Kabul, 26 set. - (Adnkronos/Ign) - Ancora sangue italiano sulle strade di Kabul. Un ordigno, esploso al passaggio di una pattuglia a 10 chilometri dalla capitale Afghana, ha ucciso il Caporal Maggiore Capo Giorgio Langella e ferito altri cinque soldati, di cui due in modo grave. Gli altri tre hanno invece riportato ferite lievi
L’attacco è avvenuto alle 8 locali (le 5,30 in Italia) mentre un convoglio di tre blindati Puma stava attraversando il distretto Chahar Ayab, a sud di Kabul. Ad esplodere sarebbe stata probabilmente una bomba azionata a distanza che ha colpito solo l’ultimo dei mezzi sul quale viaggiavano sei militari.
Il Caporal Maggiore Capo Giorgio Langella, era nato nel 1975 a Imperia, apparteneva alla 21a compagnia del 2° reggimento alpini di Cuneo ed operava in Afghanistan inquadrato nel Battle Group 3. I due feriti gravi sono il maresciallo Francesco Cirmi (nato nel 1976 a BOLOGNA) e il Caporal Maggiore Vincenzo Cardella (nato nel 1982 a S. Prisco - Caserta). I due militari sono ricoverati presso l’ospedale militare francese del Regional Command Capital di Kabul. Le condizioni dei tre militari italiani rimasti feriti in modo lieve, non destano preoccupazioni. Tutti i militari coinvolti sono inquadrati nella 21esima compagnia del 2° reggimento alpini di Cuneo ed operano in Afghanistan inquadrati nel Battle Group 3, unità di manovra italiana alle dirette dipendenze del Regional Command Capital.
L’attentato è stato rivendicato dalle milizie islamiche talebane. La rivendicazione è giunta telefonicamente all’inviato della Tv araba ’al-Jazeera’. Il portavoce talebano, Muhammad Hanif, ha affermato che i suoi uomini avevano preso di mira un convoglio di soldati italiani. Prima di dare la notizia, Tv del Qatar aveva diffuso un testo apparso sullo schermo nel quale si leggeva: ’’le milizie Talebane sostengono di essere dietro all’attentato compiuto contro gli italiani in Afghanistan’’. L’inviato di ’al-Jazeera’ a Kabul parla pero’ di due soldati italiani deceduti e di cinque feriti colpiti in questo attacco.
Un attentatore suicida ha invece provocato 18 morti a Lashkar Gah, capitale della provincia meridionale afghana di Helmand. L’attentatore, che indossava una cintura esplosiva, si è fatto saltare in aria davanti alla residenza del governatore, uccidendo tre poliziotti e 15 civili. Altre 18 persone, fra cui donne e bambini, sono rimasti feriti, ha detto il capo provinciale della polizia Nabi Mullahkil.
Il kamikaze, ha spiegato, si è fatto esplodere quando la polizia ha cercato di perquisirlo. A quel momento centinaia di persone erano in fila davanti alla casa del governatore per avere il permesso necessario al pellegrinaggio alla Mecca durante il sacro mese islamico di Ramadan, appena iniziato. Vicino al luogo dell’attentato si trovano una moschea, un posto di blocco della polizia e una strada molto frequentata da civili e truppe Nato. Nessun soldato straniero è rimasto coinvolto nell’attacco.
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Kabul, attentato agli italiani. Soldato ucciso, altri due gravi
Morto anche un bambino *
La salma di Giuseppe OrlandoSi chiama Giorgio Langella il soldato italiano morto oggi a Kabul, in Afghanistan in un attentato contro un convoglio della Nato compiuto con un ordigno azionato a distanza. Altre sette persone, tra cui cinque civili, sono rimasti feriti. L’ordigno era stato collocato sotto un ponte, ed è stato fatto esplodere al passaggio del convoglio, ha riferito Ali Shah Paktiawal, il direttore della polizia criminale di Kabul. Il caporal maggiore Langella, nato nel 1975 a Imperia, apparteneva alla 21esima compagnia del secondo reggimento alpini di Cuneo ed operava in Afghanistan inquadrato nel Battle Group 3.
Due dei militari rimasti coinvolti sono feriti gravemente - il maresciallo Francesco Cirmi, bolognese, e il caporal maggiore Vincenzo Cardella, di Caserta - mentre altri tre hanno riportato solo ferite lievi. Tra di loro c’è anche un soldato donna: si tratta del caporale Pamela Rendina, del II reggimento Alpini di Saluzzo, che ha riportato lievi ferite così come il caporalmaggiore scelto Salvatore Coppola e il caporale Stefano Belfiore. «I soldati viaggiavano in un convoglio a circa 10 chilometri a sud della capitale afghana quando è esploso un ordigno improvvisato probabilmente azionato da un comando a distanza», ha detto un portavoce del ministero della Difesa. L’incidente è avvenuto alle 5.30 circa ora italiana «durante una normale attività di pattugliamento» nel distretto di Chahar Asyab. L’ordigno è esploso al passaggio di tre veicoli blindati leggeri «Puma», colpendo solo l’ultimo dei mezzi su cui viaggiavano sei militari italiani.
