libertà in Medio Oriente".
Al suo fianco il premier Olmert ribadisce che Israele "non deve perdere questa opportunità" ed afferma di essere disposto "a quelle difficili decisioni" inevitabilmente legate ad un accordo di tale portata. Ma esistono dei limiti ben precisi, mette in risalto Olmert: non possono essere tollerati lanci di razzi da parte di Hamas, dalla striscia di Gaza, contro israeliani innocenti. "Non ci sarà pace finché il terrorismo non cesserà - ha detto Olmert -. Finché continuerà il terrorismo a Gaza sarà difficile giungere ad un accordo con i palestinesi". Razzi sono partiti in serie anche oggi dai territori di Hamas. La reazione israeliana è stata immediata con una rappresaglia militare che ha provocato la morte di tre persone, fra cui due civili. Domani il presidente Bush si reca in Cisgiordania per incontrare a Ramallah il presidente palestinese Abu Mazen. "Discuterò con lui il problema di questi attacchi terroristici", ha detto Bush, "deve essere chiaro che non saranno tollerati dai loro territori rifugi per i terroristi".
Nel suo primo commento, appena giunto in Israele, nella cerimonia di benvenuto all’aeroporto di Tel Aviv, Bush aveva affermato che l’alleanza tra Stati Uniti e Israele garantisce sicurezza al paese come "stato ebraico". E’ una espressione vigorosamente respinta dai palestinesi perché chiude di fatto la porta ad un ritorno dei profughi palestinesi (e dei loro discendenti) costretti ad evacuare la regione quando venne creato Israele: ormai quattro milioni di persone che rappresentano uno dei maggiori problemi da risolvere tra le due parti. Hamas ha reagito immediatamente: "questo equivale a stabilire un regime di apartheid nella nostra regione ai danni della popolazione palestinese".
A Gaza alcune migliaia di attivisti di Hamas hanno oggi manifestato sventolando immagini di Bush ritratto come un vampiro che succhia sangue musulmano. A Gerusalemme sono stati dislocati dalle autorità di Tel Aviv oltre 10.000 agenti per proteggere la sicurezza di Bush. Bush ha fatto impegnare Olmert ed il presidente palestinese Abu Mazen a fare tutto il possibile per raggiungere uno storico accordo di pace "entro il 2008".
Ma esiste molto scetticismo in Medio Oriente (e non solo qui) sulla possibilità che questa promessa possa tradursi in realtà. Tra gli scopi del viaggio di Bush c’é quello di convincere i maggiori alleati arabi degli Usa a dare il loro sostegno al negoziato di pace tra israeliani e palestinesi e a coordinare le iniziative per bloccare la aggressività iraniana nella regione. Nella cerimonia di benvenuto all’aeroporto il presidente israeliano Shimon Peres aveva detto che "bisogna fermare la pazzia di Iran, Hamas ed Hezbollah: l’Iran non deve sottovalutare la determinazione di Israele a difendersi". Per quanto riguarda la pace, Peres ha affermato"i prossimi dodici mesi saranno un momento della verità, ma non devono produrre solo parole".
Ma i fatti non promettono bene: solo ieri Olmert ed Abu Mazen hanno dato luce verde ai negoziati sullo status finale dopo un periodo di scarsi progressi. Tra gli ostacoli c’é la rimozione degli insediamenti illegali israeliani: Bush ha detto oggi che devono sparire subito ma Olmert è apparso più vago e non desidera fissare una precisa scadenza. E da questo punto di vista Gerusalemme - ha detto poi il premier ai giornalisti - non può essere considerata come gli altri territori palestinesi.
il direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica
Baradei: nucleare in Iran? Nessuna prova
«Non ho nessuna informazione concreta,
le minacce americane non fanno che gettare benzina sul fuoco»
WASHINGTON - Non ci sono prove che l’Iran stia mettendo a punto un ordigno atomico. A dirlo è il direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica Mohammed El Baradei. «Non ho nessuna informazione concreta sul fatto che esista nel Paese un programma nucleare in corso ad oggi» ha detto durante un’intervista alla Cnn, aggiungendo che le recenti minacce americane non fanno che «gettare benzina sul fuoco».
* Corriere della Sera, 28 ottobre 2007
Gli Usa decretano: le Guardie iraniane sono «terroristi»
Nuove sanzioni all’Iran
di Ma.Fo. (il manifesto, 26.10.2007)
Gli Stati uniti hanno annunciato ieri nuove sanzioni contro l’Iran, con un gesto che sembra più un preludio a un attacco militare che un semplice inasprimento delle misure già in vigore.
Le sanzioni annunciate ieri infatti riguardano le Guardie della rivoluzione (Sepah-e-pasdaran). La segretaria di stato Condoleezza Rice, insieme al segretario al tesoro Henry Paulson, ha accusato la divisione al-Quds delle Guardie (le truppe di élite) di «sostenere il terrorismo», e l’intero corpo delle Guardie della Rivoluzione di «proliferare armi di distruzione di massa». Ha quindi annunciato sanzioni contro oltre 20 aziende iraniane, banche e individui, nonché contro il ministero della difesa di Tehran. Misure, ha detto Rice, pensate per «aumentare per l’Iran il costo del suo comportamento irresponsabile», e costringere Tehran a mettere fine al suo programma di arricchimento dell’uranio e alle sue «attività terroriste». L’effetto pratico di tali sanzioni non è evidente: il Sepah-e-pasdaran non è certo in rapporti d’affari con le banche americane, e anche le banche iraniane colpite (Bank Melli, Bank Mellat e Bank Saderat) erano comunque già tagliate fuori da ogni transazione con istituti di credito americani.
L’effetto è soprattutto politico. E’ infatti la prima volta che gli Stati uniti adottano sanzioni contro le forze armate di uno stato sovrano. Washington ha più volte accusato negli ultimi mesi l’Iran (anzi, le Guardie della Rivoluzione) di armare e sostenere milizie in Iraq: ora, dichiarando le Guardie organizzazione «terrorista», Washington si dà un appiglio per giustificare eventuali operazioni militari contro Tehran.
La decisione statunitense ha avuto l’immediato sostegno di Londra e Gerusalemme, e questo non sorprende. «Sosteniamo le ulteriori pressioni americane sul regime iraniano», ha detto il portavoce del ministero degli Esteri britannico. Contraria è invece la Russia. Il presidente Vladimir Putin ieri sera ha obiettato all’annuncio americano, dicendo che così si mette Tehran alle strette: «Perché dovremmo peggiorare la situazione, metterli all’angolo, minacciando nuove sanzioni?», ha detto durante una visita a Lisbona. Mosca ha già chiarito che non appoggerà una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza con nuove sanzioni a Tehran». In serata è giunta anche la prima reazione di Tehran. L’Iran condanna il gesto degli Stati uniti: «Le politiche ostili dell’America contro la nazione iraniana e le nostre organizzazioni legali sono contrarie alle norme internazionali e non hanno alcun valore», ha detto il portavoce del ministero degli esteri alla tv di stato.
Il presidente russo paragona l’attuale scontro al momento più buio della Guerra Fredda
Al centro del malumore russo l’intenzione Usa di porre l’Est Europa sotto il suo ombrello protettivo
Putin: "Le tensioni sullo scudo spaziale
ricordano la crisi dei missili a Cuba"
LISBONA - Le tensioni tra Usa e Russia sull’estensione del progetto di scudo spaziale americano anche a difesa dell’Europa orientale sono paragonabili alla crisi missilistica di Cuba del 1962. A riportare il mondo indietro al periodo più drammatico della Guerra Fredda con questo inquietante parallelismo è stato il presidente russo Vladimir Putin. "Vi voglio rammentare che i nostri rapporti si sono evoluti lungo un percorso simile a metà degli anni ’60 del secolo scorso", ha detto il capo del Cremlino parlando a Lisbona a margine del vertice russo-portoghese.
"Per noi - ha aggiunto - tecnologicamente la situazione è molto simile". "Azioni analoghe da parte dell’Unione Sovietica quando posizionò i missili a Cuba provocarono la crisi", ha ricordato ancora Putin. "Per noi tecnologicamente la situazione è analoga: vengono create delle minacce simili alle nostre frontiere. Grazie a Dio al momento non c’è nessuna crisi tipo quella cubana, e questo soprattutto grazie al fatto che i rapporti tra Russia, Stati Uniti ed Europa sono cambiati".
L’intenzione di Washington di far cadere anche Polonia e Repubblica Ceca sotto l’ombrello protettivo del suo scudo spaziale ha già profondamente avvelenato i rapporti con Mosca. Nelle scorse settimane, in occasione di una visita al Cremlino del Segretario di Stato Condoleezza Rice, gli Stati Uniti hanno già dovuto incassare un durissimo "niet".
"Non esiste alcun accordo sulla questione", aveva messo in guardia il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov al termine dell’incontro con la delegazione americana, aggiungendo che l’intero progetto dell’estensione all’Est dello scudo "dev’essere congelato", se davvero si vuole che i negoziati bilaterali del trattato Inf per la riduzione degli armamenti giungano a un qualche risultato concreto.
