Bombardamenti sulla regione di Baalbeck Dodicesimo giorno di guerra (www.lastampa.it, 23.o7.2006)
BEIRUT. Si è aperto ieri con un’incursione israeliana via terra nel Sud del Libano l’undicesimo giorno di guerra in Medio Oriente. Truppe dello Stato ebraico sono penetrate oltre frontiera occupando il villaggio libanese di Maroun Al-Ras dopo aver bombardato e martellato la zona con tiri di artiglieria durante l’intera notte. I razzi che hanno colpito le città israeliane di Nazareth e Dbrayeh sarebbero stati lanciati proprio da questo villaggio e i guerriglieri Hezbollah ieri hanno ripreso il lancio di katiuscia: almeno un centinaio sono stati sparati verso varie città del Nord di Israele, due persone sono rimaste ferite.
Nel Sud del Libano nove persone sono morte nei bombardamenti di ieri. La popolazione è terrorizzata, molti sono fuggiti ma altri non vogliono lasciare le loro case, nonostante il timore di un’invasione israeliana. Secondo l’Onu, truppe israeliane sono già da tre giorni nel paese. Dall’inizio delle violenze il 12 luglio, oltre ottantuno persone sono state uccise in Libano e in Israele.
Dopo lunghi combattimenti con i miliziani Hezbollah, l’esercito israeliano ha preso il controllo del villaggio di Maroun al-Ras, lungo il confine con il Libano. Lo ha comunicato il generale israeliano, Benny Gantz, nel corso di una conferenza stampa a Gerusalemme, precisando che in una moschea è stato trovato un arsenale di armi, inclusi razzi.
Gli israeliani ieri mattina hanno bombardato e completamente distrutto parecchie stazioni di trasmissione di reti televisive e di telefonia mobile in Libano. Le tv libanesi diffondono immagini che mostrano la distruzione totale delle reti di Tele Libano (tv di Stato) ma anche stazioni di varie altre reti televisione e di emittenti radiofoniche, fra cui la privata Lbc e Future Tv (che appartiene alla famiglia Hariri).
Gli aerei israeliani hanno bombardato la città portuale di Sidone: è stato completamente distrutto un edificio che ospitava una moschea, una biblioteca e un seminario, guidato da Sheik Afif Naboulsi, uno sciita considerato molto vicino all’Iran e a Hezbollah. Durante i raid sono stati colpiti anche i quartieri meridionali di Beirut e alcune postazioni nella valle della Bekaa, intorno alle città di Hermel e Baalbek.
Gli occhi del mondo sono ora puntati sull’iniziativa diplomatica assunta dagli Usa e, a sorpresa, da venerdì condivisa al massimo livello anche dal nostro Paese. Il Segretario di Stato Usa Condolezza Rice sarà oggi in Medio Oriente per una missione lampo, per incontrare il premier israeliano Ehud Olmert e il presidente palestinese Abu Mazen. Mercoledì poi l’inatteso vertice a Roma con i Paesi arabi. Ed il nostro ministro degli Esteri Massimo D’Alema ha riferito che la Rice inviterà a Roma anche Israele. «Sarebbe un risultato - spiega il titolare della Farnesina - ancora più straordinario per le prospettive di pace». In ogni modo, «quello che conta davvero, a questo punto, è che dal vertice di Roma escano fuori cose concrete».
All’incontro di mercoledì 26 luglio a Roma, alla Farnesina prenderanno parte i ministri degli Esteri del cosiddetto «core group», nato per far applicare la risoluzione 1559 dell’Onu che prevedeva il ritiro della Siria dal territorio libanese e il disarmo delle parti in causa. A Roma si vedranno quindi i capi della diplomazia di Stati Uniti, Italia, Francia, Regno Unito, Commissione europea e presidenza Ue, Russia, Banca Mondiale, Onu, Egitto, Arabia saudita; dovrebbe inoltre essere presente una delegazione libanese (anche Beirut fa parte del «core group») e ci saranno anche Giordania, Germania e Spagna.
