IL QUINTO ANNIVERSARIO 11 settembre, la memoria sprecata
di Barbara Spinelli (La Stampa, 10.09.2006)
INIZIATA da George W. Bush subito dopo l’attacco alle Torri di New York, la guerra contro il terrorismo non accenna a finire e già è durata molto tempo: cinque anni, più della prima guerra mondiale, poco meno della seconda. E nessuna vittoria in vista, nessuna indicazione su come l’impresa potrebbe andare a finire, ma anzi un proliferare di guerre etnico-religiose, di aggressioni terroriste in vari punti del globo, di disarticolazioni dei poteri statali in Medio Oriente, nel Golfo, in Afghanistan, in Pakistan, in India, nelle Filippine. Disarticolazione è un vocabolo terrorista, le Brigate Rosse si ripromettevano simile risultato quando attaccavano «il cuore dello Stato». Oggi la disarticolazione è epidemia planetaria e non sono le democrazie e neppure l’America ad avvantaggiarsene, anche se traumi come quello del 2001 in America non si sono riprodotti. Un grafico di Foreign Policy illustra l’approdo cui siamo giunti a cinque anni dall’11 settembre: fra il 2002 e il 2005 gli attacchi terroristici contro l’America sono scesi da 62 a 51 rispetto al ‘98-2001, e i morti sono diminuiti drasticamente (2991 fra il 1998 e il 2001, 3 fra il 2002 e il 2005). L’America è al momento risparmiata ma non l’Asia centrale e sud-orientale, l’Africa, e in primis il Medio Oriente (10.615 morti e 5517 attentati nel 2002-2005, contro 609 morti e 1376 attentati nel 1998-2001).
Alcuni esperti americani si consolano con queste cifre: l’avversario non è in grado di nuocere come nel 2001 e in fondo si torna al pre-11 settembre. Ma un’America che si protegge dal mondo mettendo a repentaglio il mondo non può sentirsi né vittoriosa né sicura. Il suo governo s’è lanciato in guerre mondiali con la pretesa di imitare il coinvolgimento Usa nei conflitti europei del ’900, ma il suo disegno è per la verità isolazionista, autarchico. I critici di Bush impiegano un termine calzante, quando ne riassumono i difetti: lo chiamano incurious. La persona incurious è priva di curiosità, di desiderio di conoscere, d’apprendere: ignora volontariamente le cose attorno a sé, è disattenta, distratta, prigioniera di sue astratte fantasie. La politica della memoria, nelle mani dell’incurious, produce danni perché è disordinata, procede a casaccio, dunque è inservibile. La sua tentazione è la self-fulfilling prophecy, la profezia che si auto-realizza e che di regola non è affatto una profezia ma una falsa definizione dei fatti: le conseguenze di tali definizioni sono diabolicamente reali, ma non per questo è reale anche l’originaria definizione.
Lo stesso vale per la memoria, che è una profezia sui generis: ogni giorno Bush evoca le guerre antitotalitarie del ’900, ma quasi si direbbe che non sa quel che evoca. La lotta odierna contro il terrore ha temporaneamente protetto gli americani in America (il tempo di vincere questa o quella elezione), ma ha frantumato l’influenza statunitense nel pianeta. Per cinque anni è stata condotta senza pensare il mondo, addirittura ignorandone la fattura. È stata ed è fatta con vista breve, con conoscenza nulla, con ricordi storici storti. È perduta in Iraq, può naufragare in Afghanistan. Con le guerre Usa nel ’900 ha poco a che vedere. Allora il centro dell’Occidente era forte. Oggi i mondi attorno all’America franano e il centro non tiene. Come nell’oracolo poetico di Yeats: «Things fall apart; the centre cannot hold; Mere anarchy is loosed upon the world», pura anarchia si rovescia sul mondo. Nonostante questo precipitare i discorsi ufficiali restano eguali a se stessi, e non solo in America: sono ripetitivi, vacui, annunciano offensive globali contro terrori globali senza riconoscere che il terrorismo ha preso forme ormai locali, nazionali, distinte. Gli slogan sul conflitto globale sono un regalo che ogni giorno facciamo a Bin Laden, aggrappato a quest’immagine che lusinga la sua potenza e nasconde le sue spossatezze. È vero, dopo l’11 settembre gli occidentali e parte dell’Islam (innanzitutto sciita) solidarizzarono con l’America e la missione afghana. Ma continuare a invocare l’iniziale unità senza domandarsi quel che nel frattempo è accaduto sul terreno è poco sensato. I talebani sono di ritorno da molto tempo in numerose province nel Sud e nell’Est (compresa la zona assegnata agli italiani) ed è impressionante come le due cose s’intreccino: la ripetitività dei discorsi occidentali e la negligenza dei fatti. Son ripetitivi non solo i governanti Usa ma anche la Nato, gli europei. In questi giorni lo stupore li ha assaliti, di fronte alla forza talebana che si consolida nelle zone trasferite dagli Usa alla Nato - è «sorpreso» il generale James Jones, comandante delle truppe atlantiche in Europa, s’è detto «sorpreso» il segretario alla Difesa Rumsfeld, a Kabul nel dicembre 2005: sono anni che in Afghanistan siamo sempre più esterrefatti. Neppure ci siamo accorti che sradicare le colture di oppio senza rassicurare i suoi diseredati coltivatori è consegnare questi ultimi ai talebani. Quando una sorpresa dura troppo a lungo c’è qualcosa che non va: il buon senso sta svanendo. La potenza che aveva ambizioni imperiali, a forza di sorprendersi, si perde. Forse ha ragione lo storico Niall Ferguson: gli imperi moderni, Usa in testa, durano ben poco, molto meno degli antichi.