Nell’attentato di questa mattina a sud di Kabul, costato la vita ad un soldato italiano dell’Isaf, è deceduto anche un bambino, che si trovava a bordo di un auto che seguiva il convoglio dei militari Nato. I talebani hanno rivendicato l’agguato. È stato un uomo di nome Mohammad Hanif, presunto portavoce dei talebani, a rivendicare l’attentato di oggi a Kabul contro il convoglio militare italiano con una telefonata all’Agenzia France Presse. E una telefonata analoga è arrivata all’emittente araba Al Jazira.
Il comando Isaf ha confermato: «Un ordigno esplosivo artigianale azionato contro un convoglio dell’Isaf ha ucciso un bambino e un soldato alle 8 di questa mattina ora locale, 10 chilometri a sud di Kabul». Sono rimasti feriti altri cinque militari del convoglio. Altre fonti della polizia di Kabul riferiscono di 5 feriti tra i civili.
È di meno di una settimana fa l’ultima vittima italiana in Afghanistan prima dell’attentato di oggi: il caporalmaggiore Giuseppe Orlando perse la vita in un incidente stradale la sera del 20 settembre scorso, mentre altri due alpini rimasero feriti in modo non grave. L’incidente si verificò intorno alle 23 di sera, anche in questo caso durante una normale attività di pattuglia condotta nel distretto di Chahar Asyab, a circa 13 chilometri a sud di Kabul.
Ma la provincia di Chahar Asyab non è l’unica a essere così pericolosa. Sono 18 le persone rimaste uccise da un attentatore suicida che si è fatto esplodere sempre oggi a Lashkar Gah, capitale della provincia meridionale afghana di Helmand. L’attentatore, che indossava una cintura esplosiva e quando la polizia lo ha fermato per perquisirlo si è fatto saltare in aria davanti alla residenza del governatore, uccidendo tre poliziotti e 15 civili. Altre 18 persone, fra cui donne e bambini, sono rimasti feriti, ha detto il capo provinciale della polizia Nabi Mullahkil.
Martedì il presidente afgano Hamid Karzai ha invitato il Pakistan a chiudere le scuole di estremismo ospitate nelle madrasse, le scuole coraniche indicate come culle dell’estremismo islamico e ad arrestare le persone che vi si addestrano. «Il terrorismo non finirà fino a quando non rimuoveremo le fonti dell’odio nelle madrasse e i campi di addestramento» ha detto Karzai in un discorso al Woodrow Wilson International Center. Karzai incontrerà oggi il presidente George W. Bush. Poi, in una cena domani sera, Bush incontrerà Karzai e Musharraf. La scorsa settimana Musharraf ha detto che le scuole estremiste sono soltanto il 5 per cento di tutte le scuole pachistane e ha riconosciuto che «ci stiamo muovendo lentamente» contro queste.
* www.unita,it, Pubblicato il: 26.09.06 Modificato il: 26.09.06 alle ore 12.27
Il prezzo della pace
di Luigi Bonanate *
Un’altra bomba contro gli italiani, un altro caduto fra i nostri militari all’estero. L’attentato di ieri in Afghanistan, nel quale ha perso la vita il caporal maggiore Giorgio Langella e che ha provocato il ferimento di cinque soldati, ci ha ricordato quanto lontani, troppo lontani siano i nostri militari inviati in missione di pace. Lontani dall’Italia, ma vicini alla guerra.
L’Afghanistan è vicino al Pakistan, che è vicino all’Iran che è vicino all’Iraq che è vicino (anche se non contiguo) al Libano.
Questo è l’impressionante intreccio geografico-politico che sta dando vita a un nuovo «grande gioco» mediorientale che potrebbe essere decisivo per le sorti del mondo. Ma diversamente da un tempo, quando soltanto potenze coloniali come la Gran Bretagna o la Francia, o super-potenze militari come gli Stati Uniti o l’Unione Sovietica, potevano intervenirvi facendo e disfacendo i loro interessi, oggi anche «il resto del mondo» è entrato in partita e, volente o nolente, si è trovato a incidere su una dinamica complicata ma essenziale per le sorti della pace.
In questo gioco sono così entrate anche cosiddette «potenze medie» o minori, come l’Italia e (se non s’offende) la Francia, alle quali tocca in Libano di svolgere un’opera di mediazione interlocutoria, intesa a evitare che le cose franino in un contesto internazionale incerto, insicuro, inquieto: tutte conseguenze di quella specie di perdita del centro che il sistema internazionale sperimenta da ormai diversi anni (tutti tranquilli: a partire da ben prima dell’11 settembre!). A guardar la carta geografica effettivamente vengono i brividi perché se fosse vera la vecchia teoria americana del domino, la progressiva caduta sotto schiaffo dei paesi mediorientali, che giorno dopo giorno vedono peggiorare i loro rapporti (non ho enumerato Israele e Autorità nazionale palestinese e gli altri attori mediterranei ma non per questo essi sono irrilevanti), dovrebbe essere premonitrice di altre e più gravi crisi.
