11:12 A Lhasa caccia ai rivoltosi, casa per casa, e 200 veicoli militari
In attesa della scadenza dell’ultimatum di Pechino perchè i rivoltosi si consegnino senza condizioni, la polizia cinese sta setacciando tutte le case di una zona di Lhasa, nei pressi del Potala Palace, dove il Dalai Lama ha vissuto prima di essere costretto ad andare in esilio 49 anni fa. A mostrare le immagini della caccia all’uomo - mentre in città sono entrati 200 veicoli militari, ognuno a bordo dei quali ha tra 40 e 60 soldati - è stata la televisione Hong Kong Cable.
11:08 Cina: nella provincia del Sichuan uccisi tre manifestanti
Le proteste dei tibetani dilagano oltre Lhasa, nella provincia cinese di Sichuan, al confine con il Tibet; e purtroppo le proteste fanno registrare anche in Cina delle vittime. Lo hanno riferito fonti locali. Almeno tre tibetani sono rimasti uccisi dagli spari della polizia, in seguito alle proteste scoppiate nella provincia del Sichuan, una delle quattro province cinesi al confine con la regione himalayana del Tibet.
10:50 "No al boicottaggio delle Olimpiadi"
Il Dalai Lama ha rifiutato di lanciare un appello per il boicottaggio dei giochi olimpici che si terranno in Cina in estate e che da più parti è stato auspicato dopo la repressione delle manifestazioni in Tibet. Nel corso di una conferenza stampa a Dharamsala, in India, trasmessa dalle televisioni, il capo spirituale dei buddhisti ha aggiunto che è al momento "impossibile l’armonia nella zona".
"L’autonomia - secondo il Dalai Lama - può preservare sia l’ambiente che la cultura in Tibet" e ha aggiunto che i tibetani sono un "capro espiatorio" e sono trattati "come cittadini di seconda classe".
10:30 Il Dalai Lama: "E’ in atto un genocidio culturale"
In Tibet c’è uno "stato di terrore" ed è in atto "un genocidio culturale". Il Dalai Lama da Dharamshala, in India, usa parole molto forti per condannare le violenze in atto in queste ore a Lhasa. La massima autorità spirituale ha chiesto un’inchiesta internazionale per appurare cosa sia realmente accaduto. Secondo il Premio Nobel per la Pace, nella regione himalayana è in atto "una discriminazione sistematica" e "i tibetani nella propria terra sono trattati da cittadini di seconda classe". Ed ha poi aggiunto: "a Lhasa erano oltre 50 mila, oggi si sono ridotti a tre mila, per l’arrivo massiccio di cinesi" - la Repubblica, 16.03.2008, parziale - cliccare sulla zona rossa
TIBET, SANGUE E VIOLENZA A LHASA IN RIVOLTA
(di Beniamino Natale) *
Lhasa è in fiamme. La polizia militare, intervenuta in forze per mettere a tacere le proteste ha sparato sui manifestanti, monaci e laici tibetani, ferendone un numero imprecisato. Secondo l’emittente Radio Free Asia "almeno due persone" (una ragazza di 16 anni e un monaco) sono rimaste uccise. Testimoni hanno detto all’Ansa di aver visto persone in borghese su delle automobili sparare sulla folla, e hanno descritto strade "piene di sangue".
La stessa agenzia Nuova Cina - ma solo nella sua edizione in inglese - ha confermato che "ci sono dei feriti, che sono stati ricoverati in ospedale" dopo che testimoni avevano riferito di aver udito numerosi colpi di arma da fuoco. Le proteste sono iniziate intorno alle dieci locali della mattina, quando centinaia di monaci del piccolo monastero di Ramoche, nel centro di Lhasa e non lontano dal Barkor, la passeggiata sacra che gira intorno al tempio di Jokhang, hanno dato vita ad una manifestazione inneggiando al Dalai Lama, il loro leader spirituale che vive in esilio dal 1959. Testimoni hanno raccontato che erano presenti pochi agenti di polizia, che non sono riusciti ad impedire a numerosi civili di unirsi ai monaci. Il grosso delle forze della polizia militare - il corpo addetto al controllo dell’ordine pubblico - è arrivato intorno alle 11:30, sparando gas lacrimogeni e attaccando i manifestanti con bastoni.
Alcuni dei presenti hanno reagito e presto i disordini si sono estesi al vicino mercato di Tromisikhang, dove sono stati attaccati e dati alle fiamme negozi appartenenti ai cinesi. Le fiamme si sono presto estese ad altre parti del mercato. Le violenze sono proseguite almeno fino alle 16:30 locali, secondo testimoni. Anche due automobili della polizia militare sono state rovesciate e date alle fiamme. L’ondata di proteste, la più estesa dal 1989, quando l’allora segretario del Partito Comunista del Tibet e oggi presidente cinese Hu Jintao impose la legge marziale, è iniziata lunedì scorso, con una manifestazione nel monastero di Drepung, pochi chilometri fuori dalla città. In questa occasione ci sarebbero stati decine di arresti. Il giorno dopo sono stati i monaci di Sera, un altro monastero poco fuori dalla capitale, a dare vita ad una mafestazione di protesta nel centro di Lhasa, nei pressi del Barkor.
Lunedì 10 marzo, anniversario della rivolta anticinese del 1959 che si concluse con la fuga in India del Dalai Lama, proteste si sono verificate anche nelle aree a maggioranza tibetana delle province del Gansu e del Qinghai (la regione che i tibetani chiamano Amdo). Attivisti della Free Tibet Campiagn riferiscono che "alcuni" lama di un altro monastero, quello di Sera, sono da ieri in sciopero della fame per chiedere la liberazione dei loro compagni arrestati nei giorni scorsi. Due monaci sarebbero in gravi condizioni dopo aver tentato di suicidarsi. I monasteri di Sera, Drepung e Ganden, centro delle proteste dei giorni scorsi, sono circondati dalla polizia militare, aggiungono i testimoni. Le voci sulla dichiarazione dello stato d’ emergenza, che circolano da alcune ore, non sono state confermate. Gli incidenti non potrebbero avvenire in un momento peggiore per la Cina.
Mancano 147 giorni all’apertura delle Olimpiadi di Pechino, che avrebbero dovuto segnare la "pacificazione" tra la Cina e il resto del mondo dopo il massacro di studenti del 1989 a piazza Tiananmen. Tutti i leader delle province - compresi quelli della Regione Autonoma del Tibet - sono a Pechino per partecipare all’Assemblea Nazionale del Popolo che nei prossimi giorni deve eleggere il nuovo governo. L’Unione Europea ha chiesto a Pechino di "trattenersi" nella repressione della rivolta, mentre Usa e Gb hanno sottolineato che la Cina "deve rispettare" la cultura tibetana. Dal suo esilio di Dharamsala, in India, il Dalai Lama ha chiesto alla Cina di "rinunciare all’ uso della forza" e ai suoi compatrioti di ricorrere solo a proteste pacifiche. La Cina ha occupato il Tibet nel 1950. Trattative tra il Dalai Lama - che ha 72 anni ed ha ricevuto il premio Nobel per la pace nel 1979 a riconoscimento del suo impegno per la non-violenza - ci sono state all’ nizio degli anni Ottanta quando a Pechino era al potere il riformista Hu Yaobang. Dopo il fallimento di quel tentativo, i contatti sono stati interrotti fino al 2002, quando è iniziata una tornata di incontri che si è conclusa con un nulla di fatto nel 2006. Poco dopo, la propaganda cinese ha lanciato pesanti accuse al leader tibetano, tra cui quella di aver fatto assassinare almeno quattro oppositori e di essere stato un promotore della setta giapponese Aum Shirikyo, responsabile di attentati che hanno causato la morte di decine di persone.
APPELLO DALAI LAMA, PRIME FOTO DEGLI SCONTRI Si è fatta sentire anche la voce del Dalai Lama, esiliato in India, nella giornata che ha contato le prime vittime degli scontri in corso da alcuni giorni in Tibet tra la popolazione che protesta contro l’occupazione cinese e le forze dell’ordine di Pechino. Il leader spirituale dei buddhisti tibetani e capo del governo tibetano in esilio, ha fatto "appello alle autorità cinesi, affinché smettano di usare la forza e indirizzino il risentimento a lungo covato dal popolo tibetano verso il dialogo con il popolo tibetano stesso.
Nello stesso tempo esorto i miei compatrioti tibetani a non fare ricorso alla violenza". Per il Dalai Lama, che ha affidato il duo doloroso appello ad un comunicato stampa, "queste proteste dimostrano il profondo risentimento della gente del Tibet verso l’attuale governo. Come ho sempre detto, l’unità e la stabilità ottenuti dalla violenza bruta possono al massimo essere una soluzione temporanea. E’ irrealistico aspettarsi unità e stabilità sotto un simile governo e questo non contribuirà a trovare una soluzione pacifica e durevole".
Il leader tibetano, da sempre portavoce della richiesta del suo popolo di ottenere per il Tibet una piena autonomia sotto il controllo cinese (non indipendenza dal governo di Pechino, ha sempre sottolineato) non ha rilasciato altre dichiarazioni dai suoi uffici di Mc Leodgaji, il quartiere amministrativo nei pèressi di Dharamsala, a nord di New Delhi, dove ha sede il governo tibetano in esilio. In giornata hanno cominciato a circolare anche le prime fotografie degli scontri in Tibet. Sui cellulari e nelle caselle di posta elettronica di attivisti tibetani in India, sono arrivate foto scattate con i cellulari. Oltre agli incendi a Lhasa, le foto mostrano immagini di monaci che sfilano con la bandiera tibetana per le vie di Labrang, sede di uno dei più importanti monasteri buddhisti.
Manifestanti civili, sempre a Labrang sono stati fotografati mentre protestano dinanzi ad uffici governativi, mentre altre foto mostrano la polizia cinese schierata e alcune auto bruciate. Le proteste tibetano non hanno avuto molta eco sui media indiani, che le hanno relegate in fondo ai notiziari, nonostante proprio qui si sia stabilito nel 1959 il Dalai Lama in fuga da Lhasa. La stessa polizia indiana tiene in prigione sia le 36 donne che tre giorni fa a New Delhi hanno manifestato dinanzi all’ambasciata cinese, sia un centinaio di attivisti che stanno tentando di portare avanti la ’Marcia del ritorno’ in Tibet e che sono stati condannati a 14 giorni di carcere. Comunque anche la protesta e il dissenso indiani viaggiano sui cellulari e sul web. Molti gli sms che chiedono di partecipare alla campagna pro-Tibet. Nessuna protesta oggi in Nepal, altro paese dove sono migliaia gli esuli tibetani. Ma il governo di Kathmandu, accogliendo una richiesta da Pechino, ha deciso di chiudere gli accessi all’Everest in occasione del passaggio della fiaccola olimpica, dall’1 al 10 maggio.
USA CONDANNA VIOLENZE, CINA RISPETTI ALTRE CULTURE Gli Stati Uniti hanno espresso oggi "rammarico" per la violenza in Tibet ed hanno richiamato la Cina al "rispetto della cultura tibetana". "La Cina deve rispettare la cultura tibetana e deve rispettare il carattere multietnico della sua società", ha detto il portavoce della Casa Bianca Gordon Johndroe. "Esprimiamo rammarico per le tensioni tra i gruppi etnici e Pechino", ha aggiunto Johndroe. Il portavoce ha ricordato che il presidente George W. Bush "ha sempre detto che Pechino deve dialogare con il Dalai Lama". Gli Stati Uniti hanno tolto pochi giorni fa la Cina dalla lisat nera dei paesi responsabili delle peggiori violazioni dei diritti umani. Nello stesso tempo avevano sottolineato che le autorità di Pechino stanno continuando a violare tali diritti e numerose libertà di base.
NEPAL CHIUDE EVEREST PER PASSAGGIO FIAMMA OLIMPICA
KATHMANDU - Il Nepal ha annunciato oggi che chiuderà per una decina di giorni in maggio, su richiesta della Cina, l’accesso alla cima dell’Everest quando passerà la fiamma olimpica. Ciò per impedire che l’appuntamento sportivo diventi occasione per manifestazioni a sostegno dei tibetani.
La decisione è stata presa il giorno dopo l’esplosione di violenza a Lhasa, capitale del Tibet, e mentre i tibetani in esilio in Idia a in Nepal stanno manifestando contro la "repressione cinese". "Le spedizioni di alpinisti non saranno autorizzate a lasciare il campo base nepalese dell’Everest tra il primo e il 10 maggio", ha dichiarato il ministro del Turismo nepalese, Prithvi Subba Gurung. La più alta montagna del mondo è accessibile dal Tibet, a nord, e dal Nepal, a sud. "Abbiamo ricevuto dalla Cina la richiesta che nessuno sia sulla montagna quando passerà la fiamma olimpica sull’Everest - ha spiegato il ministro nepalese - e noi non vogliamo che il Nepal venga strumentalizzato da un movimento separatista".
Tesa la situazione dopo giorni di proteste da parte dei monaci
Decine di arresti, alcuni feriti. La polizia usa i lacrimogeni e circonda i monasteri
Incendi, spari e morti a Lhasa
L’appello del Dalai Lama alla Cina
La guida spirituale dei tibetani esprime la sua preoccupazione
Gli Usa chiedono formalmente a Pechino di "dare prova di moderazione"
PECHINO - Il Tibet brucia nell’anno delle Olimpiadi di Pechino. La Cina accusa "la cricca del Dalai Lama di aver fomentato la folla". Un monaco e una ragazza di sedici anni sarebbero morti durante gli scontri.
Lhasa è da giorni teatro di disordini, in coincidenza del 49esimo anniversario della rivolta contro il dominio cinese. Per le strade della capitale si spara, la polizia ha usato lacrimogeni e ci sono numerosi morti e feriti, secondo quanto ha detto il centro per le emergenze mediche della capitale del Tibet. Alcuni testimoni hanno riferito che la polizia ha aperto il fuoco per disperdere i manifestanti scesi nuovamente in piazza contro Pechino.