Il fatto è che la guerra in Afghanistan non è solo lotta al terrorismo come sostiene il ministro della Difesa Parisi. Per ottenere risultati pratici deve conquistare anche cuori e anime delle popolazioni, dar loro la sicurezza che manca, aiutare lo Stato centrale a ridivenire autorevole. Se fosse solo lotta al terrorismo la missione in Afghanistan dovrebbe terminare, tanto somiglia - sempre più - all’esiziale intervento sovietico. D’altronde il terrorismo talebano è già stato in parte indebolito, non con la guerra bensì con interventi su flussi bancari e con l’intelligence. Per questo è utile esaminare le nostre sconfitte e imparare da esse, non solo in Iraq ma anche in Afghanistan: questa è vera memoria, non quella che ogni minuto evoca Hitler e Churchill. Se usano questa memoria viva, pratica, i responsabili italiani ed europei potranno rinegoziare con la Nato la missione, correggendo gli errori Usa. Altrimenti avranno ragione Fini e coloro che non vedono differenza alcuna, fra le scelte di Prodi e quelle di Berlusconi dopo l’11 settembre.
Eppure le differenze ci sono, innumerevoli. Oggi è l’ora dell’Europa ed è grande merito di Prodi, di D’Alema, averlo intuito presentandosi come custodi-sentinelle della tregua in Libano. Il conflitto libanese è stato cruciale perché ha evidenziato proprio questo: è il momento dell’Europa, del multilateralismo, dell’Onu, perché l’impero Usa periclita. L’impero non garantisce più sicurezza mondiale, non garantisce neppure più il punto nevralgico che è Israele. Negli Stati Uniti si moltiplicano le polemiche contro la lobby ebraica, in Israele aumentano le voci di chi considera l’America non più parte della soluzione ma del problema: lo studioso Jason Gitlin, su Haaretz di venerdì, sostiene che «gli Stati Uniti non sono più una risorsa nella regione ma un peso». Israele scopre l’importanza dell’Onu, cerca contatti e aiuti in Europa, in Italia. È una novità che tanti analisti Usa trascurano quando sostengono che nulla è realmente cambiato dopo l’11 settembre. Anche Berlusconi vorrebbe cancellare la novità, opponendosi all’operazione libanese.
L’Europa ha vantaggi notevoli, se i governi volenterosi congiungono le proprie forze: è capace di maggiore attenzione alle situazioni locali, e per esperienza storica sa i pericoli dei nazionalismi ideologici-millenaristi. Non globalizza tutto, generalizzando. Ma soprattutto è più restia a usare la memoria come arma politico-elettorale, come ancor oggi fanno Bush, Cheney, Rumsfeld. La memoria è una delle grandi vittime di questi cinque anni. È stata usata a sproposito, manipolata, sprecata. Si è parlato di Hitler e del cedimento democratico che va sotto il nome di appeasement con leggerezza stupefacente. Per questa via Bin Laden ha guadagnato lo statuto di possente avversario, contro il quale l’Occidente schiera eserciti. Forse la prima cosa da fare è dimenticare questi paragoni, smetterli per un po’, comunque approfondirli. Non descrivono le situazioni effettive, non aiutano. L’Iran che cerca spazio nell’universo musulmano somiglia alla Prussia dell’800 più che a Hitler: secondo Vali Nasr, studioso degli sciiti, Teheran aspira a divenire una potenza regionale come la Germania di Bismarck, e della disputa atomica si serve a tale scopo. È impregnato di messianesimo, ma quel che cerca è una resa dei conti con i regimi sunniti, non uno scontro democrazia-dittatura né la rovina d’Israele. La democrazia è anzi strumento privilegiato dagli sciiti: il loro peso nella regione aumenta enormemente, se ovunque è applicata la regola democratica «un uomo, un voto». Comunque la voce iraniana s’è fatta grossa perché le guerre Usa hanno magnificato il suo peso, innalzando gli sciiti in Iraq e indebolendo i sunniti talebani in Afghanistan (Vali Nasr, The Shia Revival, La Rinascita Sciita, Norton 2006).
Negoziare con l’Iran è inevitabile, con o senza sanzioni, e chi è preveggente in Israele lo vede: Shlomo Ben Ami, negoziatore a Camp David nel 2000, consiglia su Haaretz la «distensione con l’Iran», e la sua «integrazione in una politica di stabilità regionale prima che la bomba sia acquisita». Gideon Samet, sullo stesso quotidiano, spera nei mediatori europei e chiede che Olmert cambi la strategia nucleare: «Perché Israele non consente ad abbandonare la politica ormai antiquata dell’ambiguità (ammettere e non ammettere il possesso della bomba), e non accetta supervisioni del proprio programma nucleare in cambio di supervisioni internazionali in Iran?». Ma per far tutte queste cose urge mutare linguaggio, ripensare la storia passata, connetterla meglio col presente, rimeditare parole come democrazia, profezia, impero. L’Europa può farlo, se non sarà incurious come l’America di Bush.