L’apprezzamento per l’iniziativa di pace del nostro governo al fianco degli Usa è unanime. Con plausi espliciti anche dal leader dell’opposizione italiana Silvio Berlusconi («si apre uno spiraglio di speranza», commenta in una intervista.) Con una precisazione: «no all’equivicinanza o all’equidistanza del nostro governo: Israele ha diritto a difendersi dal terrorismo». Plauso anche dall’ambasciatore Usa a Roma Ronald Spogli: «superato un momento delicato - dice - ora americani e italiani lavorano insieme».
Nessuna tregua, Israele conferma ripresa raid Violenti scontri nel sud del paese tra israeliani e Hezbollah. E sulla «tregua immediata» l’Europa prima si divide poi trova un compromesso (La Stampa, 1/8/2006)
GERUSALEMME. Il governo israeliano ha dato via libera alla più grande operazione militare di terra in Libano da quando sono iniziate le ostilità, il 12 luglio, e confermato che allo scadere delle 48 ore di sospensione, alle due di questa notte, riprenderanno in pieno i raid aerei. L’esercito ha condotto quattro incursioni simultanee nei settori occidentale e centrale della frontiera con il Libano secondo fonti libanesi e della missione Unifil. Secondo una fonte, il gabinetto della sicurezza israeliano ha approvato un’offensiva di terra per 6-7 chilometri nel Libano meridionale, dove prima della guerra vivevano 300mila libanesi sciiti. Lo Stato ebraico insiste sul fatto che gli servono due settimane circa per sgominare la milizia sciita dell’Hezbollah. Soltanto dopo si potranno concludere le operazioni militari, consentendo il dispiegamento di un contingente multinazionale d’interposizione nel Sud. In questo contesto, proseguono a fatica gli sforzi delle cancellerie di tutto il mondo. A Bruxelles i ministri degli Esteri dell’Ue si sono accordati su un testo che chiede «la cessazione immediata delle ostilità per arrivare a un accordo su cessate il fuoco durevole» in Medio oriente. Ieri l’Onu ha rinviato sine die una riunione preparatoria sulla forza di pace che avrebbe dovuto svolgersi a New York.
Sul terreno, le agenzie umanitarie continuano la corsa contro il tempo per distribuire aiuti alla popolazione e completare l’evacuazione dalle zone del sud, sfruttando l’ultimo giorno di tregua, ma la situazione è drammatica. Secondo la polizia libanese oggi si sarebbero susseguiti sei raid lungo il fiume Litani, a 30 chilometri dalla frontiera, altri tre nella regione della Bekaa (Libano orientale) e altri sei raid hanno preso di mira villaggi a est di Tiro. Secondo la Commissione dei soccorsi del governo libanese è di 828 morti e più di 3.200 feriti il bilancio di tre settimane di bombardamenti israeliani sul Libano
Bombe israeliane su Cana Uccisi 57 civili, 37 sono bambini Siniora: «Criminali, stop ai negoziati» *
Sarebbero almeno 57 i civili uccisi nella palazzina della città libanese di Cana distrutta nella notte dalle bombe israeliane. Di questi 37 sono bambini. Una strage, compiuta dai caccia israeliani che hanno colpito la città biblica di Cana verso l’una di notte. ma i soccorsi hanno potuto raggiungere l’edificio raso al suolo solo al mattino, quando i bombardamenti sono cessati.
Il rimo effetto politico di questa nuova strage compiuta dagli israeliani è l’annullamento dell’incontro del presidente libanese Fuad Siniora con il segretario di Stato americano Condoleeza Rice. La Rice è tornata sabato sera in Medio oriente e, dopo gli incontri di domenica mattina con esponenti israeliani, avrebbe dovuto trasferirsi a Beirut per una nuova tornata di consultazioni con i leader libanesi.
A questo punto per i libanesi solo un «immediato e incondizionato» cessate il fuoco è accettabile. Lo ha detto il premier Siniora in una conferenza stampa convocata assieme al Nabih Berri, il presidente del Parlamento vicino gli Hezbollah. Siniora ha definito Israele «criminale di guerra» e ha aggiunto che non parteciperà a nessun negoziato se non ci ci sarà un cessate il fuoco. Siniora ha aggiunto di di voler «lanciare un grido molto forte a tutti i libanesi, tutti gli arabi e tutto il mondo perchè stiano al nostro fianco di fronte ai criminali di guerra israeliani». «La continuazione dell’ aggressione israeliana - ha aggiunto Siniora - non spezzerà la nostra fermezza. In questo momento qualsiasi discorso diverso dal cessate il fuoco non è accettabile».