’’C’è concitazione riguardo ai feriti. Ce ne sono davvero tanti. Alcuni sono morti, ma non so dire quanti’’, ha spiegato un funzionario del centro per le emergenze mediche. Radio Free Asia, citando alcuni testimoni, ha riferito che almeno due persone sono rimaste uccise a Lhasa.
L’appello del Dalai Lama. Profonda preoccupazione è stata espressa dal Dalai Lama, la guida spirituale dei buddisti. Ha rivolto un appello alle autorità cinesi affinché rinuncino all’uso della "forza bruta". "Queste proteste - ha sottolineato la guida spirituale tibetana - sono una manifestazione del radicato risentimento del popolo tibetano sotto l’attuale governo. Mi appello ai dirigenti cinesi perché smettano di usare la forza e affrontino tale risentimento attraverso il dialogo con il popolo tibetano. Come ho sempre detto, l’unità e la stabilità ottenuti dalla violenza bruta possono al massimo essere una soluzione temporanea. E’ irrealistico aspettarsi unità e stabilità sotto un simile governo e questo non contribuirà a trovare una soluzione pacifica e durevole".
Il governo cinese gli ha risposto attraverso un comunicato della Regione Autonoma del Tibet: "Abbiamo prove sufficienti per dire che il recente sabotaggio a Lhasa è stato organizzato, premeditato e diretto dalla cricca del Dalai Lama -si legge sull’agenzia Xinhua - "le violenze, inclusi pestaggi, saccheggi e incendi hanno scombussolato l’ordine pubblico e messo a repentaglio la vita e la proprietà della gente".
Washington ha condannato il comportamento del governo di Pechino: manifestando "rammarico" per le violenze in Tibet, la Casa Bianca ha "richiamato" la Cina al rispetto della cultura tibetana. L’ambasciatore statunitense a Pechino, Clark Randt, ha chiesto inoltre formalmente al governo cinese di "dare prova di moderazione" in Tibet e di non fare ricorso alla forza, ha riferito il portavoce del Dipartimento di Stato, Sean McCormack.
Le testimonianze. "C’è fumo dappertutto e si sentono colpi d’arma da fuoco" ha detto un residente che parlava dalle vicinanze del Jokhang, un grande tempio nel centro della capitale. Di spari hanno parlato anche cittadini americani, come ha riferito l’ambasciata americana a Pechino.
Il mercato di Tromisikhang, dove ci sono negozi appartenenti a cinesi, tibetani e musulmani cinesi hui, è in fiamme. "La situazione è molto pericolosa, nelle strade i tibetani attaccano i cinesi" ha detto un altro testimone. Anche alcune auto della polizia sono state incendiate.
La polizia ha impedito oggi con la forza ai monaci del monastero di Ramoche di tenere una manifestazione. Attivisti della Free Tibet Campaign riferiscono che alcuni monaci di un altro monastero, quello di Sera, sono da ieri in sciopero della fame per chiedere la liberazione dei loro compagni arrestati nei giorni scorsi, che sarebbero decine.
I monasteri di Sera, Drepung e Ganden, al centro delle proteste dei giorni scorsi, sono circondati dalla polizia militare. Circolano voci sulla dichiarazione dello stato d’emergenza, che però non sono state confermate.
Da giorni Lhasa ospita le proteste dei monaci, le più imponenti degli ultimi vent’anni. Secondo Radio Free Asia decine di persone sono state arrestate anche oggi. Manifestazioni di monaci e civili tibetani, che inneggiavano al Dalai Lama, il leader spirituale del Tibet che vive in esilio dal 1959, si sono svolte questa settimana anche in aree a maggioranza tibetana nelle province cinesi del Qinghai e del Gansu. Il dissenso preoccupa gravemente Pechino, che ha cercato in tutti i modi di evitare simili proteste in vista dell’appuntamento dei Giochi Olimpici.
* la Repubblica, 14 marzo 2008
TIBET, MESSNER ISSA LA BANDIERA SUL CASTELLO (la Repubblica)
Ansa» 2009-03-11 08:56
DALAI LAMA ACCUSA CINA: HA RESO IL TIBET UN INFERNO
DHARAMSALA (INDIA) - La Cina ha inflitto ai tibetani ’’torture e tremendi patimenti’’ fino a ’’far loro letteralmente provare l’inferno in terra’’, ma nonostante questo la via da perseguire e’ quella del dialogo per ’’raggiungere una significativa autonomia regionale per la nostra nazione’’. Lo ha dichiarato oggi il Dalai Lama. Rivolgendosi a Dharamsala, cittadina dello Stato indiano dell’Himachal Pradesh dove si trova il suo quartier generale in esilio, ad una folla riunita vicino al tempio di Tsuglang Khang, il Dalai Lama ha ripercorso il mezzo secolo di storia dalla rivolta tibetana del 10 marzo 1959 caratterizzato da fasi di dialogo con Pechino, ma anche dalla violenza militare cinese. ’’Abbastanza lontano dall’attuale processo di dialogo sino-tibetano che non ha dato frutti - ha insistito - vi e’ stata una brutale repressione delle proteste tibetane che ha scosso l’intero Tibet dal marzo scorso’’.
La risposta cinese non si e’ fatta attendere ed un portavoce del ministero degli Esteri, Ma Zhaoxu, ha sostenuto che la ’’cricca del Dalai Lama diffonde menzogne e confonde il bianco col nero’’. Nello stesso tempo Pechino ha chiesto al Congresso degli Stati Uniti di non votare una risoluzione del deputato democratico Rush Holt che sollecita ’’il riconoscimento della disperazione del popolo tibetano’’ e invita ad ’’uno sforzo multilaterale per trovare una soluzione duratura e pacifica alla questione del Tibet’’. Tale risoluzione, ha assicurato Zhaoxu, ’’va contro la storia e la realta’ del Tibet’’.
Manifestazione contro il fermo di un uomo nella provincia di Qinghai
Ordigni incendiari contro un’auto delle forze dell’ordine e un mezzo dei pompieri
Tibet, proteste di piazza
Prelevati 109 monaci
I religiosi verranno sottoposti a "rieducazione politica"
Fermati e poi rilasciati dalla polizia cinese due giornalisti italiani
PECHINO - Alla vigilia del 50mo anniversario della fallita rivolta contro Pechino, i tibetani tornano in piazza. Nella provincia occidentale di Qinghai decine di persone hanno protestato nella prefettura di Golog contro il fermo di un uomo a un posto di blocco delle forze dell’ordine cinesi. Durante la manifestazione alcune bottiglie molotov sono state lanciate contro un’auto della polizia e un mezzo dei vigili del fuoco, senza causare vittime. Le esplosioni sono avvenute alle 2.00 ora locale (le 20.00 di ieri in Italia), poco dopo alcuni tafferugli fra dimostranti e agenti.
E intanto la polizia cinese ha prelevato centonove monaci tibetani per sottoporli a "ri-educazione" politica. Lo scrive l’edizione online del britannico "the times", precisando che il "sequestro" dei 109 monaci del monastero di Lutsang, nella provincia di Qinhang, è solo una delle tante misure straordinarie adottate da Pechino per scongiurare eventuali disordini anti-cinesi. Fra i provvedimenti eccezionali, il divieto di ingresso ai visitatori stranieri, già scattato, in circa un quarto del territorio della Cina.
La polizia cinese ha anche fermato e poco dopo rilasciato due giornalisti italiani. al confine con il Tibet. Lo ha detto uno dei fermati, il corrispondente di Sky Tg24 Gabriele Barbati. Barbati ha ribadito che lui e il collega non avevano violato alcuna legge cinese: "All’inizio hanno cercato di spaventarci - ha raccontato il giornalista - ma la nostra preoccupazione era soprattutto per il nostro autista. Ai locali la Polizia riserva sempre un trattamento ’diverso’ rispetto agli stranieri. Per fortuna alla fine hanno rilasciato anche lui".
Il presidente cinese, Hu Jintao, ha esortato in un discorso i leader della provincia a costruire una "grande muraglia" contro il separatismo. "Dobbiamo costruire una Grande muraglia nella nostra lotta contro il separatismo e per la salvaguardia dell’unità della madrepatria e trasformare la stabilità di base del Tibet in una sicurezza a lungo termine", ha affermato in un messaggio televisivo Hu, che nel 1989 quando guidava il Partito comunista locale guidò una sanguinosa repressione in Tibet. La provincia himalayana - ha sostenuto - dovrebbe progredire verso "un rapido sviluppo economico" e garantire "sicurezza e stabilità sociale".
In Tibet e nelle zone in cui le minoranze tibetane sono molto numerose, come nella prefettura di Golog, le misure di sicurezza sono state irrigidite in vista del 10 marzo, 50mo anniversario della rivolta contro Pechino che portò alla fuga in India del Dalai Lama. Truppe aggiuntive sono state schierate alle frontiere, lungo le arterie principali, a Lhasa e nelle altre città più importanti.
A Dharamsala, la città indiana dove ha sede il governo tibetano in esilio, per domani è in programma una manifestazione di 10mila attivisti pro-Tibet nonostante gli appelli alla moderazione del Dalai Lama che ha invitato a pregare e a tenere cerimonie pacate.
In questo periodo ci sono altre due date che rivestono un’importanza particolare per i tibetani. Il 14 marzo è il primo anniversario dei moti di Lhasa nel corso dei quali, per la prima volta, giovani tibetani attaccarono gli immigrati cinesi. Il 28 marzo è invece il giorno in cui il governo di Pechino ha istituito una festa per celebrare la "liberazione (del Tibet) dalla schiavitù", cioè la formalizzazione dell’inglobamento della regione nella Repubblica Popolare.
* la Repubblica, 9 marzo 2009
Ansa» 2008-11-02 20:21
DALAI LAMA, TIBET CONDANNATO A MORTE DA PECHINO
NEW DELHI - Il Dalai Lama, il capo dei buddisti tibetani, ha lanciato oggi da Tokyo un grido d’allarme sul futuro del Tibet ’’ condannato a morte’’ dalla Cina evocando la necessita’ di un ripensamento della strategia del dialogo finora perseguita.
’’I tibetani sono condannati a morte. Questa antica nazione e la sua eredita’ culturale stanno morendo... - ha detto incontrando i giornalisti a Tokyo e in un’intervista a Sky Tg24 - Oggi la situazione assomiglia a una occupazione militare di tutto il territorio.
E’ come se fossimo sotto la legge marziale. La paura, il terrore e le campagne di rieducazione politica causano molte sofferenze’’. Sono idee che il Premio Nobel per la pace aveva gia’ espresso nei giorni scorsi, pur se poi aveva leggermente aggiustato il tiro quando, poco dopo, fu annunciata la visita in Cina di due inviati del governo tibetano in esilio per discutere della situazione con il governo cinese.
La visita dei due inviati, confermata da un comunicato ufficiale del governo tibetano in esilio a Dharamsala nel nord dell’India, e’ pero’ coperta dal massimo riserbo, e dalla Cina non trapelano notizie. E’ cosi’ uscito di muovo allo scoperto il leader spirituale del Tibet.
Ha detto che che occorre ora vedere che cosa decidera’ il parlamento tibetano in esilio il 17 novembre, quando sara’ convocato in seduta straordinaria, con la partecipazione di moltissimi fedeli buddhisati . In quella occasione, il Dalai Lama, che ha sempre seguito la ’’via di mezzo’’ con i cinesi, chiedendo una piena autonomia per il suo Tibet e non l’indipendenza da Pechino, da raggiungere attraverso il dialogo e la non violenza, potrebbe, come ha piu’ volte annunciato, farsi da parte se il parlamento decidesse per una via piu’ decisa.
La politica di mediazione del leader religioso e’ stata duramente criticata dai giovani tibetani, che sono per un intervento deciso nei confronti di Pechino, mentre molta parte della comunita’ internazionale continua a rimanere cauta sulla questione tibetana per non contrapporsi in maniera frontale con la Cina. Il 10 dicembre prossimo a Parigi e’ prevista una riunione dei premi Nobel per la Pace.
Il presidente francese Nicolas Sarkozy ha fatto conoscere oggi la sua disponibila’ a incontrarsi con il Dalai Lama in questa occasione, nonostante che nella visita di due settimane compiuta dal leader religioso in Francia lo scorso agosto durante il periodo delle Olimpiadi di Pechino 2008, fu salutato solo dalla first lady Carla Bruni. Il Dalai Lama, tuttavia, ha reso noto l’Eliseo, non ha confermato per ora la sua presenza, ’’per motivi di salute’’.
Anche l’interprete ufficiale francese del Dalai Lama, Mathieu Ricard, ha dichiarato a ’Le Journal de Dimanche’ che il settantatreenne Premio Nobel non sara’ a Parigi, senza spiegarne pero’ i motivi. Secondo alcuni osservatori, solo dopo la riunione del Parlamento tibetano in esilio il 17 novembre, il Dalai sciogliera’ la riserva annunciando anche quella che potrebbe essere la sua nuova veste.
Ansa» 2008-08-21 13:02
TIBET: ESERCITO SPARA SU FOLLA, FORSE 140 MORTI
PARIGI - Il Dalai Lama ha accusato l’esercito cinese di " aver sparato contro la folla" lunedì scorso nella regione di Kham, nell’est del Tibet, e ha detto che " secondo notizie in attesa di conferma" ci sarebbero stati 140 morti. L’accusa è contenuta in un’intervista del Dalai Lama al quotidiano ’Le Monde’.