IMPARARE DALLE SCONFITTE
Terrorismo tre guerre perdute
di Barbara Spinelli (La Stampa, 02.10.2006)
A forza di parlare di guerra globale contro il terrorismo, i responsabili occidentali rischiano di perder di vista le singole battaglie che questa guerra ha originato, e i risultati concreti che la loro somma ha ottenuto in 5 anni. Il concetto di guerra totale al terrorismo ha infatti effetti perversi, sui modi di ragionare e anche di far politica e combattere. Ha un effetto sulla percezione del tempo, innanzitutto: il tempo si fa statico, sconnesso dal divenire, e questo per due motivi. Perché l’obiettivo si spersonalizza (il bersaglio non è un nemico ma un metodo, appunto il terrorismo). E perché la guerra è presentata come globale, totale, dunque infinita e inviolata. Il giorno che si spegnerà, si spegnerà per ragioni che poco hanno a che vedere con gli eserciti d’Occidente.
Il concetto ha poi un effetto sul nostro modo di valutare le singole battaglie: tutte le guerre iniziate da Usa o Occidente, compreso lo Stato d’Israele (Iraq, Afghanistan, Libano) sono viste separatamente, come esperienze contingenti di una permanente e imperturbata idea generale (la lotta al terrorismo). Quest’ultima si tramuta in ipostasi, cioè in qualcosa che ha una propria consistenza astratta e ideale così l’ipostasi è spiegata nel Devoto e nell’Oxford English Dictionary al di là del fluire fenomenico, degli accidenti e delle ombre del reale. I fatti sul terreno non si unificano mai, essendo puri riflessi. S’unificano solo nel cielo delle idee, dove dettagli e accidenti pesano poco, se pesano.
Questa strategia sta fallendo, perché l’accumularsi di sconfitte accidentali sta dando preminenza al duro pavimento dei fatti sul cielo delle idee e perché nei Paesi stessi dove si guerreggia i fatti vengono unificati. Siamo soliti dire che una battaglia si può perdere, senza che per questo sia persa la guerra. Arriva però un punto in cui un numero relativamente alto di battaglie fallite fanno una guerra perduta (accanto alla dura legge del tempo c’è la legge del numero: fin da quando Aristotele descrive la visione pitagorica secondo cui il numero «misura la realtà e permette di penetrarne il significato»). Naturalmente cinque anni sono un provisorium. Ma sono sufficienti per un primo bilancio, e il bilancio è negativo. In questi anni ben tre guerre sono state fatte contro il terrorismo: una in Afghanistan, una in Iraq, una in Libano contro gli Hezbollah, e anche se non tutte sono disfatte complete, nessuna è stata vinta. A esse potremmo aggiungerne una quarta, condotta dal governo israeliano nei territori palestinesi e specialmente a Gaza, oggi rioccupata per far fronte ad attentati terroristi in seguito al ritiro unilaterale deciso dal governo Sharon.
Queste guerre siamo abituati a esaminarle distintamente, unificandole solo concettualmente quando si parla di guerra globale al terrore. A intervalli regolari giornali e politici guardano all’Iraq, o all’Afghanistan, o al Libano, oscurando le altre guerre come se nel firmamento fossero capaci di scorgere una stella alla volta. Invece è ora di vederle tutte assieme, non fosse altro perché le forze che pretendiamo combattere in varie regioni cominciano a classificarle come un unico regolamento di conti. Se non lo facciamo, è perché dire la verità dei fatti non è semplice come dire la verità delle idee: perché è comodo unificare sul piano delle idee quel che si tiene diviso sul piano della pratica. Resta che i fatti parlano chiaro: dall’11 settembre, tre guerre favorite dalla superpotenza son degenerate. La lista include la guerra d’Israele in Libano, perché senza appoggio Usa difficilmente Olmert avrebbe corso rischi così grandi. Siamo dunque giunti al punto in cui l’accumularsi quantitativo di cambiamenti si converte, attraverso un brusco salto, in cambiamento di qualità: sono quei punti nodali noti anche in fisica, quando ad esempio l’acqua passa al vapore o al gelo, cessando di esser l’acqua di prima. È il motivo per cui non vale il paragone con Hitler, se mai il paragone ha avuto valore. Per uscire dal marasma è da qui che occorre ricominciare: dal riconoscimento che la guerra odierna non è vinta, e dall’analisi severa del perché ciò sia avvenuto. Forse una delle cause è il modo in cui l’offensiva è stata condotta; forse l’errore è stato dare il nome di guerra a una lotta al terrorismo che è totalitario per come sequestra l’islam, ma che militarmente non è vincibile. Certo è che tre battaglie dissipate creano molta sicurezza nell’avversario. E che se i dati di fatto vengono occultati anziché pensati, correre presto ai ripari diventa impossibile. Correre ai ripari vuol dire riconquistare il senso del tempo e del numero: riscoprendo che il tempo scorre, che i numeri misurano il reale.
