L’Umanità rimossa: i conflitti che il mondo non vuole vedere
(A cura della Redazione di Rete Radié Resch n.74/2006)
Dalla guerriglia del Kashmir alla giungla indonesiana, i conflitti taciuti dell’Asia deflagrano sulla stampa internazionale soltanto in seguito ad eventi particolarmente catastrofici.
C’è voluto un disastro gigantesco come lo tsunami per costringere il mondo ad accorgersi che in un paese chiamato Sri Lanka, l’antica Ceylon, c’è una guerra in corso che ha già fatto decine di migliaia di morti e per la quale ogni tentativo di pace è stato inutile. C’è voluto lo tsunami per far comparire sulla mappa della stampa internazionale un posto chiamato Acei, in Indonesia, dove 90mila sono i morti di un antico conflitto etnico. E c’è voluto un re dittatore umiliato dal suo popolo in rivolta, perché il mondo si accorgesse di una guerriglia sanguinosa in corso sulla cima del mondo, nel Nepal.
Il mondo, ossessionato da tutto quello che accade nel bacino del Mediterraneo e dintorni e dalle guerre che vedono in qualche modo toccati gli interessi occidentali, ignora le guerre più sanguinose. Eppure molte volte questi conflitti sono il risultato delle scelte compiute dai colonizzatori occidentali, da inglesi, olandesi, portoghesi, americani, che impongono ad altri paesi condizioni di vita innaturali e situazioni politico-economiche impossibili da gestire. La lista è lunga: guerre e guerriglie di stampo etnico sono in corso nel sud della Thailandia, nel nord-est e nel sud-ovest dell’India, nelle Isole Moruc, nell’antica Birmania dove l’esercito dei generali al potere non utilizza armi, ma attraverso la fame e il lavoro forzato distrugge la minoranza Caren.
A Timor Est i morti sono stati 300mila e la pace è precaria, nel Kashmir non c’è pace. Dietro a tutti questi conflitti ci sono interessi che vanno al di là dello scontro etnico: ad alimentare queste guerre ci sono i mercanti di armi e le imprese minerarie, sempre occidentali, che utilizzano guerre e guerriglie per assicurarsi il controllo dei territori e lo sfruttamento delle loro risorse.
Per tutti questi conflitti vale una regola: non se ne deve parlare. Ed ecco che si mette la museruola alla stampa locale, mentre quella internazionale è semplicemente as¬sente.
Oltre a detenere il primato per la quantità di guerre in corso e per il numero di Paesi in esse coinvolti, l’Africa è il solo continente dove il numero dei conflitti è a tutt’oggi in aumento.
Sudan, Eritrea, Congo, Costa D’Avorio.., l’Africa è il continente delle guerre dimenticate. Le guerre di nessuno, che malgrado milioni di morti vengono il più delle volte ignorate o sottovalutate dalla Comunità internazionale. Conflitti etnici o religiosi, guerre per il controllo delle risorse energetiche e minerarie, scontri sanguinosi che scaturiscono da una totale mancanza di prospettive economiche.
Diverse sono le cause e le radici di questi conflitti, diversi i contesti socio-politici in cui scoppiano. Tra i fattori di maggiore instabilità c’è senza dubbio il desiderio pluricondiviso di mettere le mani su questo immenso serbatoio di materie prime e di ricchezze naturali.
È il caso della Repubblica Democratica del Congo, dove dal ‘97 è in corso una violenta guerra civile che ha già fatto oltre 3milioni di morti ed ha visto coinvolti 6 paesi africani, dal Ruanda all’Angola.
Spesso questi conflitti vengono classificati abbastanza superficialmente come guerre etniche, ma le cause più profonde che li determinano vanno cercate in quella che qualcuno ha definito ‘la geo-politica del cinismo’, ossia nella volontà di accaparrarsi porzioni ingenti di materie prime strategiche quali il petrolio, i diamanti o ancora, nel caso specifico del Congo Democratico, l’uranio e il coltan, un materiale sconosciuto ai più ma che riveste un’importanza enorme nello sviluppo della new economy.