Un cessate il fuoco che tuttavia non sembra essere nelle intenzioni israeliane. Il premier israeliano Ehud Olmert, poco prima della consueta riunione domenicale del suo gabinetto, ha detto che «Israele non ha alcuna fretta di sospendere» le operazioni, prima che siano stati raggiunti gli obiettivi fissati.
* www.unita.it, Pubblicato il 30.07.06
Il permesso del mondo
di MAURIZIO MATTEUZZI *
Con humor tutto inglese il Guardian di ieri apriva così una pagina sulla crisi in Medio Oriente e la conferenza di Roma: "A favore del cessate-il-fuoco immediato: Onu, Francia, Germania, Italia, Spagna, Grecia,Giordania, Russia, Arabia saudita, Egitto, Canada e Cipro. Contro: Stati uniti eGran Bretagna. Risultato: no immediate ceasefire".
Il messaggio è stato immediatamente recepito in Israele. "Nella conferenza di Roma abbiamo ricevuto il permesso dal mondo di continuare le operazioni", ha detto, secondo la Bbc, il ministro della giustizia israeliano Haim Ramon. Il ministro degli esteri tedesco Steinmeier si è provato a ribattere il "grossolanomalinteso". Nessun malinteso, hanno capito benissimo il senso di quello che è emerso mercoledì a Roma. Eieri mattina il governo israeliano di Olmert ha deciso conseguentemente "di continuare l’offensiva con la stessa strategia... e per tutto il tempo necessario". Gli arabi sospetti di al-Jazeera e gli israeliani non sospetti di Haaretz lo confermano: Israele potrà portare avanti a tempo indefinito le sue operazioni di pulizia ("cleanse") del Libano meridionale fino al fiume Litani (perché lì "tutti quelli che ci sono, sono terroristi legati agli hezbollah", parola del ministro Ramon), i suoi bombardamenti a tappeto sul resto del Libano (dove le vittime sono già più di 600, tutte civili) e, naturalmente, aGaza (finora 170 morti). Senza dimenticare la ventina di vittime civili nell’Alta Galilea.
Così è stato recepito in Israele ma non solo l’appello "alla massima moderazione " arrivato da Roma. Probabilmente il "grossolano malinteso" è del ministro Steinmeier invece che del ministro Ramon. Lui è cosciente che la panzana del "tutto il mondo sa che una vittoria di Hezbollah significherebbe una vittoria del terrorismo internazionale" è ridicola, ma è quello che il mondo, almeno la sua parte "civile " e quel faro di civiltà che sono gli Stati uniti di Bush, vuol sentirsi dire. Il segretario di Stato americano Condi Rice potrà continuare a esibire il suo sorriso da tarantola perché è lei a condurre l’irresponsabile danza di morte (per il Libano, la Palestina e anche Israele) fantasticando di "un Nuovo Medio Oriente" (dopo il nuovo Iraq, il nuovo Afghanistan), in Israele potranno continuare a giocare al lacrimoso ruolo delle vittime aggredite dal terrorismo internazionale (Iran e Siria) anziché quello dei pervicaci aggressori, in Italia tutta la batteria dei giornali amici potrà continuare la sua crociata in difesa del piccolo paese democratico minacciato di estinzione dai barbari (indecente il Corriere della sera, salvo qualche voce isolatissima).
Sarebbe ingiusto, nonostante il lento ritiro dall’Iraq e la permanenza in Afghanistan, affermare che la politica estera di Prodi-D’Alema sia uguale a quella di Berlusconi-Fini. Una qualche discontinuità c’è e il vertice di Roma è stato un successo d’immagine. Ma per il momento solo d’immagine e il rischio, in mancanza di qualche risultato (strappo?), è che al Berlusconi- zerbino di Bush si sostituisca il D’Alema-ruota di scorta. Domenica D’Alema andrà in Israele e avrà bisogno di forza e auguri. Perché dovrà partire da una considerazione ovvia ma difficile: che l’Hezbollah libanese e l’Hamas palestinese, brutti e cattivi che siano, sono l’effetto e non la causa del disastro che sta ancora una volta sconquassando il Medio Oriente.