Vuol dire contare tutti questi anni, tutti gli episodi bellici, e uscire dall’ipostasi. È praticamente perduta la guerra afghana, perché i talebani hanno riconquistato metà dalla nazione e la popolazione vede ormai le truppe occidentali (non solo Enduring Freedom lanciata nel 2001 da Bush ma anche la Forza di Sicurezza e Assistenza Nato, l’Isaf) allo stesso modo: come forze unificate, che combattono l’insurrezione senza stabilizzare il Paese ma anzi destabilizzandolo. È il fiasco di Enduring Freedom che ha cambiato la natura dell’Isaf, limitata in origine a opere di ricostruzione-assistenza: cosa che non viene detta, pur di non ammettere quel fiasco. Segue l’Iraq: qui, la guerra ha creato un terrorismo prima inesistente, e ora il Paese è un caos senza Stato né centro. La guerra in Libano, infine: essa non ha disarmato gli Hezbollah ma ha dato loro più spazio e peso nella politica libanese.
Riconoscere la sconfitta non è disfattismo, sottomissione al dominio avversario. È ricostruire gli errori, per correggerli. È smettere l’immobilità del tempo, e l’illusione che questa guerra ipostatizzata possa esser vinta come fu vinto Hitler. È capire il momento in cui l’acqua riscaldandosi o raffreddandosi diventa o vapore o ghiaccio, imponendo strategie assolutamente nuove.
Naturalmente questo senso di sconfitta è dilatato dalle elezioni americane, che essendo un voto su Bush accendono tutto il pianeta. Ma i dati che in quest’occasione stanno venendo alla luce sono significativi. Un rapporto di 16 agenzie di intelligence conferma che la minaccia terrorista è aumentata, a seguito della guerra in Iraq. Un rapporto dell’Accademia di difesa britannica sostiene che i soldati Nato in Afghanistan sono «inutili e rovinosi», come in Iraq. Il rapporto Senlis infine (un centro indipendente con sedi a Londra, Bruxelles, Parigi, Kabul) documenta come l’intervento in Afghanistan sia ormai naufragato, divenendo una guerra del tutto simile alle invasioni inglesi nell’800 e a quelle sovietiche degli Anni 80 (Afghanistan cinque anni dopo - Il ritorno del talebani, primavera-estate 2006). Il rapporto spiega il modo in cui la missione atlantica Isaf, inizialmente di pace, si è tramutata in missione di guerra preventiva contro insorti combattenti, non tutti talebani (anche qui la quantità accumulata ha provocato un salto di qualità). Si parla di «sinergia», ma in effetti gli accordi del luglio 2006 predispongono una fusione tra operazioni Nato (cui l’Italia partecipa) e Enduring Freedom, tra peace-keeping europeo e una guerra Usa dagli obiettivi sempre più astratti e nebbiosi.
Riconoscere gli errori significa anche uscire dai dibattiti occidentali, guardare finalmente i mondi su cui interveniamo. Le guerre contro il terrore sono state finora un nostro affare interno: un affare ideologico, che ha diviso destre e sinistre, pacifisti e non, cristiani conservatori e innovatori. Urgente è considerare il punto di vista dei popoli coinvolti esterni all’Occidente: perché il nostro interesse dipende anche dal loro modo di vedere e vederci. Si tratta di ricominciare a far politica, affrontando le questioni che sorgono a seguito di conflitti degradati. Si tratta di cominciare un dibattito culturale sull’islam europeo, che implicitamente tenga conto delle sconfitte: il discorso del Papa a Ratisbona è forse un primo segno in questa direzione. Si tratta di affrontare l’Iran di Ahmadinejad, che oggi si sente così forte da poter abbattere due tabù al tempo stesso: banalizzando e l’atomica e la Shoah. Non solo: Ahmadinejad si ripromette di creare un cartello tra produttori di energia, che sarà sfida impaurente all’Occidente.
Ma soprattutto si tratta di rivedere il principale errore d’un quinquennio di guerre. Esse avevano come obiettivo la libertà e la democrazia, ma nei fatti hanno rafforzato o creato Stati falliti, fino a dare l’impressione di volere precisamente questo. Nessun state-building è scaturito dalle guerre, e quel che è stato fatto è piuttosto un failed-state-building, una deliberata costruzione di Stati disastrati. La svolta potrebbe avvenire in Libano, se gli europei sotto la guida del governo italiano e francese svilupperanno idee alternative. Per questo è importante che il compito di disarmare gli Hezbollah appartenga allo Stato libanese, non alle forze Onu. Lo stesso capo degli Hezbollah Nasrallah, il 22 settembre a Beirut, lo ha affermato: la creazione di uno «Stato libanese forte, capace, giusto» renderà vane le milizie sciite indipendenti.