Lavrov in quell’occasione aveva anche avvertito gli Stati Uniti che Mosca "prenderà delle misure per neutralizzare la minaccia" se Washington andrà avanti con il suo progetto senza tenere conto delle preoccupazioni russe.
* la Repubblica, 26 ottobre 2007.
USA: BUSH CHIEDE ALTRI 46 MLD DOLLARI PER IRAQ ED AFGHANISTAN
Washington, 22 ott. - (Adnkronos) - George Bush torna a battere cassa al Congresso per la guerra in Iraq ed in Afghanistan. Con una breve dichiarazione della Roosevelt room alla Casa Bianca, il presidente americano ha chiesto alla riluttante maggioranza democratica lo stanziamento aggiuntivo di 46 miliardi di dollari, portando cosi’ ad un totale di 194,4 miliardi di dollari la richiesta di spesa per le operazioni militari nel 2008.
Fabio Mini: tutto pronto per guerra in Iran, l’Italia combatte già
Un articolo del Gen. Mini tratto da espresso - repubblica *
Con una nota del nostro direttore
La guerra contro l’Iran, secondo il gen Mini, starebbe dunque per scattare e l’Italia sarebbe già in prima linea. Il soldato del SISMI morto in Afghanistan probabilmente stava "lavorando" proprio per tale scopo. Il tutto senza che il parlamento, il presidente della Repubblica ed il Popolo Italiano sappia alcunchè di cosa stia effettivamente succedendo in Afghanistan e quali siano le vere intenzioni degli Stati Uniti e del suo presidente Bush. Farà o no la guerra nell’anno che lo separa dalla elezioni per la Casa Bianca che il Partito Repubblicano rischia di perdere alla grande? O farà la guerra proprio per vincere quelle elezioni? Domande a cui non siamo in grado di rispondere. Sappiamo però che abbiamo il dovere come cittadini di questo mondo di far sentire la nostra volontà di pace.
Giovanni Sarubbi
Operazione sciame di fuoco
di Fabio Mini
Tutto è pronto per la guerra. E l’offensiva non colpirà soltanto gli impianti nucleari ma cancellerà tutta la potenza iraniana. Concentrando le forze d’attacco più moderne in orde come quelle di Gengis Khan
Chi pensava che il via libera all’attacco israelo-statunitense all’Iran sarebbe venuto dal Congresso americano si sbagliava. E si sbagliava anche chi pensava che un presidente Bush frustrato dal caos iracheno, dallo stallo afghano e dalle pressioni delle lobby industriali avrebbe finito per decidere da solo. L’attacco all’Iran si farà grazie alle dichiarazioni del neo ministro degli Esteri francese Kouchner. In questi anni di minacce e controminacce, di scuse e pretesti per fare la guerra le uniche parole ’rivelatrici’ sono state quelle della laconica frase "ci dobbiamo preparare al peggio". Molti le hanno prese come uno scivolone, altri le hanno considerate una provocazione scaramantica, altri come un incitamento e altri ancora come una rassegnazione ad un evento ineluttabile. Può essere che la frase contenga tutto ciò ma l’essenza profonda delle parole di Kouchner è diversa.
In questi ultimi 15 anni di interventi militari di vario tipo e in tutte le parti del mondo si sono stabilite strane connessioni e affinità. Gli eserciti sono integrati dai privati, gli idealisti dai mercenari, gli affari dall’ideologia, la verità si è intrisa di menzogne che neppure la logica della propaganda riesce più a scusare. Ed una delle connessioni più insolite è quella che si è realizzata tra militari, operatori umanitari e politica estera arrivando a permettere che ognuna delle tre componenti si possa spacciare per le altre due. Il collante principale di questo connubio è la concezione dell’emergenza. La politica estera ha perduto il carattere di continuità dei rapporti fra gli Stati e nell’ambito delle organizzazioni internazionali. Si dedica ormai da tempo a gestire rapporti di emergenza, rapporti temporanei legati ad interessi o posizioni transitorie e mutevoli e a geometrie variabili.
D’altra parte, la politica dell’emergenza è l’unica che permette l’impegno limitato e selettivo. Inoltre, siccome la dimensione dell’emergenza può essere manipolata o interpretata, può essere costruita o smontata a piacimento. Seguendo la stessa logica, gli eserciti di questi ultimi quindici anni si sono dedicati esclusivamente all’emergenza, preferibilmente esterna e per motivi cosiddetti umanitari in modo da garantirsi consenso e sostegno. Non ci sono più eserciti capaci di difendere i propri territori o di assicurare la difesa in caso di guerra. È sempre più difficile trovare uno Stato che sia minacciato di guerra da un altro Stato e tutti gli eserciti del mondo oggi contano su un preavviso di almento 12 mesi per mobilitare le risorse idonee alla difesa nazionale. Si sono perciò specializzati nell’emergenza sia come tipo sia come tempo e ritmo degli interventi.
Quando Kouchner dice candidamente che ci dobbiamo ’preparare al peggio’ non fa altro che interpretare una filosofia che non si pone come obiettivo la ricerca del meglio, della soluzione meno traumatica, ma che invoca la gestione dell’emergenza da parte della politica, dello strumento militare e delle organizzazioni umanitarie ormai legate a doppio filo. È anche l’ammissione dell’incapacità della stessa politica nel pensare e trovare soluzioni durature, dell’incapacità degli strumenti militari di gestire situazioni conflittuali fino alla completa stabilizzazione e dell’incapacità delle organizzazioni umanitarie di risolvere i problemi della gente in una prospettiva un po’ più lunga di quella offerta dall’emergenza. Infine Kouchner ammette anche che la somma di queste incapacità conduce ineluttabilmente alla guerra. E allora guerra sia.
È evidente che in queste condizioni sono necessarie alcune forzature che garantiscano la realizzazione dell’emergenza e degli interventi delle varie componenti: deve succedere qualcosa - quello che gli analisti chiamano ’trigger’ - che determini l’emergenza politica, deve essere in immediato pericolo la sicurezza collettiva e si deve prevedere una catastrofe umanitaria (più grande è meglio è). Si deve in sostanza possedere un apparato gestibile capace di ’inventare’ l’emergenza e di inventarne la fine che consente il distacco e il disimpegno a prescindere dalla soluzione dei problemi. L’attacco all’Iran rientra perfettamente in questo quadro e, a ben vedere, è un quadro ormai quasi completo.
La disponibilità di pretesti per l’attacco è molteplice.
L’idea che l’Iran voglia sviluppare un ordigno nucleare e che voglia distruggere Israele è ormai largamente ammessa da tutti. Mancano i riscontri e le prove oltre alle fanfaronate, ma siamo stati testimoni di fanfaronate terroristiche che si sono comunque materializzate e nessuno vuole più rischiare, neppure per amore della verità. Un attacco iraniano o sostenuto dagli iraniani alle forze americane in Iraq, anche questo senza prove, sta convincendo persino i più scettici. Prima o poi, a forza di parlarne ed evocarlo, sarà preso come un invito o una sfida e sarà fatto sul serio. La politica iraniana di sostegno ad Hamas e agli Hezbollah rende Teheran estremamente vulnerabile. Basta un’intemperanza o un errore di queste formazioni per scatenare un intervento militare immediato.
La politica estera dei maggiori paesi, Europa inclusa, si è ormai abituata all’idea che un intervento armato sia in grado di ricacciare l’Iran sulle posizioni di vent’anni fa. Sta anche passando l’idea che lo scopo non è tanto e soltanto quello di impedire la formazione di una potenza nucleare, ma quello di eliminare il paese come attore regionale portatore d’interessi petroliferi e strategici in tutta l’Asia centro-meridionale. Sul piano militare tutto è ormai pronto da tempo. I piani d’attacco sono in vigore dal 1979, all’epoca della crisi dell’ambasciata Usa, e sono stati aggiornati con nuove tecnologie e strategie. La tesi che si tratti di un attacco mirato essenzialmente alle strutture atomiche senza danni collaterali per la popolazione civile è soltanto una pietosa fantasia di chi si è ormai abituato a mentire. Anche l’idea che possa essere limitato al territorio iraniano è quanto meno sospetta, perché lo scopo dell’ostinazione e dell’ostentazione degli ayatollah da una parte e di quella israelo-americana dall’altra riguarda interessi e ambizioni che vanno ben al di là del Golfo persico.
Qualsiasi genere di attacco produrrà ingenti perdite di militari e civili a prescindere che s’inneschi una emergenza nucleare di fall out o una fuga di radiazioni. Qualsiasi attacco non potrà che avere come premessa la distruzione delle strutture difensive: basi aeree e missilistiche, depositi, rampe mobili, porti militari, unità in navigazione, difese contraeree e radar, reparti terrestri mobili e corazzati, centri di comunicazione e di comando e controllo dovranno essere eliminati prima o contemporaneamente all’attacco alle installazioni nucleari. Molte di queste strutture coincidono con i maggiori centri abitati. Facendo la tara ai più sofisticati missili da crociera, alle bombe intelligenti guidate sugli obiettivi da parte dei commandos israeliani e statunitensi, già da tempo all’opera in Iran, rimane un margine abbastanza elevato di danni collaterali. Se dovessero essere usati al posto delle bombe ad esplosivo convenzionale ’bunker busting’ i mini ordigni nucleari a fissione o le bombe a neutroni, la percentuale di danni potrebbe aumentare ma non così enormemente come molti asseriscono.