* il manifesto, 28.07.2006
Rice: cessate il fuoco urgente Olmert: sì ad una forza europea Ferito un soldato italiano dell’Onu *
Ora anche gli Usa lo ammettono: arrivare ad un «cessate il fuoco» fra Israele e Libano è «urgente», come afferma il segretrario di Stato Usa Condoleeza Rice. Anche se «le condizioni» della tregua dovranno essere «sostenibili». In primo luogo per Israele. E proprio in Israele è atteso l’arrivo della Rice, nella tappa più importante del suo tour diplomatico in Medio Oriente che precede la conferenza internazionale di mercoledì 26 luglio a Roma.
Pur continuando a sostenere, contro la stragrande maggioranza dei Paesi, le posizioni del governo israeliano al palazzo di vetro dell’Onu (con il veto ad ogni risoluzione che critichi la reazione «sproporzionata» all’attacco subito dagli Hezbollah e chieda la fine delle ostilità), Washington ora ostenta pragmatismo. Non a caso la Rice ha sottolineato come in questa fase la diplomazia non escluda gli "stati canaglia" e la rappresentanza diplomatica americana a Damasco possa rappresentare «un canale per trattare con i siriani».
In attesa dell’arrivo del segretario di Stato Usa, in Israele si stanno svolgendo numerosi incontri bilaterali ad alto livello. Domenica si sono recati a Tel Aviv i ministri degli esteri di Francia e Germania, Philippe Douste Blazy e Frank-Walter Steinmeier, e il ministro britannico al Foreign Office, Kim Howell, nel tentativo di contribuire a creare le condizioni per un cessate il fuoco.
Gli emissari europei stanno verificando la possibilità di inviare nel Libano del Sud una forza multinazionale dell’Onu capace di creare una zona cuscinetto che possa portare ad una cessazione delle ostilità. Ma gli israeliani non credono che per fare ciò sia sufficiente un mandato dell’Onu. Lo ha spiegato chiaramente il ministro della difesa israeliano Peretz a quello degli esteri tedesco, Steinmeier al quale gli israeliani hanno detto, dopo aver taciuto sull’ipotesi Onu, che sarebbero disposti ad accettare una forza della Nato. Un’ipotesi che è stata accolta con interesse dall’ambasciatore Usa all’Onu, il "falco" John Bolton e con molta freddezza nell’interlocutore tedesco. «La parte tedesca ha sottolineato come l’idea di un coinvolgimento della Nato non sembra molto probabile» ha detto una persona presente all’incontro.
Un’ipotesi del genere sarebbe sicuramente destinata ad essere respinta sin dall’inizio dagli Hezbollah, e la proposta israeliana sembra calibrata proprio per ostacolare e condizionare qualsiasi tentativo di inviare una forza di interposizione internazionale. Uno spiraglio in più nella dichiarazione del premier Ehud Olmert, che si dice disponibile ad accettare una forza d’interposizione «composta da militari provenienti da Paesi dell’Unione europea». Ma chiede che abbia «capacità militari ed esperienza di combattimento» e che, oltre al controllo della frontiera, abbia come mandato lo «smantellamento della capacità militari di Hezbollah». Un’altra condizione difficilmente attuabile.