L’altra zona calda del continente è senza dubbio il Darfur, dove dal 2003 è in corso una vera e propria catastrofe umanitaria. La regione settentrionale del Sudan è col¬pita da un sanguinoso conflitto armato fra milizie filo-governative e gruppi ribelli. Anche in questo caso fra i fattori che hanno dato origine alla guerra giocano un ruolo di primaria importanza le mire sugli immensi giacimenti di petrolio presenti nella regione. Si tratta di un conflitto che ha già prodotto più di 300mila morti, senza considerare le gravissime violazioni dei diritti umani e gli stupri etnici utilizzati come vera e propria arma di offesa. Questa guerra, etichettata semplicisticamente come guerra etnica fra bande tribali, è in realtà fortemente sostenuta dal governo sudanese e sta dimostrando di possedere dei risvolti strategici ed economici importantissimi.
Centinaia di migliaia di profughi del Darfur hanno trovato rifugio nel vicino Tchad, dove proprio nelle scorse settimane sono scoppiati violenti scontri tra l’esercito e i ribelli del Fronte Unito per il Cambiamento. Una crisi che rischia di innescare un’altra crisi. È questa una delle caratteristiche peculiari delle guerre africane, il loro carattere regionale. Pochi mesi fa il governo del Tchad ha rotto le relazioni diplomatiche con il Sudan, accusato di sostenere militarmente i ribelli.
Tra le guerre dimenticate c’è poi quella in atto in Costa d’Avorio, un paese ormai spaccato in due dopo che una rivolta militare è degenerata in guerriglia. Per non parlare del Corno d’Africa, dove le tensioni fra Eritrea ed Etiopia continuano ad af¬fliggere milioni di persone, malgrado la guerra sia ufficialmente terminata da ormai 6 anni. E’ una guerra di difficile lettura che si presta a molte interpretazioni differenti. Tra tutte c’è lo scandalo che vede coinvolti i due leader politici che hanno portato avanti la lunga e sanguinosa lotta di liberazione dal potere di Menghistu, riuscendo a giungere alla nascita di una nuova nazione che è l’Eritrea, ma che oggi si ritrovano a combattersi su fronti opposti come acerrimi nemici. In realtà dietro a questo c’e anche una questione di leadership regionale che l’Etiopia vorrebbe arrivare ad avere. Ma è soprattutto la vendita di ingenti quantitativi di armi all’una e all’altra parte, unita al mancato processo di democratizzazione di queste società, che tiene aperta la tensione e alta la presenza di elementi esplosivi nel Corno d’Africa. Una regione calda che confina con una Somalia politicamente disintegrata e con un’area Medio¬Orientale a sua volta altamente esplosiva.
L’America Latina, tradizionalmente sconvolta da guerre e rivoluzioni, registra oggi una significativa riduzione dei conflitti armati, il più cruento dei quali è in corso in Colombia.
Nel conflitto colombiano i veri sconfitti sono i più poveri, i campesinos, gli indige¬ni, gli afro-discendenti: 3milioni e 600mila sfollati, pari al 9,3% della popolazione, hanno perso la casa e la terra e sono fuggiti in città, dove vivono in condizioni di miseria e di totale esclusione sociale.
I veri sconfitti sono i diritti umani: 7mila desaparecidos, più di 7mila detenzioni arbitrarie, quotidiane esecuzioni extra giudiziarie. Alirio Ribe Mugnos, avvocato colombiano, è il vice-presidente della Federazione Internazionale per i Diritti Umani ed è stato insignito nel 2003 del premio Martin Enaz, uno dei maggiori riconoscimenti a livello internazionale per la Difesa dei Diritti Umani. Vive costantemente sotto scorta perché minacciato di morte dai para-militari. In Colombia le armate para-militari seminano il terrore, ma è proprio una legge dello Stato, la Legge 48 del 1968, che autorizza l’esercito ad armare i civili, creando i presupposti legali del para-militarismo.