Capire che in questione non è solo la nostra provincia culturale-ideologica, ma il mondo, significa capire che il conflitto non è oggi tra Occidente e islam radicale, ma è dentro l’islam tra forze molto contraddittorie. Gli sciiti stanno rinascendo, grazie agli interventi Usa: Khatami lo ha detto nella visita in America. Ed è una rinascita al tempo stesso promettente e micidiale, come illustrato nel prezioso libro di Vali Nasr, The Shia Revival, Norton 2006. È promettente perché gli sciiti hanno un’idea della democrazia che i sunniti non possiedono: la loro forza è nella legge della maggioranza, dell’un uomo-un voto. Abituati a esser minoranza perseguitata nell’islam, essi hanno molto in comune con gli ebrei: sono più assimilati, dissimulati, duttili dei sunniti. In passato hanno aderito al laico nazionalismo arabo pur di sfuggire all’egemonia sunnita. Ma il loro estremismo è micidiale, se dominato dalla componente apocalittica. L’ultimo imam nascosto il dodicesimo imam al-Mahdi, scomparso nel 939 d.C. tornerà a vivere e darà la vittoria: Ahmadinejad aderisce a questo messianesimo. Ma Ahmadinejad non è solo un apocalittico: è un politico che valuta sconfitte e perdite. Oggi, egli è convinto che l’America abbia subìto una colossale sconfitta. Che i grandi produttori di energia (Russia, Venezuela, Iran) possano emarginare l’Occidente puntando sull’enorme fabbisogno cinese.
Sicché siamo a un bivio. La causa era forse giusta, nel 2001, ma i risultati inficiano causa e senso della guerra. Diceva Simone Weil: «La vittoria di quelli che difendono con le armi una causa giusta non è necessariamente una vittoria giusta; una vittoria non è più o meno giusta in funzione della causa che ha spinto a prendere le armi, ma in funzione dell’ordine che si stabilisce una volta deposte le armi» (Sulla Germania Totalitaria, Adelphi 1990, p. 277). È questo ordine che non c’è, e che gran parte dell’Occidente non si preoccupa di stabilire per aggiustare il disordine che ha creato.
Cinque anni dopo
di Furio Colombo *
Questo è il giorno in cui in molti ci fermiamo a pensare e a spiegare come è cambiata l’America.
Io vorrei usare l’anniversario di quel giorno tremendo per dire come è cambiata l’Italia.
L’Italia ha adesso un governo libero e amico che è in grado di essere utile, di essere alleato, di prendere iniziative e di partecipare a progetti, non (non più) un Paese al traino, guardato con gentilezza e distrazione.
Infatti il cuore del problema che ha drammaticamente tormentato gli Stati Uniti dopo lo spaventoso attacco alle due Torri è stato l’uso della potenza. Sono state, per prime, grandi e appassionate voci americane a mettere in guardia sulla tentazione di affidarsi esclusivamente alla potenza militare invece che alla ben più forte tradizione democratica, all’intelligenza (che non è solo intelligence) per sapere e per capire, alla politica per creare o rafforzare la grande rete di rapporti col mondo che è stato il capolavoro americano e che ha portato al prevalere senza sangue del mondo libero.
In un momento estremamente difficile, la grande lezione della guerra fredda (che è stata di usare la potenza come ultima risorsa, mai come prima, lasciando invece tutto lo spazio alla politica e alla diplomazia) è andata perduta. E si è inseguito il sogno antico, e il più estraneo alla democrazia americana, del colpo di maglio risolutore, una sorta di fede (nella guerra) che sembrava finita dopo i massacri della prima guerra mondiale.
L’Italia di Berlusconi a quel progetto ha offerto soldati, che sono stati mandati mentre la guerra era conclusa e vinta solo negli annunci purtroppo non veri, e il peggio doveva ancora venire (avviene adesso, ogni giorno). E li ha mandati vestiti da missione di pace, ma subordinati agli ordini di due eserciti combattenti. E dunque esposti al rischio di saltare in aria, che purtroppo c’è stato.
L’Italia di Berlusconi si è presa una responsabilità tra le più gravi nella vita di un Paese democratico: ha aggregato i soldati (immagine, valore, sostegno, sacrificio) alla politica di un governo, in modo da far sembrare attacco ai soldati ogni dissenso dalla politica di quel governo. Seguendo questo percorso, varie spedizioni politiche (il presidente del Consiglio e ministri vari a turno) sono state organizzate per dire - e far dire ai telegiornali - «noi (la nostra parte politica) sosteniamo i soldati. Gli altri (l’opposizione) li mettono in pericolo, e li tradiscono».
Ecco come è cambiata l’Italia.
Primo, non c’è più alcun rapporto fra politica e soldati. Nessun gesto, neanche minimo, neanche un accenno, è stato fatto per collegare gli affari interni e la vita nazionale del governo dell’Unione alla missione in Libano.
L’iniziativa è avvenuta esclusivamente nell’ambito della politica internazionale in relazione con problemi internazionali, e per offrire una risposta immediata alla richiesta non solo delle Nazioni Unite ma anche del Libano e di Israele.
In questo modo l’Italia si è assunta una responsabilità che ha queste caratteristiche: è europea (ovvero a nome dell’Unione europea e insieme ad essa), è sotto la bandiera delle Nazioni Unite, primo tentativo da molto tempo di ridare forza e credibilità a quella istituzione condannata ai peggiori giudizi dalla stampa della destra del mondo e dalla stampa della destra di Berlusconi (rivedere le paginate dedicate alla denigrazione delle Nazioni Unite sui giornali di famiglia dell’allora presidente del Consiglio). E non è stata costruita per fare apparire qualcuno del governo italiano come il miglior amico di qualcuno, ma per dare l’aiuto richiesto dai Paesi interessati e dalle Nazioni Unite, d’accordo con l’Unione europea e insieme con essa.
Secondo. Tutto ciò è una notizia importante per l’alleato americano, e sembra che tale importanza sia stata avvertita.