Secondo il Dalai lama, dall’inizio delle proteste in Tibet, il 10 marzo, "testimoni affidabili hanno riferito che 400 persone sono state uccise nella sola regione di Lhasa. Uccisi da colpi d’arma da fuoco, mentre i manifestanti erano senza armi". Il Dalai lama ha affermato inoltre che "nessuna apertura c’ é stata" nelle discussioni con Pechino. "Dopo le proteste di marzo e le Olimpiadi, avevamo creduto a dei segnali positivi. Siamo stati presto smentiti, i nostri emissari si sono trovati davanti a un muro". Il leader spirituale tibetano, che si trova attualmente in Francia, incontrerà domani mattina la premiere dame Carla Bruni-Sarkozy in occasione della inaugurazione di un tempio buddista a Roqueredonde, nel sud del paese. La Bruni sarà accompagnata dal ministro degli esteri Bernard Kouchner e dal segretario di Stato ai diritti umani, Rama Yade.
Dalai Lama: "Cina viola tregua olimpica"
Il leader spirituale del buddismo tibetano denuncia: le violenze anche nel periodo dei giochi olimpici
Parigi, 13 ago. - (Adnkronos/Ign) - "Pechino non sta rispettando la tregua olimpica". Lo ha detto il Dalai Lama nel corso di una riunione a porte chiuse, cui hanno preso parte una trentina di deputati francesi dei gruppi parlamentari per il Tibet.
A riferirlo il senatore socialista Robert Badinter al termine della riunione con il capo spirituale buddista "La sua risposta è stata chiara: no. - ha detto - Mentre si tengono i giochi olimpici, l’oppressione e la repressione del popolo tibetano prosegue".“Ci ha informati di una repressione terribile che non cessa malgrado la tregua olimpica", conferma il senatore Jean-Louis Blanco.
"Dallo scorso 10 marzo - prosegue Blanco - ci sono stati degli arresti, delle esecuzioni e un imponente rafforzamento della presenza militare cinese, con la costruzione di nuove caserme".Il Dalai Lama nel corso dell’audizione tenutasi nella sala del Senato francese ha evocato anche il pericolo di una "colonizzazione accelerata", parlando di circa un milione di cinesi che si apprestano a stabilirsi in territorio tibetano allo scopo di "annacquare" la popolazione locale."Il governo cinese nega i problemi del Tibet e non si degna di ascoltare le richieste del popolo tibetano", ha affermato il leader religioso nel corso di una conferenza stampa, tenuta a Parigi, al termine dell’incontro in Senato.
In merito alle trattative avviate già nel 2002 nel quadro dei negoziati ufficiali ha detto, ribadendo la sua disponibilità, che una decisione in merito al proseguimento dei colloqui verrà presa in occasione della riunione annuale del parlamento tibetano in esilio che si terrà a settembre.Già lo scorso mese due emissari del Dalai Lama hanno incontrato a Parigi alcuni rappresentanti del governo cinese. In quanto all’incontro con il premier francese Nicolas Sarkozy, è escluso un faccia a faccia durante le Olimpiadi di Pechino. Secondo quanto annunciato ieri da Roger Karoutchi, sottosegretario incaricato dei rapporti con il Parlamento - l’incontro si terrà, ma il prossimo 10 dicembre a Parigi, nell’ambito di un meeting con i premi Nobel per la Pace che si terrà il 10 dicembre prossimo. Sarà invece la premiere dame Carla Bruni a vedere il leader tibetano in occasione del l’inaugurazione di un tempio buddista a Roqueredonde, vicino Montpellier, nel Dipartimento dell’Herault.
Il regime tiene lontani i turisti: «Stanno rovinando l’occasione delle Olimpiadi»
Ma la repressione continua
«Monaci arrestati e picchiati»
Conventi sotto assedio, ovunque agenti in borghese *
LHASA - «Shhhh. Non posso parlare. Please don’t talk here. Too much police», sussurra in un inglese titubante il monaco incontrato lungo il dedalo di corridoi scuri e perlinati in legno affrescato nell’antico monastero di Sera. In effetti il luogo pullula di poliziotti e agenti in borghese allarmati dall’arrivo della delegazione di giornalisti invitata in Tibet grazie alla cooperazione tra governo di Pechino e Fondazione Italia-Cina. Ti seguono meticolosi e lanciano occhiate di fuoco a chiunque si avvicini non autorizzato. L’unico modo per cercare di comunicare con i tibetani è lasciarli giocare a rimpiattino con gli agenti. «Ecco, questo è il mio indirizzo email», dice uno che non sembra ancora ventenne passando repentino un bigliettino stropicciato. «La prego, non faccia mai il mio nome, perché tanti di noi vengono presi, e non si sa più nulla di loro. Ci arrestano, ci picchiano, se ci prendono di notte possiamo essere anche fucilati sul posto. Ho paura», spiega rapido.
La sera, davanti al computer, i messaggi al mondo dal Tibet sotto il tallone della repressione preventiva cinese in vista delle Olimpiadi di Pechino raccontano un universo assolutamente differente da quello spiegato dai portavoce ufficiali. «Nelle ultime settimane sono arrivati migliaia di nuovi poliziotti di rinforzo. Talvolta in una sola strada abbiamo contato oltre venti camionette militari. I nostri movimenti sono impediti al massimo, specie dal tramonto all’alba, chi esce dai monasteri senza permesso viene certamente arrestato. Ma i peggiori sono gli agenti in borghese. Stazionano dovunque e sono i più cattivi», si legge nell’email del 14 luglio. In quella di tre giorni prima viene specificato che i morti durante gli incidenti del 14 marzo sono stati «almeno 180» e i tibetani in carcere, molti di loro monaci, «restano centinaia». Con un particolare curioso: «In genere per la strada quelli in piedi sono i poliziotti regolari.
Ma gli uomini seduti sono gli agenti in borghese che danno gli ordini». E qualche nota di vita quotidiana: «Negli ultimi tempi i poliziotti si sono insediati in modo permanente nei monasteri. Così la situazione è un poco migliorata per i monaci di Sera, Jokhang e nel tempio di Ramosh, dove almeno ci si può muovere, anche se le lezioni per gli studenti sono state rinviate a dopo le Olimpiadi. Però quello di Drepung è totalmente isolato». Vedere per credere. Basta un quarto d’ora di taxi dal centro di Lhasa per raggiungere il villaggio ai piedi del ripido anfiteatro montagnoso che fa da corona a Drepung. Qui a marzo si trovava uno dei centri dirigenti più attivi della rivolta. E per diverse settimane era stato totalmente isolato dall’esercito.
Ma ora i cinesi si sentono molto più tranquilli. Non si vedono posti di blocco sulle strade. Invece la situazione cambia completamente una volta nel villaggio: ogni via di accesso ai palazzi bianchi del monastero antichi oltre 6 secoli che puntellano i fianchi della montagna è stata sistematicamente transennata, i militari hanno steso una fitta rete di fili spinati tutto attorno, oltre a garitte, ombrelloni colorati per le sentinelle dei turni sotto il sole, tende dotate di riflettori per la notte. «Oltre non si può andare. È coprifuoco da 4 mesi», dice rassegnato un gruppo di anziani contadini, che ogni giorno si reca a pregare nei pressi di un gigantesco masso di granito a circa 500 metri in linea d’aria dal monastero silenzioso. Si prostrano verso quelle mura antiche, sventolano gli scialli votivi nel vento lasciando che le loro preghiere salgano al cielo, un po’ come qualche fedele fa ancora nel centro di Lhasa a venerare le vestigia diventate museo del palazzo di Potala, abbandonato dal Dalai Lama e il suo seguito sin dal lontano 1959. «Secondo le nostre informazioni, dei circa 1.000 monaci che stavano a Drepung, 500 furono arrestati subito, 300 liberati in seguito, gli altri mancano tutt’ora all’appello», sostiene un monaco che farfuglia veloce qualche parola in inglese, ripete la sua «fedeltà assoluta» al Dalai Lama, e pure, dopo una manciata di secondi, se ne fugge in una delle case protette da alte mura di pietra nella parte bassa del villaggio. «Peccato!», vien da pensare guardando da lontano, evitando di attirare l’attenzione dei militari, questo paesaggio da favola che proprio in questi giorni avrebbe potuto essere letteralmente invaso dai turisti è invece rimasto vuoto.
«I cinesi sono talmente ossessionati dal problema Tibet e dall’incubo sicurezza, che stanno rovinandosi la grande occasione offerta dalle Olimpiadi», osservano tra i circoli diplomatici europei a Pechino. Gli alberghi si erano preparati al tutto esaurito, ma ancora questa settimana erano fermi al 30 per cento delle presenze. Ristoranti di lusso semivuoti, taxisti con le mani in mano. Un Paese oggettivamente in piena crescita economica. Infrastrutture da grido. Senza scomodare gli impressionati successi della recente ricostruzione di Pechino, vien naturale osservare che aeroporti minori come quelli di Zhongdian, Xining, Kunming, Chengdu e il mitico Shangri-La, alle porte della regione autonoma del Tibet, sono molto più efficienti e funzionali di quelli di tante metropoli europee. La ferrovia che dal 2006 collega il Paese con Lhasa - e negli ultimi 2.300 chilometri viaggia in 26 ore su di un plateau compreso tra i 4.000 e 5.200 metri d’altezza - procede con una puntualità impressionante. Il nostro convoglio di 14 vagoni (i passeggeri erano quasi tutti cinesi Han) è arrivato nella capitale tibetana con 4 minuti d’anticipo.
Eppure è come se la società civile cinese sia andata più veloce di quella degli apparati dello Stato. «A cosa serve sventolare al mondo la Cina delle Olimpiadi, se poi ambasciate e consolati all’estero concedono i visti con il contagocce?», protestano gli operatori turistici stranieri. Il Museo d’arte contemporanea di Pechino espone opere di critica al regime e al nuovo «consumismo capitalista di Stato», come se la repressione seguita alle rivolte di piazza Tienanmen nel 1989 non fosse mai esistita. Ma il Tibet testimonia una realtà molto più triste. «Quella maledetta ferrovia serve solo ai cinesi per venirci a colonizzare. Loro sono facilitati dagli incentivi offerti dal governo centrale e ci rubano il lavoro», sostiene Tayang, una 23enne impiegata in un negozio di tappeti e artigianato tibetani nel centro di Lhasa. E aggiunge bellicosa, mostrando poco lontano le tre saracinesche ancora danneggiate dello «Top Peak Artwork Center», un negozio di proprietà cinese vandalizzato il 14 marzo: «Se va avanti così, ci sarà presto un’altra ribellione. È inevitabile, vogliamo il nostro Stato indipendente guidato dal Dalai Lama».
Lorenzo Cremonesi
* Corriere della Sera, 29 luglio 2008
Tibet: la Cina vuole incontrare il Dalai Lama
Con una mossa a sorpresa, la Cina si è dichiarata pronta ad incontrare i rappresentanti del Dalai Lama, il leader tibetano che vive in esilio in India dal 1959. L’ annuncio della svolta è stato dato dall’ agenzia Nuova Cina poco dopo la conclusione dell’ incontro tra la delegazione dell’ Unione Europea guidata dal presidente della Commissione Jose Manuel Barroso e quella del governo di Pechino guidata dal premier Wen Jiabao. L’ incontro, secondo Nuova Cina, è stato deciso su richiesta dello stesso Dalai Lama. «Alla luce delle richieste avanzate dal Dalai Lama per una ripresa dei colloqui, i dipartimenti competenti del governo centrale avvieranno nei prossimi giorni contatti e consultazioni con un rappresentante privato del Dalai Lama», ha riferito l’agenzia Nuova Cina citando un anonimo funzionario. «Ci si augura che attraverso i contatti e le consultazioni il Dalai (Lama) prenderà iniziative credibili per fermare le attività volte a dividere la Cina, e per smettere di disturbare e sabotare i Giochi Olimpici di Pechino in modo da creare le condizioni per il dialogo», afferma il funzionario. In precedenza Barroso, in una conferenza stampa congiunta con Wen Jiabao aveva affermato di aspettarsi «presto» novità «positive» sul Tibet. Wen si era limitato a confermare di aver discusso del problema col presidente della Commissione Europea. Una serie di incontri tra emissari del leader tibetano ed esponenti del governo cinese si sono tenuti tra il 2002 e il 2006 senza produrre risultati concreti. Nel corso del suo soggiorno negli Usa, la scorsa settimana il leader tibetano aveva affermato che contatti erano in corso con emissari cinesi. La settimana prossima il Dalai Lama ha in programma a Dharamsala, sua residenza e sede del governo tibetano in esilio, una serie di conferenze prima di ripartire per l’Europa.
Il Dalai Lama ha accolto con soddisfazione l’offerta delle autorità cinesi. Un suo portavoce, Tenzin Takhla, osservando che da parte di Pechino si tratta di «un passo nella direzione giusta» giacché, ha spiegato, «solo colloqui faccia a faccia possono condurre a una soluzione della questione tibetana». L’agenzia di stampa ufficiale cinese poco prima aveva annunciato l’incontro come imminente, «nei prossimi giorni»; la decisione di «prendere contatto e tenere consultazioni» con un emissario del capo spirituale buddhista, si aggiungeva nel dispaccio, è stata adottata «in considerazione delle reiterate richieste del Dalai Lama per una ripresa dei colloqui». Lo stesso Takhla ha tuttavia anche sottolineato che per ora non sono pervenute comunicazioni cinesi in proposito. Il premio Nobel per la Pace 1989, al secolo Tenzin Gyatso, è accusato dal regime di Pechino di essere soltanto un capopolo separatista responsabile dei recenti disordini in Tibet; l’interessato ha però sempre insistito di volere il dialogo con la Cina, e di puntare unicamente a una maggiore autonomia per la propria terra.