Anche la tesi che si possano fare attacchi chirurgici con una sola componente, quella aerea e missilistica, è uno specchio per le allodole. Un’azione complessa che miri, come si dice di voler fare, a rispedire il potenziale bellico iraniano all’età della pietra, presuppone azioni di attacco multiple, con forze multiple, da direzioni multiple in tempi ristretti in modo da impedire all’avversario, come diceva il colonnello Boyd, ogni capacità di decisione, risposta e controstrategia. L’azione multipla deve anche prevenire la ritorsione diretta da parte delle forze aeree e navali iraniane contro le installazioni e i trasporti petroliferi nel Golfo Persico e in quello di Oman. Deve neutralizzare le minacce missilistiche alle basi militari americane in Asia Centrale e nel medio Oriente. Deve impedire azioni iraniane di strategia indiretta in Afghanistan, in Pakistan, in Iraq, in Libano, a Gaza, nel Caucaso e in ogni altro posto dove uno sciita può creare un fastidio. Teheran inoltre controlla la costa settentrionale dello stretto di Hormuz e la chiusura di questa via d’acqua al traffico delle petroliere potrebbe far schizzare il prezzo del petrolio a livelli oscillanti tra i 200 e i 400 dollari al barile. Lo stesso risultato si otterrebbe se l’Iran ritorcesse le azioni di sabotaggio e bombardamento sugli impianti petroliferi di altri paesi dell’area.
La strategia militare dell’attacco all’Iran non può perciò essere affidata ad un attacco chirurgico o ad una sola componente. Non può che essere quella della ’Swarm Warfare’, la guerra dello sciame o dell’orda, riesumata da Arquilla e Ronfeld dopo l’insuperabile applicazione di Gengis Khan. In termini moderni questa strategia attiva tutte le dimensioni della guerra - terrestre, navale, aerea, missilistica, spaziale, virtuale e dell’informazione - su teatri e livelli multipli. Per far questo occorre che lo ’sciame’ delle varie componenti e delle azioni che si sviluppano concentrandosi in un luogo e in una dimensione per poi trasferirsi su altri luoghi e altre dimensioni sia comunque sufficiente ad impedire qualsiasi reazione. Le orde incaricate della distruzione fisica degli obiettivi devono integrarsi e concentrarsi sui bersagli con le orde virtuali delle azioni diplomatiche, della guerra psicologica e con quelle della manipolazione dell’informazione.
Le azioni militari devono poi essere finalizzate a creare una emergenza umanitaria che consenta l’intervento di organizzazioni internazionali in territorio iraniano. Ovviamente la catastrofe deve essere attribuita alla responsabilità degli stessi iraniani. Anche in questo campo tutto è ormai pronto o quasi, soprattutto dopo l’esortazione di Kouchner. Agenzie internazionali e organizzazioni non governative stanno già scalpitando per andare in Iran a togliere il velo alle donne. Se si dà loro la possibilità d’intervenire per raccogliere i rifugiati, curare i feriti, fare la conta dei morti ed indire una tornata di elezioni al mese, ci sarà la gara per portare la democrazia in Iran.
La complessità di questo scenario non deve indurre a credere che si debbano mobilitare quantità enormi di forze. Le capacità di bombardamento degli stormi israeliani e statunitensi sono talmente elevate da essere in grado di battere obiettivi multipli con un numero limitato di velivoli. I missili da crociera che possono essere lanciati dal mare sono ormai armi tecnologiche che non hanno bisogno di interventi di massa per realizzare distruzioni mirate o su larga scala. Semmai la molteplicità dei piani e dei livelli d’intervento porrà problemi di coordinamento, comando e controllo, ma nulla di eccezionale. Stati Uniti e Israele collaborano da mezzo secolo e i problemi di pseudo autorizzazioni da parte di paesi terzi ai sorvoli o al transito di truppe sono ormai superati sia dagli accordi politici con i paesi interessati sia dalla predisposizione delle due potenze a ignorare le obiezioni.
Rimane, grave e importante, l’incognita del post-emergenza. L’incognita sul futuro di uno Stato di origine e mentalità imperiale che si vede transitato dal ruolo di Stato canaglia a quello di Stato fallito e da aspirante al ruolo di potenza regionale a quello di buco nero politico e strategico. Rimane forte l’incognita della reazione non tanto alla sconfitta o al ridimensionamento delle aspirazioni ma all’umiliazione. Non è escluso che quello che si vuole evitare, la nuclearizzazione dell’Iran, tutta da dimostrare e tutta da realizzare, non sia invece favorita con l’aiuto di potenze esterne proprio dall’umiliazione.
Fabio Mini è generale, ex comandante delle forze della Nato in Kosovo
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/Operazione-sciame-di-fuoco/1796788
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L’Italia combatte già
L’Italia sta già combattendo su uno dei fronti del conflitto iraniano. Perché è difficile non collegare l’intensificazione degli scontri nella regione di Herat, la zona afghana affidata al controllo del nostro contingente, con l’escalation del confronto tra Occidente e Iran.
Quella che era la regione più tranquilla dell’Afghanistan liberato dai talebani, in poco più di un anno si è trasformata in una terra insidiosa. L’ultimo episodio è la cattura dei due agenti del Sismi e la successiva operazione per liberarli. Gli uomini del servizio segreto militare erano in missione nell’area non lontano dalla frontiera iraniana diventata un cardine nei rifornimenti della guerriglia. Lì nuclei tribali finora neutrali verso la presenza delle truppe della Nato hanno potenziato i propri arsenali e raddoppiato i legami con i guerriglieri islamici. Dietro, secondo i sospetti del governo statunitense, ci sarebbe una pressione politica e militare crescente da parte di Teheran, testimoniata anche dai carichi di armi che vengono sempre più frequentemente intercettati dal contingente atlantico assieme al via vai di profughi e rifugiati afghani dall’Iran: ordigni sofisticati per gli agguati.
Con la sfida nucleare lanciata da Ahmadinejad il distretto di Shindad, quello dove sono stati catturati i due agenti, è diventato il punto di osservazione privilegiato.
Nel 2001 gli americani si sono impossessati delle grandi basi costruite dai sovietici proprio per sorvegliare il confine iraniano: le hanno trasformate in centrali di ascolto e osservazione, tornate adesso di rilevanza strategica. Ma la protezione della regione ricade sotto la responsabilità del comando italiano di Herat. E se i pattugliamenti dei ’normali’ soldati sono diminuiti negli ultimi mesi, parà del Col Moschin e incursori del Comsubin hanno invece messo sempre più spesso il naso nella zona a ridosso della frontiera. Molto attivi anche gli agenti del Ris, il servizio di informazioni dell’Esercito che agisce spesso in Afghanistan come braccio operativo del Sismi. Come i due sottufficiali catturati assieme a due loro collaboratori afghani sabato 22 settembre. Il blitz lanciato prima dell’alba del lunedì successivo dai commandos britannici dello Special Boat Squadron si è concluso in un bagno di sangue. L’azione a sorpresa contro la prigione degli ostaggi è fallita, forse a causa del rumore dei velivoli da ricognizione teleguidati: l’attacco dagli elicotteri contro i mezzi in movimento degli afghani ha determinato una sparatoria pesante. Anche i due militari italiani sono stati feriti, forse dal fuoco amico dei liberatori: uno, colpito da due pallottole, è in condizioni disperate. Un incubo peggiore dello scenario afghano può venire dal Libano meridionale, presidiato da un massiccio contingente di caschi blu italiani. In caso di azioni contro l’Iran, i nostri soldati si troverebbero a fare da cuscinetto tra Israele e le milizie sciite di Hezbollah. Una trappola che potrebbe coinvolgere tutti i 2.400 militari italiani lì impegnati.
http://espresso.repubblica.it/dettaglio//1796791/&print=true
IRAN: GB; TELEGRAPH, BROWN APPOGGEREBBE RAID AEREI USA *
LONDRA - Il premier britannico Gordon Brown appoggerebbe eventuali raid americani contro l’Iran, se Teheran orchestrerà attacchi su larga scala condotti dalla guerriglia contro le forze statunitensi e britanniche in Iraq. Lo scrive il Sunday Telegraph, citando fonti del Pentagono, secondo cui il premier è stato informato dei piani americani di condurre raid aerei mirati e operazioni delle forze speciali contro le basi della Guardia rivoluzionaria iraniana. (ANSA).