In arrivo nel Sud del Libano altre truppe israeliane. (WWW.REPUBBLICA.IT, 23.07.2006)
Israele sposterà oggi altri soldati nel Libano sud, mentre porta avanti l’offensiva contro i miliziani Hezbollah attivi vicino al confine. Il governo di Tel Aviv conta sul consenso degli Stati Uniti per almeno un’altra settimana di guerra, in modo da respingere gli Hezbollah a 20 km dalla frontiera. Intanto continuano anche i bombardamenti: oggi distrutta in Libano anche un’antenna radio. Fitto il lancio di razzi dal Libano verso la Galilea: due morti a Haifa. Attraccata nel porto di Beirut la nave San Giorgio, della marina militare italiana
12:34 La Siria entrerà in guerra in caso di invasione israeliana del Libano
Un’invasione terrestre del Libano da parte d’Israele spingerebbe la Siria a entrare in guerra con lo stato ebraico. Il monito è stato lanciato dal ministro siriano dell’Informazione, Mohsen Bilal, molto vicino al presidente Bashar Assad, in un’intervista al quotidiano spagnolo Abc. Nell’ipotesi di un’invasione terrestre del Libano meridionale, ha affermato, le truppe israeliane potrebbero arrivare a 20 chilometri da Damasco. "Cosa facciamo - si è chiesto - restiamo con le braccia conserte?". "Assolutamente no. Senza dubbio la Siria interverrà nel conflitto. Ciò non vuol dire che la Siria dia il benvenuto al conflitto". "Lavoriamo con la Spagna - ha osservato - per arrivare a un cessate il fuoco. Ma se le truppe israeliane ci provocano, Damasco agirà per garantire la sicurezza nazionale del territorio siriano". [....]
Se c’è la guerra chi firma la pace? di EUGENIO SCALFARI (La Repubblica, 23.07.2006)
IL PUNTO focale della situazione internazionale ora è a Beirut, è il Libano ancora più che Gaza e Bagdad e molto di più dell’Afghanistan. Eppure tutti questi scacchieri sono strettamente legati tra loro e saranno inevitabilmente discussi insieme nel vertice di Roma di mercoledì prossimo.
Il segretario di Stato, Condoleezza Rice, ha scartato il tema della tregua d’armi retrocedendolo all’ultimo posto dell’agenda. Prima, ha detto, bisogna formulare un piano di pace. La tregua d’armi è l’effetto finale, non la premessa. Purtroppo al tavolo romano non ci saranno né i siriani né Teheran.
Quest’assenza, anzi questi mancati inviti, non sono una questione di poco conto. Se è vero che Hezbollah e l’ala militare di Hamas traggono forza dall’appoggio politico, militare e finanziario di Damasco e di Teheran, allora nessuna delle parti belligeranti sarà presente al vertice di Roma. Forse ci sarà Israele che comunque è rappresentato per tacita procura dalla stessa Rice.
Sarà dunque un piano di pace imposto da una delle parti all’altra? Nella presunzione, purtroppo tutta da dimostrare, che la parte proponente abbia già vinto? Ripeto il purtroppo: purtroppo non è così. L’Islam militante e combattente non è rappresentato né da Siniora e da Hariri né da Mubarak né dal re di Giordania e tanto meno dalla Lega araba. Ancora meno dalla Banca Mondiale che è lì nel ruolo di salmeria al seguito del Comando supremo.
Non vogliamo dire che l’incontro romano sia destinato al fallimento. Sarebbe una catastrofe se ciò avvenisse. E non diciamo neppure che il piano di pace già soprannominato Condi non sarà equilibrato e suggestivo. Diciamo soltanto che al tavolo mancherà interamente la parte islamica che ha aperto le ostilità contro Israele. La stessa strada seguita da Sharon che non negoziò con l’Autorità palestinese né il ritiro da Gaza né il (futuro) ritiro da una parte della Cisgiordania e tanto meno la costruzione del muro. Né, soprattutto, la sovranità (piena o limitata?) del costituendo Stato palestinese. Si trattava d’una pace concessa dal preteso vincitore. Il risultato è stato che la guerra continua, ha assunto forme nuove e ancor più insidiose, si è estesa dal sud e dall’est fino al nord. Mentre a Bagdad infuria la guerra civile tra sunniti e sciiti, al ritmo di cento persone trucidate ogni giorno. Queste guerre mesopotamiche e i terrorismi che le costellano possono ben essere chiamate la strage degli innocenti.
Sono gli innocenti a perdere la vita: innocenti ebrei, innocenti palestinesi, innocenti sciiti e sunniti che si scannano tra loro come vitelli al mattatoio, innocenti i libanesi sciiti, maroniti, drusi, innocenti anche i marines, i fucilieri britannici, i paracadutisti e i carabinieri italiani. Strage di innocenti. Per colpa di chi? Di chi ha il potere, di chi attacca e contrattacca, di chi coltiva la cultura della vendetta.