«Fin da quando ebbero inizio le proteste anti-cinesi, il 10 marzo, Sua Santità ha compiuto ogni sforzo per dialogare con la Cina e con il governo cinese, e spera adesso che la questione tibetana possa essere risolta attraverso il dialogo soltanto», ha sottolineato il portavoce del Dalai Lama da Dharamsala, la cittadina nel nord dell’India dove il leader buddhista vive in esilio dal ’59, e che ospita anche il governo e il Parlamento tibetani esiliati, oltre a una vasta comunità di espatriati. La Repubblica Popolare aveva sempre resistito alle pressioni internazionali perché fossero aperti colloqui con il Dalai Lama, insistendo sul pericolo di riconoscerne le presunte velleità indipendentistiche. «È auspicabile che, mediante i contatti e le consultazioni con noi, il Dalai Lama intraprenderà iniziative credibili per fermare le attività intese a frammentare la Cina, cesserà di complottare e di incitare alla violenza, e smetterà di turbare e di sabotare i Giochi Olimpici di Pechino 2008, così da creare le condizioni perché i colloqui abbiano luogo», aveva peraltro puntualizzato, nell’annunciare la disponibilità del governo centrale a un incontro, l’anonimo funzionario governativo cinese citato dalla Xinhua.
* l’Unità, Pubblicato il: 25.04.08, Modificato il: 25.04.08 alle ore 12.44
Caccia cinese al tesoro del Tibet di GIULIETTO CHIESA (La Stampa, 15/4/2008) *
Il Tibet continua a occupare pagine dei giornali in tutto il mondo occidentale. Era da prevedere, nel clima preolimpico. Com’è da prevedere che, a Olimpiadi di Pechino concluse, i riflettori si spegneranno. È la logica del villaggio globale e del mainstream media che, più che moltiplicare diritti umani, moltiplica profitti disumani. Dietro, dentro la notizia, tuttavia, ce ne sono altre, che possono spiegare molte cose. Una di queste è la lunghissima ferrovia - circa 1250 chilometri - che Pechino ha inaugurato nel luglio 2006 e che collega Lhasa ai maggiori centri industriali della Cina del sud e a Canton. Con la già programmata estensione, da Lhasa a Shigatze, verso Ovest, prevista nell’11° piano decennale approvato dal Congresso del Popolo.
Sarebbe questo il punto terminale di un grandioso progetto, iniziato nel 1999, ma non rilevato dai media occidentali che a cose compiute, consistente nella meticolosa mappatura geologico-mineraria di una grande parte del Tibet e dei contrafforti himalaiani, in un’area vastissima comprendente tutto l’altopiano tibetano del Qinghai. Secondo quanto scoperto da Abraham Lustgarten, reporter di Fortune, nel 2007, il governo cinese - precisamente il ministero dei Territori e delle Risorse - avrebbe inviato fin dal 1999 un migliaio di ricercatori, geologi, specialisti minerari, organizzati in 24 distaccamenti, alla ricerca di tutte le potenzialità di sfruttamento del territorio. In modo non dissimile, del resto, da ciò che i commessi viaggiatori del governo cinese andavano facendo in Africa e in America Latina negli stessi anni, con non minore alacrità. La differenza consistette nel fatto che lo facevano in casa propria e, come è loro costume e possibilità, su larga scala.
L’investimento per l’operazione esplorativa fu attorno ai 44 milioni di dollari. E, a quanto pare, ne valse la pena. Tant’è che Pechino, subito dopo avere ricevuto i primi rapporti dei ricercatori, decise d’intensificare la costruzione (che era già stata decisa) della nuova ferrovia. Costo dell’operazione: 4 miliardi di dollari. Nulla di fronte ai vantaggi che si andavano delineando e che permettevano al governo cinese di tirare più d’un sospiro di sollievo. La crescita cinese era in piena esplosione e la fame di materie prime era già divenuta spasmodica.
Improvvisamente i dirigenti cinesi scoprivano, per esempio, che non era più necessario andare in Cile a comprare giacimenti di rame, come stavano facendo, perché il rame ce lo avevano in casa. E non solo il rame, ma anche il ferro, lo zinco, il piombo e metà della tavola di Mendeleev. Gli scienziati sguinzagliati sugli altopiani tibetani riferivano e calcolavano: giacimenti per un valore complessivo di 150 miliardi di dollari. Cifre approssimative ma imponenti: un miliardo di tonnellate di ferro, 40 milioni di tonnellate di rame.
La Cina aveva dovuto cercare sui mercati internazionali il ferro, indispensabile per i colossali investimenti edilizi e industriali, provocando, con la sua stessa domanda, un triplicamento del prezzo di quello come di tutti gli altri metalli. Basti ricordare la serie delle cifre di importazione cinese di ferro e acciaio, che era di 186 milioni di tonnellate nel 2002, è salita a 326 nel 2006 e a oltre 350 nel 2007.
Il resto del mondo non può non tenere conto di questi che, come ben si capisce, non sono dettagli. La Cina è davvero vicina, vicinissima. In tutti i sensi. Non c’è più cosa che vi avvenga che non ci riguardi immediatamente. Sia quando invade i nostri mercati con decine di milioni di magliette o di paia di scarpe (capi che, per altro, i nostri importatori hanno ordinato o prodotto laggiù), sia quando chiede, e chiederà, molta più energia di quanta sia ormai disponibile sul mercato mondiale, sia quando scopriamo che, in piena Londra, a contrastare le centinaia di manifestanti inglesi che volevano bloccare la fiaccola olimpica, sono scesi in strada anche centinaia di cinesi, a difendere la loro patria. A Londra, non a Pechino. E ci sono due modi per affrontare il futuro: uno, quello buono, è cercare di capire. L’altro è cominciare a descrivere la Cina come il futuro nuovo nemico. Ciò che, purtroppo, molti stanno già facendo.
Il premio Nobel ha precisato di non essere coinvolto direttamente
Tibet, Dalai Lama: ’’Contatti in corso con la Cina’’
Il leader tibetano in esilio in visita a Seattle: "Vanno avanti da qualche giorno in piena segretezza, non voglio speculazioni". E sottolinea: "Presto o tardi il partito comunista cinese dovrà accettare la realtà e agire di conseguenza". L’apertura di un dialogo è una delle principali richiese dei governi occidentali
Washington, 14 apr. (Adnkronos) - Il Dalai Lama (nella foto) ha rivelato che vi sono contatti in corso fra la Cina e suoi rappresentanti. "Alcuni sforzi" sono in corso ha detto il leader tibetano in esilio durante la sua visita a Seattle, negli Stati Uniti. "Da qualche giorno stanno andando avanti" - ha aggiunto il premio Nobel per la Pace -"sono ancora in piena segretezza, non voglio speculazioni". Il Dalai Lama non ha fornito altri dettagli, ma ha precisato di non essere coinvolto direttamente.
L’apertura di un dialogo fra il Dalai Lama e la Cina è una delle principali richiese dei governi occidentali e dei sostenitori della causa tibetana. Pechino ha finora accusato la "cricca" del Dalai Lama di aver organizzato le recenti proteste a Lhasa.
A Seattle, il leader spirituale tibetano ha sottolineato che la spinta del presidente cinese Hu Jintao verso "una società armoniosa" mostra che il partito comunista cinese è "in uno stato di trasformazione". "Presto o tardi, il partito comunista cinese dovrà accettare la realtà e agire di conseguenza" verso il Tibet, ha detto ancora il Dalai Lama, secondo il quale la Cina merita di poter diventare una superpotenza ma al momento manca di "autorità morale"
Olimpiadi, i Nobel in campo per i diritti del Tibet
di Umberto De Giovannangeli *
I Nobel si schierano. Per il rispetto dei diritti umani in Cina, per l’autonomia del Tibet, perché il mondo non accompagni con un silenzio complice l’agonia del Darfur. E lo schierarsi significa firmare appelli, esporsi pubblicamente, compiere gesti altamente simbolici. Come quello di cui si è resa protagonista Wangari Maathai, premio Nobel per la Pace 2004, che ha annunciato ieri di aver annullato la sua partecipazione alla staffetta per la fiaccola olimpica prevista per domani a Dar es Salaam, in Tanzania, unica tappa africana del suo percorso. «Sì, mi sono ritirata. Ho deciso di mostrarmi solidale con altre persone sulle questioni dei diritti umani nella regione del Darfur, in Tibet e in Birmania», spiega la premio Nobel.
I Nobel si schierano, prendono posizione, sostengono la mobilitazione non violenta contro le «Olmpiadi della vergogna». In prima fila è Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace, simbolo, assieme a Nelson Mandela, della lotta contro il regime segregazionista sudafricano. L’arcivescovo si è espresso a favore di un «totale boicottaggio» dei Giochi olimpici, in programma dall’8 agosto a Pechino, se la Cina dovesse continuare a mostrarsi «irremovibile» sulla questione dei diritti umani, del conflitto in Tibet e sul Darfur. «Noi in Sudafrica siamo un esempio di quanto efficace possa essere il boicottaggio dei Giochi», ha dichiarato nei giorni scorsi Tutu. «Che non abbiamo più l’apartheid in Sudafrica - ha aggiunto - ha anche a che fare con il fatto che il mondo si è unito a noi e mise al bando l’allora governo sudafricano».
I Nobel prendono posizione e nel farlo mettono a nudo le contraddizioni e la doppia morale della realpolitik. Tra i più attivi nel promuovere appelli e iniziative pubbliche è Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace 1986. «Occorre mantenere alta la pressione internazionale finché non saranno ascoltate le voci dei tibetani e le prigioni svuotate - ha spiegato Wiesel in una recente intervista a L’Unità -. Dobbiamo estendere il campo della pace e del dialogo. È questo che oggi ci chiede il Dalai Lama di non abbassare la guardia e di sostenere con forza le ragioni del dialogo». Una tesi rilanciata con forza, sempre sull’Unità, da Adolfo Pérez Esquivel: «Il grido d’allarme lanciato dal Dalai Lama - afferma il premio Nobel per la pace argentino - va raccolto da tutti, governi, organismi internazionali, associazioni umanitarie, intellettuali. La repressione messa in atto dalle autorità cinesi è tanto più grave perché si esercita contro un movimento non violento, le cui rivendicazioni non minano l’integrità territoriale della Cina. È questo un punto centrale - rimarca Adolfo Pérez Esquivel - perché ciò che i monaci tibetani chiedono non è l’indipendenza ma l’autonomia all’interno della Repubblica popolare cinese. Chiedono il rispetto della loro identità, difendono la libertà di culto, la loro cultura secolare, e lo fanno con la non violenza. Per questo oggi io dico: dobbiamo essere a loro fianco, perché non possiamo non dirci tibetani».
È su iniziativa di Elie Wiesel che ha preso corpo un appello al governo cinese sottoscritto da 26 premi Nobel i quali hanno deplorato e condannato la Cina per la violenta repressione messa in atto in Tibet e protestato contro le autorità cinesi per la loro campagna di denigrazione contro il Dalai Lama. «Noi, sottoscritti, premi Nobel - recita il documento - deploriamo e condanniamo il governo cinese per la sua violenta repressione esercitata sui manifestanti tibetani. Sollecitiamo le autorità cinesi a fare esercizio di moderazione nel trattare con questi disarmati, pacifici dimostranti». «Protestiamo - prosegue la dichiarazione dei 26 Nobel - per la campagna ingiustificata di denigrazione condotta dal governo cinese contro il nostro collega premio Nobel, Sua Santità il Dalai Lama. Contrariamente alle ripetute affermazioni delle autorità cinesi, il Dalai Lama non reclama la separazione della Cina, ma l’autonomia religiosa e culturale. Questa autonomia è fondamentale per la conservazione dell’antico patrimonio culturale». A schierarsi non sono solo Nobel per la pace, come Wiesel, John Hume, Betty Williams, ma anche Nobel per la letteratura, come John Coetzee, Wole Soyinka, della Medicina, come Arvid Carlsson, Gunter Blobel, Paul Greengard, Eric R.Kandel, Erwin Neher, Richard J. Roberts, Phillip A.Sharp, Torsten N. Wiesel, Baruj Benacerraf, dell’Economia - Finn E.Kyland, Clive W.J.Granger - della Fisica - Alexei Abrikosov, Brian D. Josephson, H.David Politzer - della Chimica - Peter Agre, Paul J. Crutzen, Avram Hershko, Roald Hoffman, Roger Kornberg, Jens C. Skou -......
Non solo Tibet. Non solo i diritti umani in Cina. Atri dossier caldissimi riguardano Birmania e Darfur e chiamano ancora in causa la Cina. A protestare per il sostegno dato da Pechino alla giunta militare birmana sono 8 premi Nobel per la Pace - tra i quali Adolfo Pérez Esquivel, Maillad Maguire, Rigoberta Menchu e Jody Williasms. Sul Darfur, gli stessi Nobel chiedono al governo cinese di sospendere le relazioni economiche con il Sudan, ricordando che «il governo cinese acquista circa i due terzi del greggio sudanese e vende armi a Khartoum, molte delle quali utilizzate nel conflitto in Darfur, che ha causato almeno 200.000 morti e 2,5 milioni di profughi e sfollati...».
Una denuncia rilanciata con forza da Jody Williams: «Tutti noi - afferma la premio Nobel - dobbiamo dire chiaramente che la politica di “non interferenza” di Pechino non può essere tollerata. Dobbiamo svincolarci dal potere delle aziende cinesi non soltanto per la gente del Darfur, ma per i birmani, i tibetani e i congolesi, per non parlare dei milioni di cinesi cui è negato ogni genere di diritto umano». A fianco dei Nobel si sono schierate anche star del cinema, tra le quali Richard Gere. «In questa situazione - ha dichiarato l’attore americano, amico personale del Dalai Lama - se i cinesi non agiscono in modo corretto, non cambiano il loro modo di fare, non riconoscono ciò che sta succedendo e non consentono libero accesso alle comunicazioni, allora penso che dovremmo assolutamente boicottare» i Giochi di Pechino. Una prospettiva - quella del boicottaggio - che non trova il consenso di Mikhail Gorbaciov, premio Nobel per la Pace nel 1990- «Bisogna sostenere e appoggiare le Olimpadi che sono l’incontro di popoli e i giovani sono il futuro di questi popoli. Ma - afferma Gorbaciov - se dobbiamo dire qualcosa ai nostri amici cinesi, dobbiamo farlo». Mantenere alta la guardia. Non è un appello. È l’impegno che i Nobel si sono assunti. Perché, ricorda Elie Wiesel, che quella del «Tibet è una tragedia. La tragedia di un popolo pacifico che non è mai stato animato da propositi di conquista. Un popolo che non ha mai coltivato disegni di grandezza o mire espansioniste...». Un popolo da sostenere.