Quei segnali d’attacco all’Iran
di GIULIETTO CHIESA (La Stampa, 6/10/2007)
Da diverse settimane era già evidente che il momento dell’attacco contro l’Iran si stava avvicinando. Ma la gran parte dei commentatori sembrava sorda a ogni suono e cieca di fronte ai segnali. Tutti fermi alla stolida constatazione, politically correct, secondo cui gli Stati Uniti non potrebbero invadere l’Iran, non avendo la forza di farlo. Il problema è che nessuno, al Pentagono, pensa di invadere l’Iran. Non era bastata la secca dichiarazione di Sarkozy al suo ritorno da Washington: o via la bomba iraniana oppure si dovrà bombardare l’Iran. Poi è arrivata la replica del ministro degli Esteri francese Kouchner, ancora più esplicita: «Prepararsi». Alle conseguenze, s’immagina, e ce ne saranno molte. D’Alema, unico europeo a parlare fino ad ora, ha detto una cosa saggia: «La guerra non serve». Ma bisognava farlo prima e dirlo più forte. Perché ormai siamo alla vigilia. Ci sono state «fughe di notizie» direttamente dalle vicinanze del vice-presidente Cheney. E c’è un considerevole numero di analisti rinomati, sia nel campo dei falchi che delle colombe, che giungono tutti alla stessa conclusione.
Il sito Raw Story ha pubblicato la sintesi di un ampio studio condotto da Dan Plesh (Università di Londra) e da Martin Butcher (direttore del Consiglio Britannico Americano per l’Informazione sulla Sicurezza) che afferma: «Gli Usa hanno preparato le loro forze armate a un massiccio attacco contro l’Iran che è di fatto già pronto e che non prevede un’invasione sul terreno». L’obiettivo: «Eliminare le armi di distruzione di massa iraniane, il sistema energetico nucleare, il regime, le forze armate, l’apparato statale, e le infrastrutture economiche in pochi giorni, se non poche ore dal momento in cui il presidente Bush darà l’ordine di attacco». La stessa conclusione è stata pubblicata da Timesonline (Sunday Times), riportando le parole che Alexis Debat (direttore per il Terrorismo e la Sicurezza Nazionale del Nixon Center) pronunciò a un incontro organizzato dalla rivista dei neocon The National Interest. Gli Usa - ha detto - non si preparano a «qualche puntura», ma «coinvolgeranno l’intera forza militare iraniana», con l’obiettivo di «annichilirla nello spazio di tre giorni».
Ma i segnali più direttamente politici sono ancora più inquietanti. Il deputato democratico Kucinch fa sapere in riunioni ristrette (ma rimbalzate sul web) che il vertice del suo partito ha già dato via libera a Bush. Hillary Clinton ripetutamente dichiara di non escludere l’uso della forza contro l’Iran. E, quando, recentemente, il Senato Usa ha approvato il «Defense Appropriations Bill», con il consenso di Nancy Pelosi, non solo sono stati concessi i 100 milioni di dollari aggiuntivi chiesti dal Presidente per la guerra irachena, ma è sparita dalla risoluzione la condizione (inizialmente prevista) secondo cui il Presidente avrebbe dovuto affrontare un voto del Congresso prima di poter decidere l’attacco. Che sarà dunque bipartisan.
Quindi non più soltanto la bomba atomica iraniana, che Washington intende stroncare prima che nasca, ma la voglia di eliminare l’ultimo antagonista rimasto nell’area. Il tema della bomba si è incaricato di svolgerlo uno dei principali organizzatori e sobillatori dell’attacco contro l’Iraq, Michael Ledeen, che con l’attivo supporto dell’American Enterprise Institute ha lanciato il suo ultimo libro: «La bomba a tempo iraniana: la necessità di distruggere i Mullah Zeloti» (St Martin Press). Dove ripete ciò che dice e fa da anni: «Questa Amministrazione presidenziale, o la prossima, dovranno fare fronte a una scelta terribile: accettare un Iran nucleare, o bombardarlo prima che le sue armi atomiche siano pronte a partire». E poiché Ahmadinejad non accenna a cedere, la conclusione non lascia spazio a dubbi. Questo pensano coloro che guidano l’America, inutile farsi illusioni. Hanno convinto anche la Francia di Sarkozy. Cosa pensi l’Europa non è dato sapere. Noi ci occupiamo solo di pagare gli effetti del disastro della finanza americana, ma a fare due più due non siamo capaci.
Ansa» 2007-10-17 19:31
BUSH: FERMARE L’IRAN O RISCHIO TERZA GUERRA MONDIALE
WASHINGTON - "Vi farò vedere se conto ancora qualcosa". Il presidente George W. Bush, in una conferenza stampa alla Casa Bianca, ha lanciato oggi una raffica di ammonimenti: ha ammonito la Turchia a non inviare truppe in Iraq, la Corea del Nord a rispettare gli accordi nucleari, i leader mondiali a bloccare l’Iran se vogliono evitare una terza guerra mondiale.
Ha sollecitato la Cina a dialogare col Dalai Lama ed il Congresso Usa ad essere più attivo sul fronte della agenda interna e meno dannoso sul teatro internazionale: la risoluzione sul genocidio degli armeni rischia di causare gravi danni agli Stati Uniti. Ma il vero messaggio di Bush, nella sarabanda di avvertimenti lanciati dal pulpito della Casa Bianca, era un altro: "voglio finire la mia presidenza allo sprint - ha affermato ad un certo punto - voglio finire alla grande, far vedere che ancora conto qualcosa".
Il modo migliore per farlo, a giudizio di Bush, è quello di usare l’arma del veto presidenziale. Un’arma che ha tenuto nella fondina per molti anni ma che negli ultimi tempi ha cominciatio ad usare sempre più spesso e su temi sempre più svariati - dall’Iraq alle cellule staminali - per bloccare le leggi sgradite prodotte da un Congresso che è adesso nelle mani del partito democratico. Ma l’uso a raffica del veto è anche un segno di debolezza. Quando i presidenti Usa si sentono in dovere di avvertire che "contano ancora qualcosa", era già accaduto con Clinton nei suoi ultimi mesi alla Casa Bianca, si sentono in realtà già con un piede fuori dall’Ufficio Ovale. Bush ha aperto la sua conferenza stampa a sorpresa, annunciata solo due ore prima, con una ’lista della lavandaia’ di tutti i problemi di politica interna che il Congresso non riesce a tradurre in leggi. "In nove mesi aveva fatto ben poco - ha detto alla maggioranza democratica che da gennaio controlla il Congresso - e quello che state facendo, come la mozione sugli armeni, provoca danni e irrita un alleato prezioso come la Turchia". Bush ha difeso la sua decisione di incontrare il Dalai Lama ed ha sollecitato la Cina ad "aprire un dialogo col leader tibetano: vi accorgerete che è un uomo di pace e di riconciliazione".
Sul fronte nucleare l’inquilino della Casa Bianca ha ammonito la Corea del Nord a rispettare l’accordo presso sullo smantellamento del suo programma "altrimenti ci saranno conseguenze". Ed ha invitato i leader del mondo a bloccare le ambizioni nucleari di Teheran "se vogliono sperare di evitare una terza guerra mondiale". Si è rifiutato di rispondere solo a due domande: la cooperazione nucleare tra Corea del Nord e Siria che ha portato al raid aereo israeliano del mese scorso sull’impianto siriano in costruzione (un raid su cui la Casa Bianca continua a mantenere il segreto totale) e alla richiesta di un giornalista di dare la sua definizione personale di ’tortura’.
"E’ la definizione data dalla legge americana - ha ribattuto Bush - e noi non torturiamo nessuno". Ma la domanda che ha più irritato Bush è se "sente ancora di contare qualcosa" con la sua presidenza ormai al tramonnto. "Non mi sono mai sentito più impegnato - ha risposto - C’é ancora molto da fare. Voglio finire alla grande. Sarà uno sprint fino alla linea del traguardo. Vedrete se conto ancora qualcosa o no".
Restrizioni su luce, acqua e carburante nella Striscia. La misura decisa dopo i continui lanci di razzi Qassam
Oggi la Rice arriva nella regione per un serie di colloqui con i ministri israeliani, domani sarà a Ramallah
Israele dichiara Gaza "entità nemica"
Hamas: "E’ una dichiarazione di guerra"
GERUSALEMME - Il gabinetto di sicurezza del Consiglio di Stato israeliano ha dichiarato la Striscia di Gaza, controllata da Hamas, un’"entità nemica", ed ha deciso di tagliare le forniture di carburante, di acqua ed elettricità al territorio palestinese. La misura, che è un atto formale da parte del governo israeliano, getta nuove ombre sulla riapertura del processo di pace a poche ore dall’arrivo nella regione di Condoleezza Rice, segretario di stato americano.
All’unanimità il Consiglio ha votato la decisione di ridurre il rifornimento di carburante destinato alla centrale termoelettrica di Gaza, in modo da garantire solo le forniture per gli ospedali e per il sistema idrico, e di limitare l’apertura dei passaggi di frontiera al solo transito di generi alimentari e di emergenza. Secondo il governo israeliano, si tratta di una risposta al potenziamento militare delle forze di Hamas, al continuo lancio di razzi Qassam da parte dei miliziani e al recente attacco contro una base israeliana in cui sono rimasti feriti 70 militari.