Un Paese capace di una propria politica estera e di una propria iniziativa, per giunta in armonia con i due punti essenziali di riferimento (Ue e Onu) può essere una presenza internazionale utile e amica in un mondo continuamente attraversato dal pericolo. Questo Paese, adesso, invece di apparire nella lista di uno degli schieramenti, si trova dislocato in modo da agire nell’interesse comune. Non manca il pericolo, anzi è grandissimo perché questo è ciò che accade nel mondo. Ma si è messo nella condizione di lavorare per diminuire un po’ quel pericolo.
Lo fa con tenacia, raccogliendo già qualche frutto, attraverso l’iniziativa diplomatica e politica, e dopo aver dato alla politica la consegna di fare la pace e non la guerra. Ecco dunque che, nel quinto anniversario di quel tragico 11 settembre, l’Italia è oggi in grado di dare all’America la prova di una vicinanza che è tanto più vera in quanto attiva, utile, riconosciuta, organizzata secondo una politica della pace che - se avrà successo - sarà un beneficio e una garanzia per tutti. In ogni caso l’impegno è diminuire invece che aumentare la tensione, stare in mezzo come forza di pace, invece che essere gregari - sia pure con intenzioni di pace - agli ordini di armate in guerra.
Terzo, sta diventando evidente la sintonia sempre più forte fra una parte importante della vita politica americana e la nuova indipendente politica estera italiana. Ma senza giochi politici fra le rispettive vite interne.
Sono i grandi giornali e le televisioni americane a dirci che le elezioni Usa dette di «mezzo termine» (rinnovo di tutta la Camera e di un terzo del Senato nel prossimo novembre) mostrano ormai un forte orientamento dell’opinione pubblica di quel Paese contro la guerra. È evidente il rischio del ridicolo che correrebbe chi si arruolasse nel confronto politico di un altro Paese. Però è utile ricordare che la posta in gioco è fra l’immagine di un mondo pieno di conflitti in cui si può lavorare ogni giorno a fare un po’ più di pace, e un mondo spaccato in due dalla guerra di civiltà. Un’opinione sempre più forte e autorevole negli Stati Uniti sembra orientata a negare in modo risoluto la guerra di civiltà, l’idea di un Islam unico e monolitico da battere prima di essere battuti, l’incubo di un’unica tremenda centrale che bisogna tentare di colpire subito, in un territorio o in un altro.
Il lenzuolo nero di quell’incubo di guerra generale impedisce di vedere i veri conflitti con problemi immensamente diversi; quasi tutti politici, quasi tutti in cerca di una soluzione della politica e della diplomazia. Qui, sul terreno di questo cambiamento americano in corso, si intravede l’altra grande svolta: tornare alla lezione della guerra fredda, che ha insegnato a non usare l’estrema potenza per vincere. Infatti quella guerra è stata vinta dalla politica e dalla democrazia, non dai conflitti locali sanguinosi e mai vinti combattuti lungo il percorso.
Quarto. Per tutte queste ragioni non possiamo dire che Iraq e Afghanistan siano la stessa cosa. In comune c’è la constatazione triste dei risultati: la violenza non finisce.
Ma in Iraq l’Italia non ha voce, non ha neppure il comando dei nostri soldati, non ha alcuna partecipazione alla strategia o ai progetti su quel disgraziato Paese. Dall’Iraq si può solo tornare a casa. Ma può un governo che ha il pieno controllo della sua politica e dei suoi soldati rinunciare a capire come si può essere di aiuto e semplicemente sgombrare, in Afghanistan?
Senza dubbio vi sono cambiamenti importanti e dovuti da portare alla presenza in quel Paese. Senza dubbio occorre disporre di notizie che per ora non ci sono. Per esempio: i combattimenti nel Sud sono in crescita o in diminuzione, sono una coda o un inizio? E se fossero un inizio, sarebbe questa una ragione sufficiente per lasciare che tutto ricominci da capo?
Ha ragione Gino Strada quando dice che, comunque ti comporti, sei percepito come un «occupante». Ma si tratta di qualcosa di inevitabile o di un percorso che può essere trasformato senza aprire le porte ad altra violenza?
Insomma manca una valutazione strategica, una valutazione politica, un riesame morale. L’Italia ha diritto, e ha le carte in regola, per aprire la discussione. A cominciare da una missione di indagine parlamentare che mi sento di proporre, e che dovrebbe essere organizzata al più presto.
Ecco in che senso e in che modo l’Italia ricorda l’11 settembre e partecipa col cuore e con la testa al dolore americano.
*www.unita.it, Pubblicato il: 11.09.06 Modificato il: 11.09.06 alle ore 13.18
PER IL DIALOGO E LA PACE, LA VIA MAESTRA: ""L’Italia ripudia la guerra come strumento per la risoluzione dei conflitti internazionali" - LA COSTITUZIONE (Art. 11). Un editoriale di Giovanni Sarubbi, direttore della rivista "Il Dialogo" e del sito - www.ildialogo.org.