* l’Unità, Pubblicato il: 12.04.08, Modificato il: 12.04.08 alle ore 12.39
Quando il mondo si fa sentire
di Luigi Bonanate *
La fiaccola olimpica deve fare ancora 130.000 chilometri: se ogni sua tappa sarà come quelle di Londra e Parigi c’è da temere che non arriverà mai a Pechino per incendiare il braciere olimpico che deve ardere nel periodo delle gare. Rischia invece di incendiare le opinioni pubbliche di quei paesi ai quali il Comitato, scegliendo la Cina come sede olimpica, intendeva mostrare i progressi civili e sociali di quell’immenso e appetibilissimo Paese. Inizia ora una specie di calvario lungo ancora 130 giorni di viaggio: altro che il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne! Questo inutile circuito mediatico della fiaccola mira(va) a suscitare simpatia per lo spirito olimpico, che doveva a sua volta veicolare la benevolenza verso un grande Paese che sta rinnovando profondamente la sua pelle, che sta preparando un’accoglienza turistico-spettacolare che non ha precedenti nel mondo, e proprio nel Paese che un tempo si era costruito una Grande muraglia per starsene al sicuro al di là! Naturalmente le buone intenzioni degli organizzatori erano rivolte, nello stesso tempo, anche al tentativo di liberare la popolazione da certe strettoie.
Strettoie nelle quali un governo comunista/capitalista (un bel nodo!) cerca di tenere sotto controllo uno sviluppo sociale, economico e produttivo talmente impetuoso che potrebbe rivelarsi uno tsunami per chiunque cercasse di incanalarlo e regolarne il flusso. In altri termini, la Cina oggi è di fronte all’alternativa tra repressione (anche se non siamo più ai tempo dello stalinismo, né a quelli di Pol Pot) e liberalizzazione (che potrebbe rivelarsi incontrollabile travolgendo ogni governo).
La prima soluzione ha suscitato l’opposizione dell’opinione pubblica contro quei governi che vedono nella Cina uno straordinario grande magazzino nel quale tutto si può vendere e tutto si può comprare. La liberalizzazione, che è la seconda alternativa, farebbe felici tutti noi, ma creerebbe una tensione politico-sociale in Cina ingestibile dall’attuale potere, che quindi se ne tiene ben lontano. L’ha dimostrato, purtroppo, con una chiarezza che non teme smentite, con la repressione in Tibet, tanto scomposta e brutale quanto simbolica ed esemplare, avvisando tutto il mondo (ivi compresa la parte di osservanza cinese) che la Olimpiadi non potranno a nessun titolo essere trasformate in una tribuna internazionale dei diritti umani.
I dirigenti cinesi forse non sanno però che lo sport è politica (ricordate quando il mito della superiorità socialista era incarnato negli anabolizzati atleti della DDR che vincevano quasi tutto, ma morivano pochi anni dopo?), ma neppure che intrecci perversi e anche violenti tra Olimpiadi e politica hanno già seminato morte e devastazione. Basta il ricordo di Monaco 1972 per farci rabbrividire; ma anche Mosca 1980, se pensiamo che quell’Olimpiade fu boicottata dai Paesi occidentali (Italia esclusa) per condannare davanti all’opinione pubblica mondiale l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Sembra preistoria... E ora, siamo di fronte a una suggestiva novità: di fronte ai vari governi, da quello cinese a quelli di Paesi come la Francia che promettono di partecipare ai giochi ma fingono di porre delle condizioni, si erge, con una carica di pura e semplice verità, un movimento d’opinione popolare che, di capitale in capitale, ripete la sua scoperta: gli “abiti nuovi dell’imperatore” non solo non sono nuovi, anzi non li ha neppure addosso. Sta succedendo in altri termini che la contestazione, sostanzialmente pacifica (e speriamo rimanga tale), mette in mora i governi che speravano di arrivare fino ad agosto in incognito, per così dire, facendo finta di niente; gli atleti si preparano, i dirigenti prenotano i biglietti, e poi via tutti ai Giochi.
I manifestanti stanno rompendo le uova nel paniere anche alla Cina, alla quale diventa ogni giorno più difficile tenere tutto nascosto. Dopo il Tibet, ora li aspetta un tragitto di più di centomila chilometri con 21 tappe, ciascuna delle quali può trasformarsi nel palcoscenico della contestazione della Cina e della volontà occidentale di andare ai Giochi: insomma, rischia di venirne fuori un’immensa frittata. Ma essa ci dice anche una cosa interessantissima: al black-out che la Cina si ostina a estendere a tutto il Paese fa riscontro una crescente apertura mediatica planetaria, che mostra quella è che la straordinaria forza comunicativa che le pubbliche opinioni, quando spontanee, sincere e non organizzate, hanno: esse sono la democrazia in cammino. Che cosa altro è la democrazia se non quella circostanza che vede in piazza (nella agorà greca) i cittadini (del mondo) che civilmente, ostinatamente, vivacemente espongono le loro critiche al proprio governo, a quello degli altri Paesi e anche a quello della Cina?
Un movimento democratico come questo potrebbe venir contrastato dalla Cina e dai governi dei principali Paesi con l’argomento della sicurezza: i disordini metterebbero in difficoltà gli Stati partecipanti, priverebbero di spontaneità e di gioiosità le varie gare, che dovrebbero venire blindate, nel timore di attentati, contestazioni, manifestazioni rivolte alla società cinese e non ai suoi Giochi. Insomma, non vorrete mica che l’opinione pubblica rovini i Giochi? Ma quando è in azione, la democrazia è irrefrenabile. Potremmo scoprire un bel paradosso: quanto più la Cina cercherà di calmare le acque aiutata dai governi occidentali, tanto più l’opinione pubblica internazionale si mobiliterà e alzerà la sua voce. Fino a farla sentire anche ai cinesi...
* l’Unità, Pubblicato il: 08.04.08, Modificato il: 08.04.08 alle ore 8.31
Il reportage / A McLeod Ganj, casa indiana del Dalai Lama,
le istantanee della rivolta di Lhasa che hanno aggirato la censura
In India il Muro della vergogna
le foto segrete dell’orrore in Tibet
Gli scatti provano la repressone: cadaveri e corpi deformati dalle botte dei militari
dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO *
DHARAMSALA - Le foto sono sbiadite, i colori spenti, le figure sgranate. Le hanno immortalate con il cellulare, tra le vie, gli anfratti, le case anonime di Lhasa: scatti frettolosi, rubati, mentre i reparti speciali della polizia e l’esercito cinese davano la caccia ai feriti e portavano via i morti della rivolta. Adesso sono lì, prove crude e concrete; per un mondo che prima inorridisce, s’indigna, condanna e poi, sommessamente, chiude gli occhi e rimuove, schiacciato dagli interessi economici, deciso a non alterare gli equilibri geopolitici di un’area che resta e deve restare immutata. Corpi nudi, di uomini. Corpi deformati dai colpi, dalle percosse, le bocche chiuse in una smorfia che non sai se attribuire al dolore o all’ultimo respiro di un’agonia infinita.
Cadaveri distesi pieni di sangue rattrappito, i fori dei proiettili all’altezza del viso, del petto, dei fianchi, delle gambe, della schiena, della testa. Qualcuno ha avuto la forza e il coraggio di spedirli ad altri cellulari, a siti sicuri e protetti del web in una corsa contro il tempo. Prima del black-out, dei ripetitori disattivati, del blocco delle linee telefoniche, delle tv oscurate, delle retate porta a porta, nei monasteri, nelle università, negli alberghi, negli ospedali. Prima degli arresti e del cerchio di acciaio e piombo che ha sigillato l’intero Tibet.
Le foto, stampate come un manifesto, campeggiano su un filo di naylon teso sopra il cancello d’ingresso del "Tsuglakhang complex", la residenza ufficiale in esilio del Dalai Lama immersa nel cuore di McLeod Ganj, India del nord, il villaggio-simbolo del Tibet in fuga abbarbicato sul costone di una montagna che si arrampica verso la catena dell’Himalaya. Quaranta uomini e quaranta donne del villaggio, seduti in due distinti recinti, gli uni di fronte alle altre, proseguono da tre settimane lo sciopero della fame e della sete.
Si danno il cambio ogni 12 ore. Cantano a voce bassa, pregano, sollevano provati le dita della mano in segno di vittoria. Le voci si affievoliscono con il passare delle ore, i corpi si distendono, qualcuno crolla tra coperte e giacche, teli, cartelli con gli slogan, incensi che bruciano. Davanti ondeggiano le foto, sospinte da folate di vento gelido che scende dalle vette innevate dell’Himalaya. Sono un pugno allo stomaco. Centinaia di persone le osservano, le fotografano, le filmano, le studiano da vicino. Chi per riconoscere un familiare, un amico, un conoscente.
Chi soltanto per inorridire di fronte ad una mattanza che difficilmente troverà giustizia. Nonostante le proteste di mezzo mondo, pochissimi paesi hanno insistito per sapere la verità. Il mitico "Shangri-là", il tetto del mondo, la terra nella quale il buddismo, simbolo di pace e di tolleranza, affonda le sue radici, resta chiuso agli stranieri e ai turisti cinesi. Bisognerà attendere il primo maggio, festa dei lavoratori, data scelta da Pechino con chiara valenza politica, per capire e vedere con i propri occhi cosa sta veramente accadendo dal 10 scorso a Lhasa e nelle province vicine di Sichan, Gansu e Qinghai.
Attraverso il segretario del partito comunista del Tibet, la Cina ha annunciato che da quel giorno la regione centroasiatica riaprirà i battenti al mondo. Perché l’industria turistica ha risentito del blocco e perché Pechino vuole presentarsi a testa alta all’appuntamento con le Olimpiadi di agosto.
Le voci che giungono qui raccontano di carri armati schierati nei principali incroci di Lhasa, di monasteri ancora chiusi e assediati, di pattugliamenti incessanti su tutte le strade e di elicotteri che volteggiano in cielo pronti a mitragliare il primo assembramento sospetto. Non sappiamo se sia vero. Sappiamo solo ciò che raccontano le testimonianze raccolte e riproposte ogni giorno a McLeod Ganj durante il corteo che si snoda lungo le vie del villaggio per tenere accesa l’attenzione sul Tibet.
Storie che si assomigliano tutte, per l’orrore che svelano e per il terrore di chi le racconta. Il tempo, però, tende a smorzare i sentimenti. Più passano i giorni più l’appuntamento delle sei del pomeriggio, un pellegrinaggio di monaci, sostenitori, turisti, ragazzi e ragazze venuti da ogni angolo del pianeta, le candele accese, bandiere tibetane, preghiere e slogan, sembra un rito stanco. Un ragazzo, armato di megafono, passa per tutte le vie del villaggio e invita la gente a radunarsi.
L’appello è accolto, più per forma che per sostanza. E ogni giorno la folla dei primi momenti, quando questa fetta di Tibet in esilio si radunava in massa, chiudeva negozi, bar e ristoranti e gridava la sua rabbia mista al dolore, si assottiglia sempre di più.
Resistono l’orgoglio di un popolo defraudato della sua terra, il desiderio di verità e di giustizia, una solidarietà diffusa, istintiva. Ma in giro si respira un sentimento di impotenza. Per ben quattro volte, negli ultimi dieci giorni, i vertici di India e Cina si sono sentiti al telefono: Pechino ha chiesto a New Delhi garanzie sul percorso della fiaccola olimpica che il 17 aprile passerà nella capitale e ha sollecitato una presa di posizione più decisa sul tema del Tibet.
Il premier Manmohan Singh si è detto contrario al boicottaggio dei Giochi e ha sollecitato il Dalai Lama a non svolgere alcuna attività politica anticinese fino a quando sarà ospitato. Perfino il gesto di Baichung Bhutia, capitano della nazionale di calcio indiana, considerato una vera star per aver diffuso il football in un paese che vive solo per il cricket, è caduto nel vuoto. Ha respinto l’invito a portare la fiaccola quando passerà a New Delhi. Ma è rimasto solo. Nessuna delle altre 50 celebrità dello spettacolo e dello sport coinvolte nell’operazione politico-diplomatica si è tirata indietro. Ammir Khan, stella di Bollywood a cui si era appellato lo Tibetan youth congress, si è detto "orgoglioso" di alzare la fiamma olimpica. "Nessuno rifiuta", ha motivato, "non vedo perché l’India dovrebbe rinunciare a questo onore".
Sorride nervoso il presidente della Tibetan youth congress, Tsewang Rigzin: "Da un punto di vista religioso rispettiamo le opinioni del Dalai Lama ma sul piano politico siamo favorevoli al boicottaggio. Far passare per Lhasa e piantare sulla cima dell’Everest la fiaccola è un gesto politico, non sportivo".
Anche la gente di McLeod Ganj non si rassegna. Ma la vita deve ricominciare. Riaprono i negozi, gli alberghi, i bar, le sale da tè, i ristoranti. I turisti di sempre arrivano giorno e notte, con gli autobus carichi all’inverosimile, i taxi traballanti, i treni colmi di passeggeri. Un fiume umano di donne, uomini, spesso giovanissimi, che qui cerca la soluzione ai propri affanni. Con corsi di filosofia tibetana, di magia, di massaggi, di lingua, di astrologia, di yoga e di meditazione. Tra nobile volontariato, bonzi fuggiti da un inferno, qualche cialtrone e i soliti approfittatori. La gente segue, studia, partecipa. S’immerge fino al collo in questo ambiente, rispettando alla lettera valori e usanze. Sveglia all’alba, niente alcol, fumo e cibo solo vegetariano. C’è chi rimane un mese, chi un anno, chi il resto dei propri giorni. Vanno e vengono. La comunità tibetana vive anche su questo. Sognando, da mezzo secolo, di tornare un giorno a casa.