Immediata la reazione di Hamas che ha definito l’azione una "dichiarazione di guerra", che "continua le azioni sioniste criminali e terroriste contro il nostro popolo" ha detto il portavoce del movimento estremista Fawzi Barhoum.
Per il presidente della Commissione affari esteri e difesa Zahi Hanegbi (Kadima) Israele considera le milizie di Hamas come "l’avanguardia della penetrazione regionale da parte dell’Iran". La stampa locale oggi riportava indiscrezioni secondo cui i ministri israeliani non sarebbero inclini ad ordinare in questa fase una operazione militare di vasta portata, ma ritengono necessario adottare verso la Striscia (dove abitano 1,4 milioni di palestinesi) una serie di sanzioni restrittive.
Nel primo pomeriggio la Rice inizierà i colloqui con i dirigenti israeliani incontrando il ministro degli Esteri Tzipi Livni. Sono in programma anche incontri con il premier Ehud Olmert, con il presidente Shimon Peres e con il leader della opposizione nazionalista Benyamin Netanyahu. Domani sarà a Ramallah dal presidente Abu Mazen e dal premier Salam Fayyad.
La strage nel quartiere di Sin el-Fil, una ventina i feriti
Fra le vittime Antoine Ghanem, della Falange Cristiana
Autobomba a Beirut, 6 morti
ucciso deputato antisiriano
L’attentato a pochi giorni dalle presidenziali, previste il 25 settembre L’ex presidente Gemayel: "Un attacco alla democrazia e alla libertà" *
BEIRUT - E’ di almeno sei morti e una trentina di feriti il bilancio di un attentato compiuto oggi a Beirut: un’autobomba è esplosa nel quartiere cristiano di Sin el-Fil, alla periferia est della capitale libanese, non lontano dall’hotel Metropolitan. Nell’agguato è rimasto gravemente ferito anche il deputato della maggioranza parlamentare antisiriana, Antoine Ghanem, avvocato, 64 anni, membro di spicco del partito della Falange Cristiana. Secondo fonti della sicurezza, sarebbe stato proprio lui l’obiettivo degli attentatori.
L’attacco si verifica a pochi giorni dalle decisive elezioni presidenziali, in programma per il 25 settembre, che si svolgeranno nella tensione fra l’opposizione, sostenuta da Damasco e teheran, e la maggioranza parlamentare antisiriana. Quello di Ghanem "è chiaramente un assassinio teso a ridurre il numero dei deputati antisiriani in Parlamento e bloccare le elezioni", afferma il deputato antisiriano Antoine Zahara. "Un attacco alla democrazia e alla libertà - commenta l’ex presidente, e leader della falange Cristiana, Amin Gemayel - vogliono un presidente-burattino in mani straniere".
Le prime immagini della strage mostrano una colonna di fumo levarsi dalla zona dell’esplosione, fiamme in diversi punti e macchine incendiate. L’auto, imbottita di esplosivo, è saltata in aria - probabilmente azionata da un telecomando, dicono fonti della sicurezza - nelle vicinanze della casa dello stesso Gemayel il cui figlio, Pierre, fu ucciso in un attacco terroristico il 21 novembre del 2006.
Nel febbraio del 2005, l’ex primo ministro Rafik al-Hariri fu ucciso, sempre da un’autobomba, insieme ad altre 22 persone. L’ultimo attentato mortale a Beirut risale al 13 giugno scorso, quando il deputato della maggioranza parlamentare antisiriana Walid Eido perse la vita, con altre nove persone compreso il figlio, nell’esplosione di un’autobomba sul lungomare della città.
* la Repubblica, 19 settembre 2007.
Bernard Kouchner parla alla radio e chiede sanzioni europee a Teheran
"Bisogna prepararsi al peggio, ma intanto negoziamo fino alla fine"
Iran, il ministro degli Esteri francese
"Sul nucleare il mondo rischia la guerra"
PARIGI - Il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner parla del programma nucleare dell’Iran e lancia un profezia che fa rabbrividire: "Il mondo deve prepararsi al peggio...cioè alla guerra". In un’intervista ad una radio l’esponente del governo Sarkozy chiede alla comunità internazionale di far capire al regime degli ayatollah che la situazione è seria. "Ai piani ci pensano gli stati maggiori - ha detto Kouchner - ma non è per domani. Intanto facciamo capire a Teheran che non accetteremo che questa bomba sia costruita. Servono sanzioni più efficaci". La Francia, dal canto suo ha già inziato a prendere delle iniziative.
"Noi - ha proseguito il ministro - abbiamo già chiesto ad un certo numero di grandi imprese di non investire in Iran. E non credo che siamo i soli ad aver fatto ciò". Kouchner chiede ai partner europei, come già chiesto dalla Germania, di pensare a delle sanzioni "che si aggiungano a quelle dell’Onu". Anche perché avvisa: "Se Teheran si dota dell’arma nucleare sarebbe un pericolo per tutto il mondo".
* la Repubblica, 16 settembre 2007.
Il ministro degli Esteri interviene sull’allarme lanciato dal collega francese
"Bisogna lasciare il tempo che serve all’iniziativa diplomatica"
Iran, D’Alema frena Kouchner
"Guerra non è una soluzione"
El Baradei: "L’uso della forza è l’ultima risorsa" *
VIENNA - "Nuove guerre credo non sarebbero la soluzione del problema e creerebbero soltanto nuove tragedie e nuovi pericoli". E’ una risposta indiretta ma chiara quella che il ministro degli Esteri Massimo D’Alema riserva all’allarme lanciato dal collega francese Kouchner. "Prima di parlare di nuove guerra - aggiunge il titolare della Farnesina - bisogna lasciare il tempo necessario per l’iniziativa politica e diplomatica. La questione del nucleare iraniano è all’attenzione dell’Onu. Ci sono sanzioni decise dalla Comunità internazionale e c’è nello stesso tempo una proposta all’Iran di negoziare una soluzione pacifica di questa crisi".
Continuare ad insistere sulla via diplomatica, è la ricetta di D’Alema, evitando atti di forza. "Si tratta di rilanciare l’iniziativa internazionale e di questo si discuterà anche a New York a latere dell’assemblea generale delle Nazioni Unite. Non mi sembra felice l’idea di parlare di guerre in questo momento".
E un’altra importante presa di posizione sulla questione arriva dal direttore generale dell’Aiea, Mohammed El Baradei, che invita la comunità internazionale ad abbassare i toni per evitare un’escalation di tensione con il paese di Ahmadinejad: "L’Iran non rappresenta al momento un pericolo chiaro e immediato. Spero che tutti abbiano imparato la lezione dell’Iraq, dove 70mila civili innocenti hanno perso la vita a causa del sospetto che un Paese fosse in possesso di armi nucleari". Un vero e proprio invito alla cautela rivolto alla comunità internazionale: "Ritengo che ciò che dobbiamo fare ora è incoraggiare l’Iran a lavorare con l’agenzia per chiarire le questioni aperte" insiste El Baradei.
Nel corso della giornata, inoltre, l’allarme del ministro francese è stato ridimensionato anche dalla Germania. "Per noi qualsiasi opzioni diversa da una soluzione diplomatica non è in discussione" afferma il portavoce del governo tedesco, Ulrich Wilhelm, ribadendo che la Germania lavora con i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu a un piano per inasprire le sanzioni contro Teheran. Gli fa eco il capo della diplomazia austriaca, Ursula Plassnik: "Il mio collega Kouchner è l’unico che può spiegarvi cosa intendeva, ma non capisco perchè ricorra a una retorica marziale in questa fase". Sulla questione è intervenuto anche il premier francese Francois Fillon sottolineando che Kouchner ha ragione a sostenere che la situazione è grave, ma "bisogna fare di tutto per scongiurare una guerra contro l’Iran".
* la Repubblica, 17 settembre 2007.
Nucleare: il bluff di Ahmadinejad
di Farian Sabahi *
Con quello che probabilmente è un bluff, il presidente iraniano Ahmadinejad è riuscito ancora una volta ad allarmare la comunità internazionale. Rivolto a un gruppo di studenti islamici a Teheran, ha dichiarato che l’Iran avrebbe raggiunto l’obiettivo delle tremila centrifughe in grado di arricchire l’uranio.
Se così fosse, si tratterebbe di un risultato importante di medio periodo perché - secondo quanto rivelato da una recente inchiesta dell’Institute for Strategic Studies di Londra - permetterebbe di costruire l’atomica nel giro di 9-11 mesi.
Quello del presidente iraniano è quasi certamente un bluff, visto che proprio la scorsa settimana l’AIEA aveva accertato l’esistenza di sole 1.968 centrifughe.
Sul fronte interno l’obiettivo di Ahmadinejad è cercare consenso per risalire la china dopo le recenti dimissioni del ministro al petrolio, del ministro dell’industria e del direttore della Banca centrale.