Nessuno la vincerà una guerra così. Perché è una guerra tra colpevoli in lotta tra loro e contro l’innocenza trasversale. Ma un rischio c’è ed è molto grosso: che gli innocenti si alleino con quella parte dei colpevoli che si proclamano loro difensori. Sarebbe un gravissimo errore, ma pressoché inevitabile. Con chi volete che si alleino cinquecento milioni di musulmani mediorientali, iraniani, pakistani, maghrebini, se non con i potenti che combattono l’Occidente imperialista?
Le truppe straniere d’occupazione? L’Occidente cristiano? L’Occidente corrotto? L’Occidente ricco? Padrone del loro petrolio per interposti sceicchi? L’Islam militante e combattente non sarà dunque presente al vertice di Roma come invece vorrebbe. L’Iran vorrebbe. La Siria vorrebbe. Hamas vorrebbe. In fondo vogliono soprattutto questo: essere riconosciuti come parti contraenti. Dovrebbero sentirsi rappresentati da Putin? Ma via, molta acqua è passata sotto i ponti del Tigri, dell’Eufrate, del Nilo. Israele, che pure si sente terribilmente solo e se ne comprende la ragione guardando alla sua millenaria storia di sofferenze e alla carta geopolitica del Duemila, un rappresentante ce l’ha a quel tavolo: è in compagnia del potente più potente del mondo.
Ma qual è l’alleato potente dell’Islam militante e combattente? E di quello "innocente" che sopporta sulla sua pelle tutti gli "effetti collaterali". Questo sarà il rebus da sciogliere mercoledì a Roma. Non sarà una giornata facile per nessuno, nemmeno per Condi che certamente è il miglior politico Usa oggi in circolazione.
Se l’Europa fosse una forza politica unitaria la soluzione del rebus forse ci sarebbe. Prodi e D’Alema lo sanno e lo dicono da un pezzo. Quasi tutti i partiti dell’Unione sono su quella linea. Berlusconi credeva di risolvere il problema con la proposta d’un piano Marshall per la Palestina, ma non c’era Marshall e tanto meno la Palestina. Fini sostiene che il governo italiano attuale è equidistante e quindi responsabile delle stragi del terrorismo.
A me non piace essere scortese ma un uomo che ha guidato per cinque anni la politica estera del nostro paese e dice imbecillità di questa dimensione fa sorgere il fondato dubbio d’essere un cretino illuminato, come recita una celebre battuta di Ennio Flaiano, da improvvisi lampi di imbecillità.
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Giovedì prossimo, appena poche ore dopo il vertice di Roma, si aprirà in Senato una questione tutta di politica interna anche se il terreno di confronto sarà di importante attualità internazionale: il voto sul rifinanziamento e la permanenza del contingente militare italiano in Afghanistan sotto le insegne della Nato e in attuazione d’una risoluzione dell’Onu. Tutti i partiti del centrosinistra si sono ufficialmente dichiarati per il "sì" del rifinanziamento. Alla Camera, che ha già approvato la mozione del governo con 549 voti contro 4, la maggioranza è stata largamente autosufficiente. Ma al Senato quei quattro "obiettori di coscienza pacifista" provenienti da tre partiti della sinistra radicale, minacciano di essere sette o otto rinforzati dal "no" dell’ineffabile Cossiga che, pur di comparire sui giornali, sarebbe disposto a qualunque giravolta. Inaffidabile e impenetrabile quanto irrilevante.
Ma tant’è: al Senato il centrodestra voterà "sì" come alla Camera. Berlusconi annuncia che voterà "sì" anche se Prodi dovesse mettere la fiducia e spera che, al riparo di quella confluenza parlamentare, gli obiettori di coscienza saranno incoraggiati a votare "no" nel qual caso la mozione del governo passerebbe ma con il voto determinante del centrodestra. Quindi il governo - così ragiona il centrodestra con dovizia di argomenti sbandierati dallo schieramento mediatico del Cavaliere nonché da una parte importante della stampa indipendente - dovrebbe dimettersi e si marcerebbe verso la grande coalizione tra l’esultanza dei centristi di tutte le stagioni.