Gruppi di ragazzi si allenano correndo sulle strade in salita del paese, altri si riscaldano con esercizi sulle terrazze dei campi coltivati a grano. Forse pensano alle Olimpiadi. Quelle vere, libere. Con la bandiera gialla, blu e rossa del Tibet che garrisce al vento.
* la Repubblica, 6 aprile 2008.
Sarkozy: o dialogo con Dalai Lama o non vengo
La Francia ha posto tre condizioni alla partecipazione del presidente Nicolas Sarkozy alla cerimonia d’apertura dei Giochi Olimpici di Pechino. In particolare Parigi chiede l’apertura di un dialogo con il Dalai Lama. Lo ha indicato il segretario di stato ai diritti umani, Rama Yade, al quotidiano Le Monde.
Sarkozy «prenderà la sua decisione in merito all’evoluzione degli eventi attuali e si esprimerà dopo avere consultato i nostri partner europei, perché parlerà in quel momento come presidente in carica dell’Unione europea», ha dichiarato Yade. «Sono tuttavia indispensabili tre condizioni perché vada: la fine delle violenze contro la popolazione e la liberazione dei prigionieri politici, la chiarezza sugli eventi tibetani e l’apertura del dialogo con il Dalai Lama».
I governi europei hanno posizioni molto diverse sulla questione boicottaggio. Sarkozy lo ha più volte evocato senza però mai annunciarlo direttamente. Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha annunciato che non sarà alla cerimonia di apertura, ma solo per impegni già presi e senza menzionare ragioni politche.
Contrari al boicottaggio si sono definiti sia il premier inglese Gordon Brown sia Walter Veltroni che Silvio Berlusconi.
Intanto venerdì nuovi disordini in Tibet, dopo la sanguinosa repressione della rivolta dei monaci che due settimane fa ha fatto quasi 140 morti nella capitale Lhasa.
Questa volta gli scontri sono scoppiati nella provincia del Sichuan, area tibetana nel sud ovest della Cina. A quanto riferito dall’agenzia Nuova Cina non ci sarebbero vittime, ma sarebbe stato «attaccato e seriamente ferito» un funzionario del governo cinese. Fonti tibetane, invece, parlano di almeno otto morti: la polizia avrebbe aperto il fuoco su centinaia di monaci buddisti e persone stese a terra che avevano raggiunto gli uffici del governo locale per chiedere il rilascio di due monaci, arrestati perché trovati in possesso di foto del Dalai Lama.
L’agenzia Xinhua, non parla di morti, ma conferma che «la polizia è stata costretta a esplodere colpi di intimazione e ha messo fine alle violenze».
Nel frattempo le autorità cinesi hanno emesso 16 nuovi mandati di cattura contro persone coinvolte negli scontri del 16 marzo scorso in Tibet.
* l’Unità, Pubblicato il: 05.04.08, Modificato il: 05.04.08 alle ore 12.46
Lhasa di nuovo aperta ai turisti dal primo maggio
Dalai Lama: ’’Fate pressioni per la fine delle violenze’’
Sul web l’appello della massima autorità religiosa tibetana a leader di governo, parlamentari, Ong e gente comune. Gruppo di esiliati: ’’Assurdo parlare di squadre suicide, è un’accusa inventata dalla propaganda cinese. Soldati si sono vestiti come monaci e temiamo che possano farlo anche per compiere attentati’’. Oltre mille manifestanti verranno processati entro fine mese
Il Dalai Lama ricorda quindi che la repressione militare è in corso non solo in Tibet, ma anche nelle aree tradizionalmente tibetane che ora fanno parte delle regioni cinesi Qinghai, Gansu, Sichuan e Yunnan, dove vivono milioni di tibetani. "Secondo fonti affidabili - dice - le autorità cinesi hanno dispiegato grandi contingenti di truppe in queste regioni".
Il numero due del partito comunista in Tibet, Wang Xiangming, ha annunciato che oltre mille partecipanti alle proteste anticinesi a Lhasa verranno portati in tribunale entro la fine del mese. Wang ha affermato che oltre 800 "criminali" sono stati arrestati dalle autorità cinesi in Tibet e più di 280 si sono consegnati alla polizia. Il loro processo, ha aggiunto, si svolgerà prima del primo maggio. Il numero due del partito comunista tibetano ha poi assicurato che i disordini del 14 marzo a Lhasa "non si ripeteranno più".
Secondo le autorità di Pechino, negli incidenti del marzo scorso sarebbero morte 19 persone, mentre fonti del governo tibetano in esilio hanno denunciato circa 140 morti.
Quanto alle accuse di terrorismo, Tsering Choedup, coordinatore per l’Asia del sud di ’International Tibet Support Network’, ad AsiaNews ha affermato che ’’è assurdo dire che ci sono ’squadre tibetane suicide’ pronte a fare attentati contro le Olimpiadi. E’ un altro tentativo della Cina di farci passare per estremisti e terroristi’’. All’accusa di Wu Heping, portavoce del ministero cinese della Pubblica sicurezza, di ’’avere organizzato squadre suicide per lanciare attentati violenti", Choedup risponde che è stata ’’inventata dalla propaganda cinese’’ ed è ’’del tutto priva di fondamento e assurda’’.
’’E’ invece nota l’enfasi dei tibetani per la non violenza - ricorda Choedup - Gli esuli tibetani sono al 100% seguaci della non violenza. La propaganda cinese persegue questa strategia dalla prima pacifica marcia il 10 marzo. Da allora ci accusano di violenze del tutto slegate alle proteste pacifiche. Dal 10 marzo in modo sfacciato descrivono i tibetani come violenti e distruttivi, ora parlano al mondo del ’terrorismo tibetano’’’.
Si sappia, dice Choedup, ’’che alcune centinaia di soldati si sono vestiti come monaci’’ e lo confermano anche testimoni oculari che hanno ’’visto soldati e agenti di sicurezza cinesi cambiarsi con vestiti da monaci e incitare la folla. Dopo le accuse di Wu Heping - aggiunge - temiamo che cinesi possano vestirsi da tibetani e fare attentati’’.
Intanto si apprende che i turisti stranieri potranno tornare a Lhasa dal primo maggio, dopo il divieto di ingresso deciso a seguito degli scontri violenti delle settimane scorse. Ne hanno dato notizia fonti locali, precisando che nel capoluogo tibetano potranno tornare anche i turisti cinesi.
A tutte le agenzie di viaggio sarà permesso di organizzare tour e "anche i visitatori indipendenti saranno i benvenuti", ha detto all’agenzia di stampa Xinhua Zhanor, vice direttore dell’Ufficio del turismo tibetano. L’annuncio segue la promessa fatta nei giorni scorsi dal segretario regionale del Partito comunista di Lhasa, Zhang Qingli, secondo cui "la normalità dell’ordine sociale" sarebbe stata ripristinata in tempo per la stagione turistica, che in Tibet ha il suo picco a maggio.
Stati Uniti e Unione europea hanno chiesto la liberazione di Hu Jia Pechino replica negando giro di vite anti-contestatori in vista delle Olimpiadi
Cina, condannato famoso dissidente
Il Tibet riaperto ai turisti stranieri
Le autorità locali hanno annunciato che dal primo maggio si potrà tornare a visitare la regione himalayana
PECHINO - L’attivista per i diritti umani Hu Jia, uno dei principali contestatori della politica cinese in Tibet, è stato condannato a tre anni e mezzo di carcere per istigazione a sovvertire i poteri dello Stato: questa la sentenza pronunciata dalla Prima Corte Intermedia di Pechino.
Un verdetto che ha acceso le polemiche internazionali nei confronti della Repubblica Popolare, accusata di voler mettere a tacere i dissidenti in vista dei Giochi Olimpici dopo la brutale repressione nella regione himalayana.
Intanto da Lhasa le autorità locali hanno annunciato che l’intero territorio del Tibet sarà riaperto ai turisti cinesi e stranieri a partire dal primo maggioLa regione himalayana era rimasta chiusa agli estranei, e di fatto isolata dal resto del mondo, in seguito ai disordini scoppiati il mese scorso. A differenza di quanto stabilito per le altre province della Cina, tuttavia, per il Tibet resta in vigore per chiunque l’obbligo di munirsi preventivamente di uno speciale permesso di accesso.
Unione europea e Stati Uniti hanno chiesto la liberazione di Hu Jia. "Siamo costernati da questa condanna. In quest’anno olimpico ci appelliamo alla Cina perché colga l’occasione di presentare il miglior volto possibile e prenda delle misure per migliorare la situazione dei diritti dell’uomo", ha detto la portavoce dell’ambasciata Usa a Pechino, Susan Stevenson. Anche il portavoce dell’ambasciata dell’Unione europea ha chiesto di liberare il dissidente, ricordando che l’Ue "ha detto con chiarezza che in primo luogo Hu Jia non avrebbe dovuto essere arrestato e che avrebbe dovuto essere rilasciato immediatamente. Questa rimane la nostra posizione".
Il governo cinese ha replicato alle critiche negando di aver intrapreso un giro di vite contro i dissidenti per imbavagliare l’opposizione interna in vista delle Olimpiadi. "Non possiamo accettare certe accuse", ha ribattuto la portavoce del ministero degli Esteri della Repubblica Popolare, Jiang Yu. "La Cina è un Paese dove vige lo stato di diritto. Non possiamo fermare l’applicazione della legge a causa dell’Olimpiade".
Hu, 34 anni, era finito in prigione alla fine di dicembre dopo aver trascorso 200 giorni agli arresti domiciliari, misura cui sono ancora sottoposte sua moglie Zeng Jinyan, anche lei nel mirino delle autorità cinesi, e la loro figlioletta. Divenuto noto per le sue campagne a favore dei malati di Aids delle aree rurali, l’oppositore si è poi distinto per l’attivismo in difesa delle prerogative democratiche, della libertà di religione e dell’autodeterminazione per il popolo tibetano, ma le critiche al partito comunista gli sono costate care. In giudizio si era proclamato innocente, pur riconoscendo che alcune sue dichiarazioni potevano essere state "eccessive". In particolare a Hu sono stati contestati una serie di articoli di denuncia contro gli abusi del regime, pubblicati "dentro e fuori la Cina", anche via Internet; e il fatto di aver avuto contatti con giornalisti stranieri interessati alle sue attività.
La condanna del militante cinese pro-tibetano segue di appena un paio di settimane quella a cinque anni di reclusione inflitta a un altro noto oppositore, il 52enne Yang Chunlin, un ex contadino finito in carcere per accuse analoghe a quelle mosse a Hu. Nel suo caso, le autorità hanno punito la raccolta di oltre diecimila firme in calce a una petizione intitolata "Vogliamo i diritti umani, non l’Olimpiade".
* la Repubblica, 3 aprile 2008.
Lontani dalla Cina
di Maurizio Chierici *
«I valori dello sport aiutano la pace» parole che accompagneranno tv e giornali fino all’ultimo giorno delle olimpiadi di Pechino. «I Giochi servono a stimolare la democratizzazione e il rispetto per i diritti umani», Jacques Rogge, presidente del comitato olimpico ripassa le buone intenzioni. È d’accordo lo scrittore Alberto Bevilacqua: le Olimpiadi rappresentano la spiritualità dello sport. Eppure nessuna voce riesce a spiegare cosa sono questi valori e quale spiritualità possono aiutare mentre la Cina ripulisce le città da «teppisti e teste calde»: migliaia e migliaia in marcia verso i campi di rieducazione. Forse torneranno a casa a giochi fini. Forse. Non è una novità che lo sport prova a nascondere politica e affari con l’ipocrisia di una distensione che non c’è. Giocare nello stadio di Santiago ridotto da Pinochet a lager di prigionieri «politici» ammassati come animali e torturati negli spogliatoi, colpo alla testa e corpi uno sull’altro come pezzi di legno, in quale modo ha aiutato i cileni a liberarsi della dittatura?
Per invogliare Pinochet alla democrazia, le nazionali dei paesi democratici hanno continuato a giocare nello stadio degli orrori finché le vittime si sono arrangiate da sole rimpicciolendo l’oppressore dopo 17 anni di partite internazionali.
Ho ascoltato per la prima volta la favola dei «valori dello sport» nella notte bianca di martedì 5 settembre 1972, Monaco di Baviera. Olimpiadi sconvolte da un commando palestinese. Otto uomini incappucciati avevano preso in ostaggio atleti e massaggiatori israeliani per svegliare la disattenzione che avvolgeva (e avvolge) la vita amara di milioni di profughi. Non hanno risvegliato niente. Il dramma continua malgrado la buona volontà di pacifisti inascoltati: scrittori, intellettuali arabi ed ebrei, ma anche della vecchia Europa e dell’America che predica bene mentre riempie gli arsenali. I protagonisti della tragedia di Monaco sono stati uccisi 21 ore dopo. Gli infallibili cecchini della polizia tedesca non hanno fatto differenze tra aggressori e ostaggi fulminati dalla terrazza dove prendevano la mira. Avevano fretta. L’incidente andava subito chiuso: l’olimpiade non poteva fermarsi. Due giorni senza gli elastici bianchi e neri che bruciavano vecchi record sembravano insopportabili. Rinchiusi nelle sale stampa sterilizzate, feltri sintetici e ragazze-bambola ben pettinate, ben profumate, sorrisi del tutto va bene, noi che dovevamo raccontare aspettavamo notizie. Centottanta giornalisti ad ogni piano, angosciati perché le ore passavano e i giornali dovevano chiudere e i direttori si arrabbiavano: siamo sicuri che la concorrenza non sa cosa è successo? Raccoglievamo solo le prediche delle autorità. Fermare l’olimpiade diventava un sacrilegio che avrebbe stimolato nuove catastrofi. I valori dello sport riappacificano i popoli ripiegando odio e terrorismo. Guai abbassare i riflettori. Di ora in ora, un discorso dopo l’altro e i poveretti stretti tra i fucili scivolavano nell’oscurità delle comparse che in fondo davano fastidio. Sapete quanto abbiamo speso per stadio nuovo e villaggio olimpico? Miliardi da capogiro. Da riguadagnare coi palazzoni in vendita appena si spegne la fiamma. Se perdiamo i diritti delle tv la voragine del debito farà tremare la nostra economia. Questo non ci interessa, rispondevano dalle redazioni di ogni giornale. Sono morti o sono salvi? Quanti morti, quanti feriti? Insomma, la notizia. Dei palestinesi e di Israele magari parleremo appena si ricomincia a correre.