Sul fronte della politica estera il presidente sfida ancora una volta la comunità internazionale e porta quindi avanti ad oltranza la politica dei neoconservatori che stanno dominando la scena.
Nella Repubblica islamica non tutti vogliono il nucleare e tra i politici i pareri sono contrastanti, anche se si discute sempre e soltanto di scopi civili e quindi in linea con il Trattato di non proliferazione.
È opinione diffusa che il costo della ricerca sia troppo alto e che la costruzione di centrali possa rendere il paese ancora più vulnerabile in caso di bombardamento.
A coloro che rivendicano il diritto del nucleare a scopo di prestigio, sono ormai in molti a ribattere che il gioco non vale la candela poiché le sanzioni puniscono l’economia.
Tra i pragmatici che vorrebbero una sospensione del programma nucleare per evitare un bombardamento statunitense o israeliano c’è l’ex presidente Rafsanjani.
Contro i suoi fedelissimi si è scagliato Ahmadinejad che ha fatto implicitamente riferimento a Hossein Moussavian, vicedirettore di un Istituto di ricerca dipendente dal Consiglio per la determinazione delle scelte, un organo di arbitraggio il cui capo è Rafsanjani. Ex componente della squadra di negoziatori sul nucleare, Moussavian era stato arrestato a maggio con l’accusa di avere attentato alla sicurezza nazionale per avere fornito informazioni a stranieri ed è stato poi liberato su cauzione.
La strategia di Ahmadinejad riduce al minimo la fiducia della comunità internazionale nelle buone intenzioni dell’Iran, su cui pesa l’embargo.
Ed è il riflesso della militarizzazione della politica iraniana, dove alcuni generali dei pasdaran vestono i panni di deputati e ricoprono varie cariche pubbliche.
Sono loro a cercare il confronto con la comunità internazionale, svilendo il paziente lavoro dell’AIEA, perché le pressioni esterne permettono di reprimere ulteriormente la società civile. Intanto, da Teheran arriva la disponibilità a riprendere i colloqui con gli Stati Uniti per la sicurezza dell’Iraq, come a sottolineare il ruolo strategico dell’Iran in Medio Oriente. Quale sarà la prossima mossa di Ahmadinejad? Ancora non lo sappiamo ma, per evitare di essere preso alla sprovvista, il Pentagono ha pronto un piano di attacco preventivo per annientare l’intero apparato militare iraniano.
La strategia, secondo quanto scriveva ieri il ’Sunday Times’, prevede tre giorni ininterrotti di attacchi coordinati per distruggere 1.200 obiettivi militari sparsi su un superficie quasi quattro volte quella irachena.
E se Washington dovesse credere ancora al miraggio dei negoziati, Israele sarebbe pronta a mettere in atto i propri piani d’attacco. Senza aspettare l’ok degli Stati Uniti.
Iran, «piano d’attacco Usa». Teheran minaccia l’Onu *
Sono notizie contrastanti quelle che vengono dall’Iran, teatro principale di una possibile crisi nucleare. Domenica il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha detto che l’Iran ha raggiunto un nuovo record nel suo programma nucleare rendendo attive più di 3mila centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. Non solo. Teheran minaccia l’Onu: se approverà una risoluzione contro i suoi programmi di sviluppo delle 3mila centrifughe della centrale atomica di Natanz o di altre nel quadro del programma nucleare civile, non ci sarà più nessuna collaborazione con l’Aiea. Un copione già visto che evoca una parola sola: guerra. E la dichiarazione questa volta non viene dall’istrionico presidente ma dal portavoce del compassato ministero iraniano degli Affari esteri, Mohammad Ali Hosseini, lo stesso che si dice disponibile a nuovi colloqui con gli Usa per ristabilire la pace in Iraq. Bastone e carota.
Ma che la situazione sia contraddittoria e sull’orlo del baratro è abbastanza evidente. Il Times di Londra rivela che l’ammistrazione Usa ha un piano d’attacco preventivo già pronto contro il regime degli ayatollah: un blitz della durata di tre giorni contro contro 1.200 obiettivi. E si sa che anche Israele ha questa "opzione" - l’attacco - da mesi nei cassetti del ministero della Difeso ora retto da Ehud Barak.
La rivelazione del Times arriva giusto il giorno dopo l’avvertimento del direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) Mohammed El Baradei. In un’intervista uscita sabato sull’ultimo numero del settimanale tedesco Der Spiegel El Baradei - che rischia di fare la Cassandra come il collega Hans Blix prima dell’attacco all’Iraq quattro anni fa, ndr -ha messo in guardia da azioni militari contro l’Iran da parte di Stati Uniti o Israele, sostenendo che ciò aggraverebbe la crisi nella regione rafforzando coloro che in Iran puntano alla fabbricazione della bomba atomica. Un intervento armato potrebbe forse distruggere gran parte delle installazioni iraniane, ma provocherebbe un terribile incendio in tutta la regione, «rafforzando di sicuro i circoli favorevoli alla realizzazione della bomba atomica».
Prevarranno "i falchi" o le"colombe"? Anche la situazione politica a Teheran è assai confusa, i messaggi sono ambigui. Domenica mentre si svolgeva un’altra impiccagione pubblica, cioè un’altra esibizione di forza del regime, il capo dei pasdaran, le Guardie della Rivoluzione accusate di finanziare Hamas e Jihad islamica e altri gruppi considerati terroristi in Palestina, si è dimesso. Non si sa perché.
È prima di tutto per cercare di evitare il precipitare della crisi di cui ha parlato qualche giorno fa anche il presidente francese Sarkozy, che l’Italia sta tentando una sua mediazione diplomatica contando sui buoni rapporti ristabiliti con il mondo arabo. L’iniziativa diplomatica è portata avanti direttamente dal premier Romano Prodi, arrivato domenica in Giordania. Mantenere aperta «la politica di dialogo» con l’Iran avendo «garanzie assolute» che lo sviluppo nucleare di Teheran sia solo civile e non militare: inoltre tutto ciò deve avvenire con «una apertura totale al controllo» dell’Aiea, l’organizzazione delle Nazioni Unite preposta alla vigilanza sul nucleare. Questa è la ricetta da seguire con l’Iran secondo l’Italia. Il premier Romano Prodi ad Amman si è consultato su questa linea con re Abdallah di Giordania. Mentre il ministro degli esteri Massimo D’Alema è impegnato in questi giorni in Israele, Palestina e poi sarà in Egitto. Una missione anche di perlustrazione in vista di una possibile Conferenza internazionale promossa dall’Amministrazione Bush per novembre per la Palestina che è stata preceduta da una intervista a Umberto De Giovannangeli de l’Unità in cui D’Alema torna a chiedere la ripresa del dialogo tra Fatah e Hamas.
* l’Unità, Pubblicato il: 02.09.07, Modificato il: 02.09.07 alle ore 18.51
Bush vola in Iraq per una visita a sorpresa *
BAGDAD - George W. Bush è atterrato nella base area Al-Asad nella provincia di Anbar in Iraq. Il presidente statunitense è Iraq per una vita non annunciata. George Bush ha lasciato in segreto Washington la scorsa notte con un Boeing747-200b. A renderlo noto è la Casa Bianca
Con George W. Bush ci sono anche il Segretario di Stato Condoleeza Rice e il consigliere della sicurezza nazionale Steven Hadley. Non è ancora noto l’itinerario e io programma della visita.
Questa è la terza visita a sorpresa in Iraq del presidente degli Stati Uniti. In precedenza George Bush giunto, senza avvertire, il 27 novembre del 2003 nel giorno del Ringraziamento. La seconda avvenne il 13 giugno del 2006, una settimana dopo che in un attacco aereo venne ucciso il leader iracheno di al-Qaeda Abu Al-Zarqawi.
* la Repubblica, 03-09-2007.
Il presidente Usa: "Scontro tra chi vuole vivere in una società pacifica e chi vuole imporre tetra visione"
"Veto di fronte a qualsiasi iniziativa di legge del Congresso che chiedesse un rientro delle truppe"
Iraq, Bush esclude qualsiasi ipotesi di ritiro
"Siamo agli inizi di un conflitto ideologico"
Il Rapporto della Casa Bianca lo smentisce: "Raggiunti solo 8 dei 18 obiettivi posti dal Parlamento"
Pessimismo della Cia: "L’incapacità del governo di Bagdad di governare è ormai irreversibile"
WASHINGTON - Il presidente degli Usa George W. Bush, in occasione della conferenza stampa di presentazione del viaggio in Iraq del segretario di stato Condoleezza Rice ed il ministro della difesa Robert Gates, difende la sua strategia in Iraq e avverte che "siamo nelle fasi iniziali di un grande conflitto ideologico: un conflitto tra quanti vogliono la pace e vogliono vivere in una società pacifica e normale e i radicali che vogliono imporre al resto del mondo la loro tetra visione".
Bush ha escluso ancora una volta qualsiasi ipotesi di un rientro anticipato delle forze militari statunitensi. "Un ritiro immediato delle truppe americane dall’Iraq sarebbe un disastro - ha detto il presidente - e favorirebbe solo i nostri nemici e renderebbe l’America più vulnerabile a nuovi attacchi terroristici".