Cinque anni di guerra, e non è ancora finita
di Giovanni Sarubbi (www.ildialogo.org/editoriali/editoriale11092006.htm)
L’11 settembre 2001 eravamo come tanti nel mondo intenti alle nostre attività. Nessuno immaginava cosa stesse per accadere e chi lo sapeva si guardò bene dal farlo trapelare. Con il senno di poi e rileggendo alcune dichiarazioni di famosi personaggi della politica e dell’economia immediatamente precedenti l’11 settembre, c’è più di un sospetto che ciò che accadde quel giorno fosse già noto a chi deteneva e continua a detenere il potere reale, quello economico. Dichiarazioni che delineano senza ombra di dubbio quella che qualcuno ha definito "una cupola", cioè un ristretto gruppo di persone, che decide le sorti dell’intera umanità.
Immediatamente avemmo la percezione che il mondo era piombato in una nuova e terribile guerra mondiale. Immediatamente, quella stessa sera dell’11 settembre, scrivemmo il titolo della pagina che ancora oggi esiste sul nostro sito: "Terza guerra mondiale? No grazie!" e come sottotitolo scrivemmo l’art. 11 della nostra Costituzione: "L’Italia ripudia la guerra come strumento per la risoluzione dei conflitti internazionali".
Usammo l’espressione "Terza guerra mondiale" per dire con chiarezza di fronte a quale situazione l’umanità si trovava e per richiamare alla mente di chi la seconda guerra mondiale ha vissuto, i drammi e le mostruosità che sarebbero cominciate se non si fosse agito con decisione per impedire che da quegli attentati prendessero l’avvio azioni militari in grande stile, come purtroppo poi avvenne. Negli ultimi cinque anni quasi nessuno ha usato questa espressione. I più forse lo hanno fatto per esorcizzare il pericolo che sentivano sempre più forte. Altri, quelli che vengono definiti “gruppi dirigenti”, lo hanno fatto per coprire le proprie politiche di collaborazione e di sudditanza nei confronti degli Stati Uniti. Solo oggi c’è chi, fra questi “gruppi dirigenti”, si arrischia a parlare di "inizio della terza guerra mondiale" in relazione al possibile attacco all’Iran da parte degli USA, che scatenerebbe l’intervento di grandi potenze come la Cina, la Russia o l’India, che finora sono stati a guardare ciò che gli USA stanno facendo in mezzo mondo. Ma l’umanità è già in piena "guerra mondiale", e lo è da quel tragico 11 settembre di cinque anni fa. Certo a guardare la storia degli ultimi 60 anni probabilmente bisognerebbe dire che la "seconda guerra mondiale" in realtà non è mai finita, e quello che viene considerato dagli storici come l’evento che pose fine a quella immane carneficina, cioè il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, in realtà segnò solo l’inizio di una "guerra globale continua" di cui oggi stiamo vivendo una fase molto acuta e particolarmente pericolosa per i destini dell’umanità.
Le guerre si sostengono con le bugie, con l’invenzione di mostri da combattere, con l’occultamento e la mistificazione della realtà, o con l’invenzione di “casus belli” mai accaduti. Altro elemento che caratterizza qualsiasi guerra, dagli albori della storia ai giorni nostri, è il sostegno di una religione, qualsiasi essa sia. E chi vuole la guerra è disponibile persino ad inventarsela la religione a proprio sostegno, come sta accadendo oggi negli USA con i cosiddetti “born again” ed il “sionismo cristiano”.
E’ difficile dire come evolverà la situazione. Una cosa è certa ed è che per fermare la guerra è necessario opporsi sia alle falsità che vengono diffuse quotidianamente dai mezzi di comunicazione, sia alle ideologie e alle religioni che la guerra sostengono. E per opporsi alla guerra non bisogna basarsi sulla paura, che è l’arma dei guerrafondai. Occorre suscitare speranza, fare appello alla voglia di pace e di gioia di ogni essere umano. E bisogna legare la speranza alla pace e non alla guerra, alla gioia e non al dolore dei lutti che la guerra provoca perché la guerra è violenza, omicidio, distruzione dell’ambiente e dei rapporti sociali, mancanza di libertà e democrazia, significa fascismo e razzismo.
Ma per sconfiggere la guerra bisogna dare anche il massimo sostegno al movimento pacifista degli Stati Uniti, il paese che è il promotore della guerra, e la cui industria degli armamenti trae maggiori profitti dai conflitti in corso. E negli Stati Uniti cresce il numero degli americani che non credono affatto nelle versioni ufficiali fornite dal presidente Bush su ciò che è avvenuto l’11 settembre. L’agenzia MISNA ci informa che “il 36 % degli americani, secondo un sondaggio effettuato dall’Università dell’Ohio, crede che il suo governo abbia favorito in qualche modo l’attacco dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York; uno su sei ritiene addirittura che le Torri siano crollate per cariche esplosive nascoste all’interno dei grattacieli, una tesi sostenuta anche da un lungo filmato sonoro del crollo, disponibile in rete”. Sono segnali di speranza che non dobbiamo trascurare e che ci stimolano a non fermarci nel nostro "impegno per la pace".
E’ ora che il movimento pacifista italiano superi le sue difficoltà, le sue molte anime in conflitto fra loro e rimetta al centro della propria iniziativa il bisogno di pace e di una vita serena e senza violenza che, crediamo, sarà l’unica cosa a salvare l’umanità.