Tra mezzanotte e le cinque del mattino scopro cosa c’era sotto il cerone malinconico che allungava le facce dei bavaresi. Non solidarietà umana, né pena per l’innocenza degli ostaggi, tantomeno comprensione per la follia di disperati che non avevano niente da perdere dopo il settembre nero di Amman quando re Hussein aveva rovesciato il fuoco del suo esercito sulle baracche nelle quali sopravvivevano palestinesi da mezzo secolo cittadini giordani. Il lamento non veniva solo dai politici che vedevano sfumare la grandeur del grande spettacolo, o dagli imprenditori che perdevano il grande affare. Anche bottegai, ristoranti, alberghi, spacciatori di souvenir, fabbricanti di birra e le scarpe, e le magliette, profumi e automobili, pubblicità da riversare negli spot del mondo, battevano i denti immaginando il crac. Chiudere l’olimpiade cinque giorni prima voleva dire compromettere la contabilità sognata dalla folla che giocava con la pelle degli altri come si gioca in borsa. Avevano torto o ragione? A loro modo, ragione.
Ma era la ragione del tornaconto che si contrapponeva alla vita di nove persone prigioniere nel blocco 31, palazzina bassa fra le torri di calcestruzzo della nuova Monaco che doveva sfavillare. Il ministro bavarese Merk passa da un piano all’altro per distribuire ai giornalisti la sua rabbia: «Cosa sperano i terroristi? La pagheranno e la pagheranno cara... ». E cosa può sperare un giovanotto che è nato ed abita in un campo profughi, pattumiere di città che non lo vogliono e non sopportano altri ottocentomila accampati come lui? Arriva la conferma: tutti morti. Devono passare sei ore per capire chi ha sparato, ma alle nove del mattino finalmente lacrime di coccodrillo e bella notizia. L’olimpiade continua. Si ricomincia a correre e a saltare perché l’olimpiade è «la festa della gioventù». Cerco fra gli atleti un’ombra di sdegno. Sono agitati da altri pensieri. «Mi alleno da tre anni; una tragedia tanta fatica per niente... ».
I Giochi riaprono coi pachistani appena usciti dall’agonia della guerra. Nella finale dell’hockey sul prato dovevano vedersela con l’India, quasi la rivincita delle battaglie perdute. Come potevano rinunciare? E gli americani del black power cosa faranno? Corrono, vincono: il gesto coraggioso dell’alzare il pugno verso la bandiera fa capire che sotto i muscoli batte un cuore generoso. Un po’ di noi scriveva così. E appena la fiamma si spegne, la retorica dolciastra unge ogni parola: valori dello sport, coraggio dell’affrontare gli ostacoli senza arrendersi ai ricatti. Con l’inno che suona, la conferma solenne: Olimpiadi simbolo di pace e di fraternità.
Quattordici anni prima, olimpiade a Città del Messico, la polizia aveva sparato sugli studenti: 400 morti alla vigilia della prima gara, per fortuna telecamere non disturbate dal sangue e dai corpi trascinati nell’asfalto. Insomma, bella festa dello sport. Otto anni dopo gli Stati Uniti non vanno a correre a Mosca perché la Russia ha invaso l’Afghanistan. E la Russia si vendica nell’olimpiade che viene dopo: nessun atleta dell’arcipelago Est a Los Angeles perché Salvador e Nicaragua sono le colonie insanguinate del grande vicino. Se oggi i morti della Cecenia, Iraq, Afghanistan (un’altra volta) contassero come i morti di qualche anno fa, a Pechino salterebbero in pochi. Ma i Tg che raccontano le guerre e i giornalisti embedded hanno abituato le famiglie a non impressionarsi troppo. Vittime svalutate.
E poi la Cina moderna è il paese del prodotto lordo che scavalca Wall Street. Ripiega nel suo portafoglio un terzo del debito di Washington. Quando Pechino ha il raffreddore, i nostri mercati tremano. Chi se la sente di pestare i piedi alla tigre dell’Asia, un miliardo e trecento milioni di clienti? Anche perché, diciamo la verità, il Tibet è un bel paese per fare trekking, e mettersi in posa fra i monaci buddisti, stupendi figuranti nelle foto delle vacanze, ma val la pena mettere in dubbio i valori dello sport per una piccola repressione nel piccolo tetto del mondo? Le proteste devono restare educate con qualche asprezza diplomatica a proposito delle immagini dure che sconsiderati reporter distribuiscono al mondo: «abbiamo l’impressione che state esagerando». Ma Bush brillerà in tribuna d’onore quando si aprirà il velario e quattro miliardi di sportivi saranno incollati alla tv. Un gol e uno spot, colpo di fioretto e altro spot. Ogni telecamera si incanterà davanti al ponte più lungo, all’aeroporto sterminato o allo stadio più lunare del mondo. In fondo spiace per il Dalai Lama, tanto garbato. Continui pure a pregare, prima o poi anche il Papa lo riceverà, ma più di così non si può fare: non sarebbe conveniente.
mchierici2@libero.it
* l’Unità, Pubblicato il: 31.03.08, Modificato il: 31.03.08 alle ore 9.23
Un massiccio servizio di polizia ha impedito che ci fossero manifestazioni di protesta
Il simbolo delle Olimpiadi da domani si sdoppia, raggiungendo il Kazakhstan e l’Everest
Hu Jintao accende la fiaccola
Al via il viaggio nei 5 continenti*
PECHINO - Il presidente cinese, Hu Jintao, ha acceso stamane a piazza Tiananmen la fiaccola olimpica arrivata dalla Grecia, dando il via alla corsa che porterà il simbolo delle Olimpiadi in cinque continenti. Al termine della cerimonia a Pechino Hu Jintao ha consegnato la fiaccola a Liu Xiang, il campione del mondo dei 110 ostacoli, che l’ha portata sulla porta dell’antica residenza imperiale, la Città Proibita. Da qui la fiaccola viaggerà per tutte le province della Cina, incluso il tormentato Tibet, e tornerà nella capitale tra 130 giorni, l’8 agosto, giorno di apertura dei Giochi Olimpici.
Un massiccio servizio di sicurezza, composto da migliaia di poliziotti in divisa e in borghese, ha assicurato che non si ripetessero a Pechino, nel luogo simbolo della rivolta repressa nel sangue nel 1989,le proteste inscenate in Grecia da un gruppo di attivisti per i diritti umani (ad Atene ieri sono state arrestate dodici persone che hanno manifestato per i diritti del Tibet).
Proteste sono state però annunciate da attivisti tibetani a Londra, Parigi, San Francisco e New Delhi. La fiaccola passerà anche (in giugno) per le strade di Lhasa, la capitale del Tibet dove, secondo il governo tibetano in esilio, la repressione cinese ha provocato 140 morti.
Domani la fiaccola olimpica si "dividerà in due": una delle fiamme raggiungerà Almaty, nel Kazakhstan, prima tappa del suo viaggio; l’altra invece andrà al campo base dell’Everest, dove si attenderanno le condizioni meteorologiche favorevoli per portarla sulla cima più alta del mondo a 8.848 metri di altezza.
* la Repubblica, 31 marzo 2008.
Pechino replica con durezza all’appello dei Ventisette
Operazione della polizia: ventisei arresti in un monastero
L’ira della Cina contro la Ue
"Non interferite sul Tibet"
PECHINO - "Il Tibet è un affare completamente interno della Cina. Nessun Paese straniero o organizzazione internazionale ha il diritto di interferire al riguardo". E’ secca la reazione del governo cinese alla presa di posizione della Ue sulla repressione in Tibet. Ieri i ministri degli Esteri degli Stati dell’Unione avevano lanciato un appello a Pechino per un "dialogo costruttivo" con i manifestanti tibetani. Escludendo, però, qualsiasi ipotesi di sanzioni economiche o di boicottaggio dei Giochi Olimpici. Una presa di posizione tutt’altro che drastica che, però, non è andata giù alla Cina. Tanto che un portavoce del ministero degli Esteri cinese, Jiang Yu, esprimere il "forte malcontento" del suo governo rispetto all’atteggiamento assunto dai Ventisette.
Arresti e sequestri. Ventisei persone sono state arrestate e numerose armi sono state confiscate in un monastero nel Sichuan, nella Cina sudoccidentale, in relazione alle recenti proteste anticinesi. Lo scrive l’agenzia Nuova Cina. La polizia ha scoperto 30 pistole, 498 proiettili, due chili di esplosivo e "un numero significativo" di coltelli nel monastero di Geerdeng, nella provincia del Sichuan.
Sono stati sequestrati inoltre telefoni satellitari, decoder capaci di ricevere televisioni straniere, fax, computer, una bandiera vietata del governo tibetano in esilio e striscioni che chiedono l’indipendenza del Tibet.
"Ventisei sospetti sono stati arrestati perché sospettati di aver partecipato alle violente manifestazioni del 16 marzo, seguiti agli scontri avvenuti a Lhasa, in Tibet", rende noto inoltre la polizia, senza precisare se le persone arrestate siano monaci.
Molti religiosi del monastero parteciparono alle manifestazioni contro edifici governativi due giorni dopo gli incidenti di Lhasa. La contea di Aba, dove si trova il monastero, è situata nella provincia del Sichuan che confina con il Tibet, amministrato dalla Cina.
Le violenze cominciate nel Tibet il 10 marzo hanno causato secondo le autorità cinesi 19 morti. Il governo dei tibetani in esilio afferma invece che la repressione cinese in Tibet e nelle province cinesi abitate da tibetani ha provocano circa 140 morti.
* la Repubblica, 30 marzo 2008.
Il capo spirituale a New Delhi ha chiesto aiuto alla comunità internazionale Pechino offre risarcimenti alle vittime delle violenze a Lhasa Appello del Dalai Lama al mondo: "Per favore, aiutate i tibetani"
NEW DELHI - Un nuovo accorato appello rivolto alla comunità internazionale è stato lanciato oggi dal Dalai Lama a New Delhi. "Per favore", ha detto il capo spirituale, "aiutate" i tibetani a risolvere la crisi nella regione, aggravatasi dopo la violenta repressione delle proteste contro la Cina.
"Non abbiamo altro in nostro potere che giustizia, verità, sincerità. Questo è il motivo per cui chiedo alla comunità internazionale, per favore, aiutateci", ha detto il leader dei tibetani in esilio, oggi a New Delhi, per un incontro di meditazione. "Sono qui inerme, posso solo pregare", ha aggiunto il Dalai Lama che poco prima si era recato a rendere omaggio sul luogo in cui furono cremate le spoglie del Mahatma Gandhi e aveva pregato per le vittime della rivolta in Tibet, insieme agli altri leader delle religioni indiane (musulmani, indù, sikh e jain).
Successivamente, incontrando i giornalisti in una conferenza stampa, il Dalai Lama ha ripetuto di volere aprire un canale di dialogo con le autorità cinesi: "siamo pronti, e in attesa", ha detto.
Intanto, secondo quanto scrive Nuova Cina, Pechino ha offerto di pagare risarcimenti alle famiglie dei civili che sono morti nelle violenze dei giorni scorsi nel capoluogo tibetano Lhasa e cure mediche gratuite per i feriti. Le famiglie dei morti nei disordini tibetani - che le autorità di Pechino li quantifica ufficialmente in 18 mentre per il governo in esilio del Dalai Lama sono almeno 140 - riceveranno ciascuna 200.000 yuan (poco più di 18.000 euro), dice Nuova Cina citando il governo regionale del Tibet. "Le misure sono finalizzate ad aiutare la gente a ricostruire le loro case e i loro negozi danneggiati nei disordini o a costruirne di nuovi", si legge nell’annuncio.
La Cina ha dato la colpa degli incidenti a quella che ha definito la "cricca" separatista del Dalai Lama. Quest’ultimo ieri, nell’offrire dialogo al governo cinese, ha criticato Pechino per aver diffuso sui media di stato "menzogne e immagini distorte", mostrando, dice, solo i cinesi attaccati dalla violenza dei tibetani.
* la Repubblica, 29 marzo 2008.
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Ansa» 2008-03-28 14:56
DALAI LAMA NUOVO APPELLO ALLA CINA PER DIALOGO
NEW DELHI - Il Dalai Lama, in esilio in India, ha lanciato oggi un nuovo appello per riavviare il dialogo con la Cina.
Alcuni diplomatici stranieri a Pechino sono partiti oggi per Lhasa, la capitale del Tibet, per un viaggio di due giorni organizzato dal governo cinese. Lo si apprende da fonti diplomatiche. I rappresentanti di Stati Uniti, Gran Bretagna. Francia, Australia e Italia figurano tra le persone invitate a compiere un viaggio simile a quello compiuto ieri da un gruppo di giornalisti stranieri. "Sono già partiti e saranno di ritorno domani notte" ha precisato un portavoce dell’ambasciata italiana. A Washington, il portavoce del dipartimento di Stato Sean McCormack ha apprezzato il gesto anche se lo giudica insufficiente.