Il veto al ritiro delle truppe. Di fronte a qualsiasi iniziativa di legge del Congresso che chiedesse un ritiro dall’Iraq, il presidente degli Usa ha poi ribadito che non esiterà a porre il veto. La decisione, secondo Bush "deve essere presa su basi militari riguardanti la situazione in Iraq e non su basi politiche riguardanti Washington".
La bocciatura del rapporto. Ma il rapporto della Casa Bianca che avrebbe dovuto sostenere le tesi del presidente lo smentiscono. Secondo il documento, dei 18 obiettivi posti dal Parlamento per un rifinanziamento, ne sono stati raggiunti soltanto otto. Pochi insomma i passi avanti nel disarmo dei miliziani e nella fine della violenza settaria.
Nuova decisione a settembre. Bush miminizza e dichiara che si tratta di un rapporto provvisorio e ha rinviato qualsiasi decisione alla metà di settembre. Aspettiamo, ha detto il presidente, che "il generale Petraeus ritorni a Washington a settembre per darci un rapporto su come vede la situazione". Solo dopo che il rapporto verrà presentato, il 15 settembre, si consulterà con il Congresso e con i comandanti militari per stabilire "se è necessario prendere un’altra decisione" sulla strategia da perseguire in Iraq.
Cia pessimista. Ma Bush si trova a fare i conti anche con lo scetticismo della Cia. Secondo quanto rivelato dal Washington Post, il capo della Cia Michael Hayden già a novembre scorso aveva espresso la sua convinzione in merito all’Iraq e in particolare sulla capacità del governo di Al Malikdi di guidare il paese. Secondo Hayden infatti "l’incapacità del governo di Bagdad di governare è ormai irreversibile".
* la Repubblica, 12 luglio 2007
Il Comitato di cittadini e lavoratori di Vicenza Est
che si oppongono al progetto Dal Molin e chiedono la conversione ad usi civili della Caserma Ederle è lieto di invitarvi alla conferenza stampa con il Prof. Philip Rushton, Università di Napoli, autore del libro "Riportiamoli a casa - il dissenso nelle forze armate staunitensi" e Chris Capp, disertore americano impegnato con i movimenti per la pace per la fine della guerra e il ritiro delle truppe dal fronte.
Durante la conferenza verranno brevemente illustrati i progetti del Comitato Vicenza Est per lasciare spazio ai prestigiosi ospiti. Seguirà l’iniziativa "La Pace urlata al Megafono" di fronte alla Caserma Edrle per invitare i soldati a non partecipare alla guerra e a dissociarsi dai progetti di militarizzazione.
La conferenza stampa si svolgerà il giorno 12 luglio alle ore 18 presso i locali della Cooperativa Insieme, in Via Dalla Scola 255 a Vicenza. L’iniziativa di fronte alla Caserma Ederle si svolgerà alla sera. Le iniziative sono realizzate in collaborazione con altri importanti gruppi e comitati del movimento No Dal Molin-No Vicenza città militare la cui lista verrà diffusa durante la conferenza stampa (le adesioni sono in corso).
Sono previste iniziative della "Pace urlata al megafono" di fronte ad altri siti militari in città il giorno 13 luglio.
Siamo già in grado di diffondere la lettera scritta da Chris Capps che verrà distribuita di fronte alla Caserma Ederle, che risulta essere centro di progettazione e preparazione delle guerre in corso.
Per contatti mailto:comitato.viest@libero.it>comitato.viest@libero.it
Italiani, e soldati di stanza in Italia, mi chiamo Chris Capps. Ero di stanza in Germania poco prima del mio dislocamento a Baghdad, Iraq. Dopo averci completato il mio turno di servizio sono stato riportato in Germania dove ho appreso che fra meno di 9 mesi sarei stato inviato in Afghanistan. Per me far parte di un’occupazione, anche quando non si è nel ruolo di combattente diretto significa partecipare nell’oppressione del popolo indigeno del paese che stavo occupando. Per me tale situazione era inaccettabile e ho capito come uscire dall’esercito allontanandomi senza permesso. Ormai sono fuori dall’esercito e faccio parte di un’organizzazione che si chiama Veterani dell’Iraq contro la guerra (Iraq Veterans Against the War).
Sono qui in Italia come parte di un’iniziativa per prendere contatti con soldati che si trovano di stanza qui e farli capire che non sono soli nei sentimenti di disagio che provano nei confronti del conflitto in Iraq. Come ho imparato in prima persona, esistono altre scelte oltre a quella di accettare di essere inviato in missione. Mi trovo qui come ospite dei gruppi di pace locali in Italia che non vogliono assistere passivi né alla continuazione dell’attuale conflitto né al vostro coinvolgimento nello stesso. Non vogliono assistere a un’occupazione che venga supportata dal proprio territorio, né vogliono accettare che voi, i loro attuali vicini di casa, vengano inviati a fare parte dello stesso conflitto. Spero che ascoltiate sia la maggioranza degli Americani sia la maggioranza degli italiani che vogliono porre fine ora a tutto ciò.
Chris Capps
USA: Il Paese più pericoloso
di Edward S. Herman su Z Magazine di Giugno 2007, traduzione di Arif
Mai nella storia un paese è stato tanto minaccioso quanto lo sono ora gli Usa - Negli Stati uniti il potere esecutivo è stato talmente centralizzato e il sistema di controlli ed equilibri talmente indebolito che ormai una singola persona o una cricca è capace di portare il paese in guerra
Riceviamo da don Aldo Antonelli questo interessante e documentato articolo apparso sul numero di Giugno della rivista Z MAGAZINE, a firma dell’economista Edward S. Herman. *
Un titolo così severo non si basa sulla convinzione che i leader statunitensi siano i più cruenti mai esistiti, anche se sono più che arroganti, spietati e anche cruenti, resi ancora più ipocriti dalla maschera di rettitudine e di servizio "a Dio". Piuttosto, si basa sul fatto che [gli Stati uniti] hanno molta più potenza distruttiva di qualsiasi loro predecessore, l’hanno già usata, minacciano di aumentare la loro violenza e non solo sono soggetti a vincoli inadeguati, ma operano nel contesto di una cultura politica volatile, manipolabile, con elementi minacciosi e irrazionali. Ben oltre qualsiasi cosa relativa alla "difesa" nazionale e ben oltre le capacità di qualsiasi potenziale rivale, la crescita della potenza distruttiva degli Stati uniti era palesemente intenzionale e progettata allo scopo di servire sia gli interessi transnazionali e finanziari dell’élite americana, sia quelli alla militarizzazione della triade industria-Pentagono-politica, ovvero del complesso industrial-militare (Cim).
Il cosiddetto "budget per la difesa" dovrebbe essere chiamato propriamente "budget per l’offensiva". Questo budget - di dimensione enorme e che ora eccede quello del resto del mondo messo insieme - e l’aggressività sempre crescente dell’élite statunitense nell’utilizzare la sua superiorità militare per "proiettare il potere", tramite minacce e violenza, in paesi lontani, ha esercitato una pressione notevole sugli altri paese perché fabbrichino armi proprie. Hanno bisogno delle armi non solo per difendersi dai possibili attacchi statunitensi, ma anche contro l’utilizzo della superiorità militare [americana] al fine di costituire alleanze minacciose e di stabilire basi [militari] sui propri confini. La costruzione di alleanze e l’insediamento di basi è già stato praticato contro potenze reali come la Russia e la Cina, ma anche contro potenze regionali minori come l’Iran. Con arroganza imperialista, gli ufficiali e gli "esperti" americani trovano "provocatori" e "sfidanti" l’aumento del budget militare ed i test militari condotti da queste potenze minori. Ma queste risposte sono assolutamente inevitabili e il budget militare e la proiezione del potere statunitensi promuovono l’avanzata di una nuova incipiente corsa alle armi.