Squadroni di uomini senza scrupoli perseguitano ed uccidono chiunque sia sospettato di avere rapporti con i guerriglieri: ancora oggi sotto i loro colpi cadono giudici, giornalisti, leader politici e sindacali. Responsabili dei più efferati massacri di questi 40 anni di guerra, quasi sicuramente non ne dovranno mai rispondere di fronte ad un tribunale.
Quello che si è fatto tra il 2002 e il 2003 è stato varare leggi per concedere benefici ai para-militari che decidono di smobilitarsi. In 37mila lo hanno fatto, ma purtroppo, come ha constatato l’Alto Commissariato di Pace, poco meno del 2% di loro verrà processato, mentre il 98% resterà impunito. Per l’ennesima volta non sarà fatta giustizia né verità, non saranno risarcite le vittime, né riconsegnati i desaparecidos, né restituite le terre agli sfollati.
Negli anni ‘70 la mafia della droga è intervenuta a complicare ulteriormente il conflitto. Si sono moltiplicate a dismisura le piantagioni di marijuana e coca, che fino a pochi anni prima erano semplicemente piante sacre e curative per indigeni e campesinos. Il traffico miliardario di stupefacenti tra Colombia e Stati Uniti ha creato un giro perverso di corruzione nel sistema politico e istituzionale. Bande di sicari assoldati dai “narcos” difendono gli affari e lo strapotere dei boss attraverso intimidazioni, omicidi, attentati.
E’ importante che si sappia che il narcotraffico non è all’origine del conflitto, ma vi si inserisce come elemento dinamizzatore perché è in grado di muovere una smisurata quantità di denaro.
La politica di lotta al narcotraffico, finanziata in larga misura dagli Stati Uniti, è miseramente fallita. La Colombia continua ad esportare cocaina negli U.S.A. e le piantagioni nell’ultimo anno sono addirittura aumentate del 24%. Ma è bene ‘de¬narcotizzare’ la lettura del conflitto, perché si rischia altrimenti di sottovalutarne tutte le altre componenti.
L’enorme disuguaglianza sociale che ha scatenato la guerra continua a imperare. La Colombia è il paese meno equo del mondo: il 64% della popolazione vive sotto la soglia della povertà.
E’ necessaria una soluzione politica che passi attraverso la giustizia sociale, il lavoro, una seria riforma agraria e la redistribuzione delle risorse alimentari e sanitarie.
C’è bisogno di un’agenda sociale di pace in grado di contrastare gli enormi interessi economici che stanno alla base del conflitto e che non consentono che esso giunga a termine.
APPELLO
Europa, poni fine al dramma degli eritrei *
CARO direttore, bisogna porre fine all’oppressione del popolo eritreo. Un sistema totalitario, oppressione generalizzata della popolazione, servizio militare a tempo indeterminato, totale assenza di libertà, penuria di mezzi di comunicazione, nessun futuro che non sia schiavitù: è questo l’inferno in cui vivono gli eritrei, l’inferno da cui alcuni cercano di fuggire.
Issayas Afeworki, eroe della trentennale guerra d’indipendenza contro l’Etiopia, è diventato l’aguzzino del suo popolo. Governa con il terrore in assenza di una costituzione, di un Parlamento, di un’opposizione, di elezioni, di una stampa libera. Il 18 settembre 2001 ha fatto arrestare e incarcerare i suoi principali oppositori. Sono passati sedici anni senza un processo, un’imputazione, le famiglie non hanno mai ricevuto notizie dei detenuti. Non si sa neppure se siano ancora vivi.