Bush nega i 655 mila morti in Iraq *
WASHINGTON - Gli Stati Uniti respingono la stima di Lancet, che calcola a 655mila le vittime civili del conflitto iracheno: la cifra "non è credibile", dice il presidente americano George W. Bush, dopo essersi consultato con il segretario alla difesa Donald Rumsfeld e il comandante del contingente in Iraq, generale George Casey. Anche se frutto di uno studio scientifico, la stima di Lancet appare esagerata: il 3% circa della popolazione irachena, una media tra i 500 e i 600 morti ammazzati al giorno. Ma Bush non difende l’ultima sua stima, 30mila civili uccisi, che risale all’anno scorso: "Mantengo -dice- che un sacco di innocenti" hanno perso la loro vita.
La cifra di Lancet, non basata sulla conta dei cadaveri, ma su un sondaggio casa per casa, è 20 volte superiore a quella del presidente, 10 volte a quella di molte stime indipendenti, almeno cinque volte a quella dei calcoli più pessimistici. Ma il Pentagono non azzarda numeri alternativi: "E’ difficile valutare i morti civili in Iraq con qualche attendibilità", dice un portavoce. A Baghdad, ci prova il ministero della sanità iracheno: 2.660 i civili uccisi a settembre nella sola capitale, 400 in più che ad agosto, complice il Ramadan, il mese del digiuno, che coincide sempre con un’impennata della violenza.
Turbati dal rapporto di Lancet, una rivista prestigiosa, non l’organo di una battagliera Ong, e infastidite dalle critiche di esponenti di punta repubblicani, Casa Bianca e Pentagono preparano aggiustamenti alle tattiche in Iraq. Ma la strategia resta invariata: portare a termine la missione, mettere il Paese in grado di garantirsi sicurezza e stabilità. Il clima non è più quello ottimista di fine 2005, quando l’inizio del ritiro appariva imminente.
L’esercito Usa ha ora piani per mantenere inalterato il numero delle truppe in Iraq, rispetto ai livelli attuali, fino a tutto il 2010. Lo rivela il capo di Stato Maggiore dell’esercito, generale Peter Schoomaker, precisando che l’esistenza dei piani non significa, di per sé, che i livelli saranno mantenuti, ma solo che potranno esserlo, se necessario: "E’ più facile ritirare delle unità da un giorno all’altro che rimpiazzarle", se i movimenti non sono stati programmati. L’idea è di potere mantenere in Iraq circa 15 brigate per altri quattro anni, quando sono già passati 42 mesi dall’invasione. Il generale Schoomaker parla da soldato: non si tratta di fare previsioni, ma di "avere abbastanza munizioni nel caricatore per potere continuare a sparare fin quando vogliono che spariamo".
Attualmente, ci sono in Iraq oltre 140 mila militari americani (120 mila circa dell’esercito, gli altri quasi tutti marines), sottoposti a uno stillicidio di attacchi: le perdite -queste precise all’ultimo uomo sul ’pallottoliere della morte’ del Pentagono- hanno già superato le 2.750, con quelle in Afghanistan sfiorano le 3.100. A settembre, il comandante dei fronti di lotta al terrorismo, generale John Abizaid, non aveva escluso un aumento delle unità in prima linea, sia pure temporaneo.
Segno che la situazione in Iraq "é difficile" e "i tempi sono duri", ammette Bush, in una conferenza stampa alla Casa Bianca dove si presenta per parlare, oltre che del conflitto, dei contenziosi nucleari con la Corea del Nord e l’Iran e delle elezioni politiche di midterm del 7 novembre. Il presidente insiste sull’esigenza di restare al fianco degli iracheni e del governo del premier Nouri al Mariki: gli Stati Uniti, afferma, "non taglieranno la corda", accusando i democratici all’opposizione di volerlo fare.
"Loro magari usano altre parole, ma la sostanza è questa", dice Bush ripetendo una sua frase feticcio, "se noi scappiamo, il nemico ci inseguirà". Denunciata la brutalità del nemico che i militari americani devono affrontare nella stessa capitale, Baghdad, e ricordati gli sviluppi politici, il presidente si dichiara disponibile a prendere in considerazione richieste di maggiori truppe che dovessero venirgli dai comandanti militari o alternative che dovessero essergli suggerite dalla commissione di studio guidata da James Baker e Lee Hamilton, che, dopo le elezioni di midterm del 7 novembre, dovrebbe consegnare il suo rapporto che, secondo alcune indiscrezioni, prospetterà una spartizione in tre dell’Iraq fra sciiti, sunniti e curdi. C’é qualcosa che rimpiange, delle sue scelte irachene?, gli chiede un giornalista.
Bush ci pensa, poi dice che vorrebbe che lo scandalo degli abusi sui detenuti iracheni nel carcere di Abu Ghraib non fosse mai avvenuto, perché "ci ha davvero danneggiato". Ma il presidente difende la decisione di rovesciare il regime di Saddam Hussein ("Era la cosa giusta da fare") e l’impegno ad aiutare "le giovani democrazie". "La posta in palio è molto alta", anzi "non potrebbe essere più alta", ripete a se stesso e a un’America sempre meno convinta dalle sue parole. Se gli Stati Uniti lasciano l’Iraq prima che il Paese possa difendersi, i terroristi ne prenderebbero il controllo e avrebbero "un nuovo santuario" da dove attaccare l’America e il Mondo.
2006-10-11 19:53
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