La corsa alle armi è anche incoraggiata da una serie di politiche americane che ostacolano il controllo delle armi: · il ritiro, nel 2001, dal Trattato Anti Missili Balistici del 1972; · sempre nel 2001, il sabotaggio della Convenzione sulle Armi Biologiche e Tossiche, con il rifiuto di accettare le ispezioni; · nel 2001, l’opposizione all’Accordo delle Nazioni Unite per mettere un freno al traffico internazionale di armi leggere, l’unico paese ad essersi opposto; · il rifiuto di firmare il Trattato per il bando delle mine terrestri (Clinton nel 1997); · il rifiuto, nel 2001, di unirsi alla promessa di 123 nazioni di mettere a bando l’utilizzo e la produzione di bombe anti-persona; · il rigetto, nel 1999, del Trattato sul bando totale dei test nucleari; · il rifiuto, nel 1986, di riconoscere la giurisdizione della Corte internazionale di giustizia per il giudizio sullo "uso illegittimo della forza" dalla parte degli Stati uniti in Nicaragua; · la rottura della promessa, fatta firmando il Trattato sulla non proliferazione nucleare, di lavorare per l’eliminazione delle armi nucleari. · Il rifiuto di rispettare la legge internazionale e di aderire agli accordi internazionali è pratica regolare dovunque questi interferiscano con i piani statunitensi di proiezione di potere
La crescita militare statunitense ha un suo motore interno poiché i poteri che hanno interessi nelle armi e nelle guerre sono alla continua ricerca di progressi tecnologici nuovi e di missioni nuove per giustificare un budget sempre più grande. E’ stato argomentato in maniera convincente che gli Stati uniti spronano gli altri stati, costringendoli a rispondere in maniera difensiva, per poi giustificare l’aumento nel budget di spese per la "difesa" (e.g. Robert A. Pape, "Soft Balancing Against the United States", International Security, Summer 2005). Inoltre, la superiorità militare e il desiderio di verificare e di dimostrare l’efficacia dell’esercito che avanza - esaurendo [così] le riserve che poi dovranno essere riempite - sanno di comportamento provocatorio e di una disponibilità ad assumere dei rischi che portano più prontamente alla guerra. Rende il paese anche più disposto ad attaccare paesi piccoli ed indifesi, in parte perché è così facile, e in parte perché, come dice la Madeleine Albright: "perché avere un esercito meraviglioso ... se non l’utilizziamo"? Spinge i leader statunitensi a sovrastimare la facilità con cui possono agire da bulli o possono costringere alla sottomissione i paesi più piccoli, come il Vietnam e l’Iraq.
Sono deboli sia i freni esterni che quelli interni. Nell’ultima decade, il potere militare ed economico degli Stati uniti ha permesso loro di impegnarsi in tre guerre di aggressione in violazione della Carta delle Nazioni unite senza alcuna opposizione seria da parte delle stesse Nazioni unite o della "comunità internazionale" (cioè i governi capaci di un po’ di opposizione efficace al potere egemonico). Anche precedentemente [gli Stati uniti] sono stati capaci di ammazzare milioni [di persone] e virtualmente distruggere l’Indocina, devastare l’America centrale per il tramite di brutali governi fantoccio, sostenere il comportamento violento del Sud Africa contro gli stati confinanti e le invasioni israeliane del Libano, senza alcun impedimento da parte delle Nazioni unite o della comunità internazionale. Nel caso dell’attacco all’Iraq, gli Stati Uniti ricevettero persino un riconoscimento ex-post della loro occupazione e del loro diritto alla pacificazione - ciò spiega il bombardamento del 19 agosto del 2003 degli uffici delle Nazioni unite a Baghdad. Le Nazioni unite sono anche impegnate nel fornire agli Stati uniti e ad Israele qualche forma di sanzione quasi-legale per la prossima delle aggressioni in serie statunitensi.
I cittadini di tutto il mondo hanno deplorato queste aggressioni e le proteste sono cresciute di dimensioni, ma per ora non sono riusciti a fermare queste offensive. La democrazia non sta funzionando bene in tutto il mondo giacché i le èlites di governanti hanno regolarmente ignorato il sentimento antiguerra del pubblico, così come espresso in elezioni e sondaggi. Laddove, come in Francia e in Turchia, non l’hanno fatto, quei governanti sono stati calunniati negli Stati Uniti e hanno dovuto faticare per compensare i loro eccessi democratici. Negli Stati Uniti, l’élite al potere non solo è riuscita ad ignorare la maggioranza che nei sondaggi era favorevole all’uscita dall’Iraq, ma la vittoria dei democratici nelle elezioni del 2006 - largamente viste come un riflesso dell’interesse pubblico nel ritiro - non ha impedito un’escalation ulteriore della guerra di Bush con un’opposizione dei democratici solo nominale. Come altro segno di fallimento democratico, i democratici hanno accettato di togliere il requisito sulla legge per il finanziamento che richiedeva a Bush di ottenere l’approvazione del Congresso prima di lanciare un attacco all’Iran. Ci si dovrebbe rendere conto anche del fatto che negli Stati uniti il potere esecutivo è stato talmente centralizzato e il sistema di controlli ed equilibri talmente indebolito che ormai una singola persona o una cricca è capace di portare il paese in guerra (cosa che hanno già fatto nel caso dell’Iraq sulla base di bugie sfacciate). Quella persona o cricca ha anche il potere di utilizzare quelle armi nucleari che gli Stati uniti, caso unico nella storia, hanno già utilizzato e che i leader statunitensi, da quanto si dice, sono disposti a, e sarebbero persino entusiasti di utilizzare contro l’Iran per mettere fine ad un’altra minaccia (posticcia) di "funghi atomici" e per impartire una lezione al mondo su chi è il boss. In breve, la minaccia più urgente e reale di "funghi atomici", per il mondo intero, è dislocata nelle mani di alcuni irresponsabili matricolati con sede negli Stati uniti.
Un secondo motivo per cui gli Stati uniti pongono una minaccia così grossa alla civiltà è che mentre l’imminente crisi climatica e ambientale ha le sue radici nella crescita economica senza vincoli, gli Stati uniti, invece di condurre il mondo verso un riorientamento e rallentamento, continuano ad opporvisi e a perseguire utili economici immediati. In qualità di leader della rivoluzione neoliberale, [gli Stati uniti] fanno pressione per l’apertura di nuovi mercati del terzo mondo, per una crescita cieca e si oppongono alle azioni collettive e intelligenti che potrebbero contenere o ridurre il contributo umano al riscaldamento globale. E’ una bella illustrazione del trionfo della gratificazione immediata e dell’irresponsabilità massima dell’industria e dell’élite Cim. Un terzo motivo per cui questo paese pone una minaccia così grossa è che il mondo non può sostenere né lo spreco di una corsa alle armi, né i costi sociali di una rivoluzione neoliberale, entrambi voluti dagli Stati Uniti con insistenza. Le disuguaglianze globali sono aumentate, miliardi di persone sono corte di acque, di cibo, di cure mediche e di risorse decenti per l’istruzione. Queste, più le guerre occidentali di dominazione, hanno aumentato le tensioni etniche, il crimine, il clientelismo e le migrazioni di massa causando, pertanto, più conflitti, terrorismo e guerre nonché sofferenze umane immense
Il mondo ha bisogno di leadership per risolvere questi problemi reali, ma quelle che ha ricevuto in continuazione dagli Stati Uniti sono politiche che sprecano risorse, attizzano i conflitti, massacrano, distruggano e letteralmente combattano le iniziative costruttive contro disastri ambientali minacciosi. Quelli che credono alla "fine dei tempi", che hanno legami forti con l’amministrazione Bush, potrebbero ottenere il loro Armageddon senza alcun aiuto divino, semplicemente grazie alla politica Bush-Usa di sempre.
Duro attacco del quotidiano: "Causa perduta, bisogna andare via"
Nel mirino il presidente Usa: "Vuole scaricare il disastro sul suo successore"
Il New York Times sferza Bush
"Basta con la guerra in Iraq" *
WASHINGTON - "E’ giunto il momento per gli Stati Uniti di lasciare l’Iraq". Il duro stop alla guerra, fortemente voluta dall’amministrazione Bush, arriva dal New York Times. Il quotidiano affida la sua dura presa di posizione ad un lungo editoriale che chiama ’La via del ritorno’. E sono parole che pesano come macigni sulla Casa Bianca. "Come tanti americani abbiamo rinviato questa conclusione in attesa di un segnale che il presidente Bush stesse cercando di sottrarre gli Stati Uniti al disastro da lui creato invadendo l’Iraq senza ragioni sufficienti, sfidando l’opposizione generale, senza un piano successivo per stabilizzare il paese", scrive il quotidiano.
Una bocciatura totale. Che non lascia margini di ripensamenti. Manca, sintetizza il Nyt, un progetto per il futuro dell’Iraq. "E’ spaventosamente chiaro che il piano di Bush è mantenere la rotta attuale finchè sarà presidente per poi scaricare questo macello sul suo successore. Qualsiasi fosse la sua causa, è una causa perduta".
E se la causa è persa, perdute sono anche le vite di moltissimi soldati Usa uccisi nei continui scontri in Iraq. "Continuare a sacrificare le loro vite sarebbe sbagliato" taglia corto il New York Times. Che vede un solo strada possibile: il ritiro delle truppe. "Gli americani devono ammettere con onestà il fatto che mantenere le nostre truppe in Iraq servirebbe solo a peggiorare la situazione", afferma il giornale notando che le guerra irachena ha avuto come conseguenza il distogliere le risorse del Pentagono dall’Afghanistan per creare in Iraq "una nuova roccaforte" dei terroristi.
E non serve a nulla dire, come fanno Bush e del suo vice Dick Cheney, che un ritiro delle truppe Usa "produrrebbe un bagno di sangue, caos e incoraggerebbe i terroristi". "E’ pura demagogia - dice il giornale - Tutto questo è già successo in Iraq, come risultato di questa invasione non necessaria e della gestione incompetente di questa guerra".
* la Repubblica, 8 luglio 2007