Se la situazione è davvero difficile, allora le operazioni di peace-keeping che vi vengono intraprese si liberano di ogni sciocco parvenza di pacifistica ingenuità per trasformarsi in decisivi strumenti diplomatici rivolti ad assorbire spinte e tensioni che altrimenti potrebbero degenerare. Il più ovvio e palese esempio di tutto ciò è rappresentato dalla crisi libanese, in sé non spontanea in quanto ennesima degenerativa puntata della questione israelo-palestinese, ma tale che, se nelle settimane scorse fosse stata abbandonata a se stessa, probabilmente oggi l’intero Mediterraneo sarebbe in guerra. E dunque la missione in Libano diventa il banco di prova di un rinnovato (o innovativo) multilateralismo che si intreccia con il prediletto unilateralismo statunitense che potrebbe davvero ridare all’Europa (meglio, all’Unione Europea) un ruolo di attore principale nel governo dell’ordine mondiale, che sarebbe perfetto per un’entità che non è più uno stato e non è né sarà mai una superpotenza. Ma in questa fase storica si richiede ancora il dispiegamento di eserciti, il ricorso, seppure il più limitato possibile, alla coercizione e dunque anche alle armi, che mirano a dissuadere ogni avventurismo o qualsiasi tentativo di sfruttare le eventuali disarmonie infra-occidentali.
L’Italia ha operato manu militari in Iraq, agisce ancora in Afghanistan ed è appena arrivata in Libano - un’Italia che non vince soltanto mondiali di calcio e ciclismo, ma ha imparato anche a collaborare internazionalmente ai programmi Onu per la salvaguardia della pace nel mondo. Mi si passi il pizzico di retorica, a favore dell’Onu più che dell’Italia, per sottolineare che mentre un tempo i principali fornitori di «caschi blu» erano paesi marginali e poco significativi per le sorti della politica internazionale, oggi certi compiti sono meglio assolti da paesi più attrezzati e che hanno innovato radicalmente (come è stato in Italia) la formazione professionale e culturale dei loro soldati. In questo quadro diventa pochissimo comprensibile la polemica che di tanto in tanto riemerge sugli italiani-brava-gente, troppo bonaccioni, pacifici e poco determinati. Molto più importante è chiedersi se quel che si sta cercando di fare tutti insieme avrà gli effetti sperati. Se ovviamente è per tutti noi difficile fare previsioni, possiamo però agevolmente trarre dei consigli o degli ammonimenti dalle esperienze appena fatte. In Afghanistan, dove eravamo andati con il sostegno di un’opinione pubblica sconvolta dall’11 settembre, ci troviamo ora di fronte a un vero e proprio insabbiamento dell’occupazione di cui non si vede un prossimo sblocco mentre le difficoltà aumentano e la pacificazione si allontana. E i fatti di ieri ne sono la nuova, triste conferma. Forse l’Afghanistan non era il bersaglio più preciso rispetto allo scopo. In Iraq eravamo andati con un sostegno popolare risicatissimo; vi siamo rimasti più del necessario, e in una postura strategica contratta, intimiditi e preoccupati (non senza ragione) anche perché la direttiva ufficiale - portare la pace - mal si coniugava con le difficoltà che si trovarono sul territorio.
Il ritiro dall’Iraq lo ha lasciato quasi nella stessa situazione in cui l’avevamo trovato; il rinnovo della missione in Afghanistan rientra in un puro e semplice mantenimento di una promessa di cui però non si vedono sbocchi e che addirittura getta fosche luci sul vicino Pakistan, occulto protagonista di quasi tutte le operazioni illecite in corso nel mondo, dalla droga al terrorismo. In Libano si può dire invece che l’Italia sia andata con l’adesione dell’opinione pubblica, e con programmi chiari e semplici, diversamente dunque dalle precedenti missioni. Non sarà merito italiano ma di una semplificazione del quadro degli impegni solidaristici tra gli Stati del mondo, ma partecipare a un esperimento così suggestivo potrebbe rivelarsi per il nostro paese un investimento molto più significativo che quello delle cene spettacolari e delle strette di mano hollywoodiane a cui il precedente governo aveva fatto così sovente ricorso per mascherare l’assenza di una progettualità politica internazionale. E dunque, ora più che mai, è bene ricordare un principio forte della nostra politica verso le grandi crisi internazionali: all’estero i soldati si mandano quando servono alla pace e non alla vittoria dell’uno o dell’altro. E perché tutto finisca bene, l’opinione pubblica deve essere ben informata e in grado di esprimersi.
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www.unita.it, Pubblicato il: 27.09.06 Modificato il: 27.09.06 alle ore 9.44