A prezzo di sforzi titanici alcuni coraggiosi sono riusciti a fuggire, eludendo il sadico controllo degli apparati di sicurezza dello stato. Dopo aver vagato mesi, talvolta anni, a piedi, su camion e imbarcazioni, hanno raggiunto l’Europa. Molti hanno subito torture, rapimenti, sequestri o rapine. Tutti hanno visto morire amici e compagni di viaggio.
Che accoglienza trovano in Europa questi coraggiosi sopravvissuti? Secondo il più comune senso morale e il diritto internazionale dovrebbero essere accolti dignitosamente e ottenere subito lo status di rifugiati. Ma seppure le domande di asilo siano accolte nella quasi totalità dei casi, molti posticipano l’avvio della procedura per mancanza di informazioni e di consulenza e sostegno da parte delle autorità. Inoltre la procedura di naturalizzazione nel paese ospite prevede che i richiedenti siano dotati di passaporto. Per ottenerlo sono costretti a recarsi all’ambasciata del paese da cui sono fuggiti e ad autodenunciarsi per la fuga, dichiarando di accettare qualunque pena essa comporti. Molti rinunciano per non esporre i propri familiari in patria a gravi ritorsioni.
Che atteggiamento ha l’Europa nei confronti dell’Eritrea?
Ossessionati dal timore che i profughi raggiungano il continente, gli stati europei versano all’Eritrea milioni di euro nella speranza di evitare l’esodo. Inoltre consentono che lo stato eritreo estorca una tassa del 2% sulle rimesse degli eritrei della diaspora, nonostante la condanna dell’Onu. Stringono inoltre accordi con il regime criminale del Sudan, che affida il controllo di alcune porzioni del confine con la Libia alle milizie a suo tempo responsabili di crimini contro l’umanità nel Darfur, le quali talvolta collaborano con soggetti discutibili che sfruttano e bistrattano i profughi. Sbagliando, gli europei prendono a modello il disastroso accordo Ue-Turchia sui migranti, con effetti devastanti sulla democrazia e i diritti umani.
Questa politica ha conseguenze opposte agli auspici e contrarie ai valori fondamentali dell’Unione Europea: il regime di Asmara si è rafforzato, invece di diventare meno totalitario, aumentando la spinta all’esodo e aggravandone i rischi. Il numero degli aspiranti profughi non diminuisce e quello dei morti e degli oppressi aumenta.
Per aiutare gli eritrei a costruire un futuro che non sia di sofferenza, schiavitù ed esilio, ma di libertà e prosperità, bastano poche semplici iniziative.
Innanzitutto le autorità dei paesi europei devono fornire prontamente informazioni agli eritrei entrati nel continente con l’obiettivo di concedere loro lo stato di rifugiati il prima possibile. Occorre poi modificare la procedura di naturalizzazione in modo che gli eritrei non siano costretti a scegliere tra la cittadinanza del paese ospite e la sicurezza dei loro familiari.
In secondo luogo vanno cambiate radicalmente le politiche europee riferite all’Eritrea, la tassa del 2% non può essere più tollerata, bisogna smettere di contribuire a rafforzare il regime totalitario e l’oppressione degli eritrei, in particolare di coloro che cercano di fuggire dal paese.
A questo fine non dobbiamo più essere paralizzati dal terrore di vedere i dannati della terra arrivare in Europa, e bisogna rendersi conto che l’accordo Ue-Turchia sui profughi non è un esempio da seguire, ma da evitare.
Infine occorre aiutare le famiglie degli oppositori del regime che sono in carcere, principalmente ad avere notizie dei loro cari, ad esempio grazie all’appoggio di personaggi pubblici.
Bisogna sostenere anche gli oppositori, gli attivisti e i giornalisti in esilio, in modo da ricostituire una società pluralistica, vitale e libera.
Esiste la giustificazione morale e l’urgenza politica ad agire per porre fine all’oppressione degli eritrei.
(Traduzione di Emilia Benghi)
*la Repubblica, 19.09.2017