Prodi è stato fino all’altro ieri apertamente contrario a porre la questione di fiducia. Ha sperato che gli obiettori si convincessero alla ragione. Ma poi i leader di Rifondazione, Comunisti italiani e Verdi comunisti gli hanno confessato che i dissidenti erano irremovibili. Avrebbero ceduto solo di fronte alla questione di fiducia. "Ne siete certi?" ha chiesto Prodi. "Quasi" hanno risposto. Poi hanno aggiunto: "Lo speriamo" ed hanno concluso: "Non c’è altra strada". A quel punto il Consiglio dei ministri ha autorizzato il presidente a porre la fiducia se lo riterrà necessario. Si deciderà giovedì mattina. Prodi non sembra ancora convinto.
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Azzardo un’opinione, ovviamente personale: mettere la fiducia sulla questione afgana è un grave errore politico e parlamentare. Spiego il perché (Claudio Rinaldi mi ha anticipato l’altro ieri su queste pagine).
1. Restare con l’Onu e la Nato in Afghanistan è importante per la coerenza della nostra politica estera e per la credibilità del governo che ha già dato e continua a dare prova crescente di discontinuità seria rispetto alla "politica delle pacche sulle spalle" del precedente governo.
2. È dunque nell’interesse del governo e del paese che la mozione sull’Afghanistan sia approvata.
3. Se la fiducia sarà posta e, ciononostante, il centrodestra votasse "sì", la mozione del governo passerà a larghissima maggioranza e - probabilmente - la dissidenza degli obiettori rientrerà. Ma non è affatto sicuro né che questo rientro vi sarà né che i berlusconiani confluiranno. Il rischio che la maggioranza non sia autosufficiente è alto; non altrettanto alto ma neppure da escludere è il rischio che la mozione sia respinta.
4. Se invece Prodi non porrà la fiducia la confluenza del centrodestra è sicura. Il rientro della dissidenza resterebbe incerto. Ma il Parlamento avrebbe comunque compiuto un passo dal quale il governo uscirebbe rafforzato.
5. L’obiezione eventuale di una parte della sinistra su un preteso spostamento del governo verso il centro sarebbe insostenibile: tale spostamento avverrebbe solo per responsabilità degli obiettori quindi, per il principio di non contraddizione, non potrebbe essere in nessun caso addebitato a Prodi e al suo governo che hanno mantenuto fermi i contenuti già da tempo preannunciati della loro politica estera.
6. Resta il fatto che la maggioranza non si sarebbe dimostrata autosufficiente. Vero, ma del tutto irrilevante.
In una Repubblica parlamentare contano soltanto i voti e non le intenzioni e le motivazioni politiche che stanno dietro al voto di ciascun deputato e senatore. Se la mozione del governo passa, il governo ha vinto. Se l’opposizione, dopo aver votato "sì" vuole le dimissioni del governo per mancata autosufficienza, ha una sola strada: presentare una mozione di sfiducia e metterla in votazione. Mi stupisce vedere che importanti leader politici dimentichino le regole parlamentari sancite dalla Costituzione. Il governo, recita la nostra Carta, si dimette se una delle Camere gli vota la sfiducia. Nessun altro caso è previsto.
Dunque dov’è il problema? Credo che Prodi non debba mettere la fiducia. Comunque, la metta oppure no, la sorte del governo è affidata solo al risultato del voto. Se vinceranno i "sì" avrà vinto il governo, se vinceranno i "no" ci sarebbe la crisi. In ogni caso se i dissidenti, fiducia o non fiducia, votassero "no" i loro partiti dovrebbero espellerli.
Probabilmente non si dimetterebbero dai seggi parlamentari e il governo al Senato avrebbe perso la maggioranza sulla carta. Soltanto sulla carta però, ma non agli effetti costituzionali. Questi si verificano soltanto, lo ripeto, quando vi sia voto di sfiducia. E se avvenisse soltanto in una delle Camere, è quella che può essere sciolta dal capo dello Stato. (23 luglio 2006)