BOICOTTAGGIO DIVIDE MINISTRI UE
Il possibile boicottaggio della cerimonia di apertura delle Olimpiadi cinesi, in segno di protesta contro la repressione esercitata dalla Cina in Tibet, sarà preso in esame dai ministri degli esteri della Ue che oggi e domani si riuniscono informalmente a Brdo (Slovenia). I 27 sono divisi sul boicottaggio. La Francia, con il presidente Nicolas Sarkozy, guida il drappello dei Paesi più determinati a lanciare un forte segnale alle autorità cinesi per il rispetto dei diritti umani e un maggior dialogo con il Tibet.
Il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner presenterà ai colleghi il testo di una dichiarazione che dovrebbe essere adottata collegialmente entro domani. Improbabile però che passi la linea più dura. "Non credo che questo sia il momento giusto" per parlare del boicottaggio della cerimonia di apertura dei Giochi olimpici, ha frenato il ministro tedesco Frank-Walter Steinmeier, parlando con i giornalisti al suo arrivo a Brdo. "Un boicottaggio non è di aiuto né alla Cina né alle associazioni sportive".
Steinmeier ha riferito che né lui, né il cancelliere e neppure il ministro degli Interni Schauble (che é anche titolare per lo sport) hanno previsto "in ogni caso" di andare a Pechino l’8 di agosto. "Non possiamo cancellare un appuntamento che non abbiamo neppure previsto", ha detto. Per il ministro tedesco, è comunque impossibile pretendere che le Olimpiadi siano ospitate solo dai "Paesi buoni. Al contrario - ha affermato - devono potere essere fatte dappertutto". Per Steinmeier, i Giochi olimpici costituiscono una buona occasione per contribuire all’apertura e alla trasparenza dei Paesi. A fianco della Francia, si sono però già espressi diversi altri esponenti europei. Il presidente della Repubblica ceca Vaclav Klaus ha annunciato che diserterà la cerimonia di apertura dei Giochi e lo stesso hanno fatto il premier polacco Donald Tusk, e il presidente dell’Estonia Toomas Hendrik Ilves. Sul fronte contrario, i ministri esteri di Danimarca e Cipro che hanno dichiarato che si opporranno all’ipotesi del boicottaggio della cerimonia dell’8 agosto.
"La questione dei giochi olimpici dovrebbe restare fuori dalla politica. Sono due questioni separate", ha motivato il ministro cipriota Markos Kyprianou. Un invito alla cautela è giunto dall’Austria. "E’ importante non limitare la questione del rispetto dei diritti dell’uomo in Cina e in Tibet esclusivamente alla presenza alla cerimonia di apertura dei giochi olimpici", ha detto il ministro austriaco Ursula Plassnik, parlando alla radio nazionale. Plassnik si è augurata una posizione unanime tra i 27 per inviare a Pechino un messaggio "di fermezza e pazienza" in grado di persuadere la Cina di riprendere il dialogo con il Dalai Lama, "simbolo di una politica non violenta". Da parte sua, il ministro degli Esteri Massimo D’Alema (che non partecipa ai lavori della riunione di Brdo, da Napoli ha affermato che "le iniziative per il Tibet sono efficaci se discusse a livello europeo, non se c’é una rincorsa di singole dichiarazioni che rischiano soltanto di creare confusione. Oltre al Tibet e alle ricadute sulle Olimpiadi, i ministri esamineranno la situazione nei Balcani, gli ultimi sviluppi in Medio Oriente e le relazioni dell’Unione europea con la Russia, in vista del vertice bilaterale del prossimo giugno, il primo con la presidenza di Dmitry Medvedev.
CENTRO STUDI TEOLOGICI DI MILANO
CHIESA + CRISTIANA + ANTICA CATTOLICA E + APOSTOLICA Diocesi di Milano - Monza
Comunicato Stampa
Milano, 24 Marzo 2008 - TIBET : "Beati i perseguitati a causa della giustizia perchè di essi è il Regno dei Cieli!..." (Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo cap. 5, v. 10)
QUESTE SONO LE PAROLE CHE OGGI VOGLIAMO DIRE SULLA TRAGEDIA DEL POPOLO TIBETANO CHE VIENE CALPESTATO NEI SUOi DIRITTI FONDAMENTALI DAL REGIME CINESE - QUESTO REGIME DAL 1959 COSTRINGE UN POPOLO SOTTO IL SUO TALLONE DI FERRO - OGGI E’ CHIARO DINNANZI A TUTTO IL MONDO CHE SIA LA CINA EX MAOISTA CHE LA RUSSIA EX SOVIETICA NON APPARTENGONO AL CONSESSO DELLE DEMOCRAZIE MA SONO FORME DI DITTATURE FEROCI, SPESSO DISSIMULATE DIETRO UNA PARVENZA DI DEMOCRATICITA’ E DI RISPETTABILITA’ - PERCHE’ OGNI VOLTA CHE SI CERCA DI PORRE LA QUESTIONE DEI "DIRITTI UMANI ", QUESTI COLOSSI, CHE SI SENTONO ONNIPOTENTI RISPONDONO CHE SI TRATTA DI "QUESTIONI INTERNE" SULLE QUALI NON E’ LECITO INTERFERIRE? E PERCHE’ PRETENDONO DI METTERE A SILENZIO TUTTE LE VOCI DISSENZIENTI? PERCHE’ CREDONO DI POTER OBBLIGARE CHIUNQUE A TACERE E A NON VEDERE, NON DENUNCIARE? CON QUALE PROTERVIA VOGLIONO IMPORRE IL BAVAGLIO AL MONDO INTERO DI FRONTE AI LORO MISFATTI!?
LE PAROLE DI CRISTO COME CRISTIANI CI INDICANO LA VIA, NON GLI OPPORTUNISMI DIPLOMATICI O GLI INTERESSI AFFARISTICI CONTINGENTI...! ANCHE IL FARAONE DI EGITTO E’ STATO SOMMERSO NEL MARE CON I SUO CARRI E I SUOI CAVALIERI E GUERRIERI, ANCHE BABILONIA LA GRANDE E’ CADUTA MISERAMENTE! DA DIO CHIEDIAMO, IMPLORIAMO ANCHE LA FINE DI QUESTI GRANDI IMPERI CHE NON TEMONO LA SUA PAROLA E CALPESTANO I DEBOLI E OPPRIMONO GLI INNOCENTI!
Quanto accade in Tibet e in varie provincie della Cina è davanti agli occhi del mondo intero... Noi non tacciamo, perchè non ci toccano nè ci riguardano gli interessi e gli affari economici in gioco con l’impero cinese, che spingono a sorvolare, a minimizzare, a far finta di non vedere il dramma e la tragedia del popolo tibetano (antica civiltà, diversa dal resto della nazione cinese per lingua, religione, cultura, tradizioni ) che dal 1959, dopo la rivoluzione comunista di Mao, viene sistematicamente calpestato nel suo diritto fondamentale all’autodeterminazione e nella sua identità.
La pretesa delle Autorità cinesi è quella di impedire a chiunque nel mondo anche democratico e libero di parlare e di denunciare, di protestare e di reagire a questa barbarie, che oggi, ancora nell’anno 2008 ci tocca di vedere e di assistere!
Noi replichiamo alle Autorità della Cina che le loro preoccupazioni per l’immagine del Paese durante le Olimpiadi e le loro intimidazioni non ci toccano, noi replichiamo con forza che il loro comportamento, con l’uso della forza poliziesca e la loro repressione è una vergogna per ogni cittadino del mondo libero e democratico.
Noi sappiamo quanti Vescovi e quanti Preti e religiosi e religiose sono stati nei decenni scorsi e sono tuttora- insieme ad altri appartenenti a confessioni religiose - incarcerati, perseguitati e segregati, dagli epigoni del comunismo cinese maoista, che nonostante le riforme economiche ispirate al capitalismo occidentale, ha mantenuto in sostanza l’impianto statale immutato della Dittatura comunista, con un solo Partito, il controllo dell’informazione, la pena capitale per i reati di opinione politica, la repressione delle minoranze culturali ed etniche stesse, la repressione della dissidenza in ogni sua forma anche quella più pacifica o quella religiosa.
Il Papa Benedetto XVI ha tenuto un profilo soft riguardo il problema del Tibet, perchè è impegnato a riannodare i fili della diplomazia vaticana: infatti il Vaticano sta cercando di far accettare un Vescovo legato a Roma da parte delle Autorità cinesi, che superi la divisione tra la Chiesa nazionale e quella in comunione con il Papa: tuttavia oggi, essendo in gioco anche la vita e i diritti di tanti uomini e donne, tra i quali, i monaci buddisti stessi, uomini di una realtà religiosa millenaria, Noi non crediamo che occorra anteporre qualche interesse contingente all’obbligo della denuncia evangelica chiara e forte del male operato da un regime in cui la forza bruta viene usata per soffocare le verità e la giustizia!
Gli stessi giochi olimpionici, nati sin dall’antichità in Grecia, per promuovere la concordia delle nazioni e la pace, suonano molto stonati in un Paese in cui i diritti umani e la libertà ancora non hanno cittadinanza!
Che la Russia post-sovietica di Putin stia al fianco della Cina per legittimare queste atrocità e per giustificarle, in nome di "esigenze interne", tutto ciò sta ad indicare che nei due Paesi il vecchio comunismo non è morto affatto, e che la loro democrazia è soltanto formale, una parvenza ingannatrice!
Dio è vindice dei deboli, e a Dio chiediamo, lo imploriamo di rovesciare questi regimi, come furono rovesciati il Faraone di Egitto e Babilonia la grande : " Dispersit superbos in corde suo...! Deposuit potentes de sedes! Et exaltavit umiles! ", cioè : " Ha disperso i superbi nei pensieri dei loro cuori! Ha rovesciato i potenti dai loro troni! E ha innalzato gli umili!..." Noi non tacciamo nè taceremo mai!
Dio, in Cristo Risorto, Pasqua dei credenti, ristabilisce la verità e la giustizia, sempre, davanti alla malvagità, alla falsità e all’ingiustizia perpretrata dagli uomini.
IL COMITATO DIRETTIVO dei TEOLOGI DEL CENTRO STUDI TEOLOGICI di MILANO
+ Mons. Giovanni Climaco Mapelli Vescovo e Presidente
CENTRO ECUMENICO
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La denuncia del governo in esilio al confine indiano. Le autorità cinesi negano
Ansia per la possibile escalation della repressione allo scadere dell’ultimatum
Centinaia di vittime in Tibet
Il Dalai Lama: "Temo il peggio"
di RAIMONDO BULTRINI da DAHRAMSALA *
DHARAMSALA - Sono "centinaia" le vittime della repressione cinese in Tibet. Così ha riferito questa mattina una nota del Parlamento tibetano in esilio a Dharamsala che ha insistito - come il Dalai Lama ieri - nel richiedere una indagine indipendente delle Nazioni Unite e della comunità internazionale sulle conseguenze delle drammatiche proteste dei tibetani di Lhasa e di altre province degli altipiani sotto il controllo cinese. Le autorità di Pechino hanno continuato a negare di aver "usato la forza" e "armi da fuoco" contro i rivoltosi, anche se numerosi testimoni tibetani, stranieri e anche cinesi hanno detto di aver sentito chiaramente numerosi colpi di fucile o pistola in diverse zone della capitale Lhasa di fatto sotto coprifuoco da due giorni.
Anche l’associazione degli ex detenuti politici Gu Chu Sum, che ha sede a Dharamsala, ha parlato di "centinaia di morti", mentre il primo ministro in esilio Samdhong Rinpoche ha ripetuto la valutazione di "almeno cento morti". Ma è praticamente impossibile ogni verifica indipendente. Finora le uniche informazioni di fonte governativa parlano di 13 vittime, soprattutto commercianti e residenti cinesi, e sono stati diffusi in tutta la città i manifesti dove si specificano le "condizioni" per ottenere i benefici di legge per una "riduzione o contrattazione della pena" in caso di autoconsegna alle autorità entro la mezzanotte di oggi.
"Coloro che spontaneamente - recita il manifesto - si presenteranno alla polizia o agli uffici giudiziari prima della mezzanotte del 17 marzo saranno puniti leggermente o avranno una punizione attenuata; coloro che si consegneranno e riveleranno le attività di altri elementi criminali compiranno un atto meritorio e possono evitare la punizione. Gli elementi criminali che non si presentano in tempo saranno puniti severamente secondo legge".
E’ di fatto l’applicazione della "guerra di popolo" proclamata due giorni fa dalle autorità e rivolta soprattutto alla popolazione cinese. Nel proclama la "guerra" è evidentemente estesa anche ai tibetani che in questi giorni si trovano sottoposti, quasi in ogni famiglia, a rappresaglie e ricerche della polizia, e che potrebbero cedere alla paura o al ricatto. L’ultimatum di mezzanotte di fatto sembra più che altro uno stratagemma per intimorire più tibetani possibile, visto che già ieri notte - secondo fonti collegate alle organizzazioni in esilio ma anche in base a video e foto mostrate da diversi media internazionali - parte delle migliaia di poliziotti giunti a Lhasa di rinforzo hanno iniziato "un rastrellamento casa per casa", come ci ha detto un ministro del governo in esilio.
Le conseguenze dopo l’ultimatum potrebbero essere ancora più drammatiche di quelle denunciate dal Parlamento tibetano di Dharamsala, e lo stesso Dalai Lama ha espresso la sua "seria preoccupazione" per quanto potrà accadere. In una breve conversazione avuta questa mattina, il leader spirituale tibetano ha detto di "avere delle sensazioni terribili come quelle dei giorni che precedettero la data del 10 marzo 1959", quando fu costretto a fuggire per la feroce repressione cinese seguita all’insurrezione fallita del popolo di Lhasa, con migliaia e migliaia di vittime.
In questi giorni, oltre alle rivolte di Lhasa, secondo la stessa fonte governativa in esilio, manifestazioni di protesta sono cominciate nelle aree rurali, fuori dalle città in gran parte superpresidiate da soldati cinesi. La più vicina alla capitale nel Tibet centrale si sarebbe svolta a Methokunga, con 7000-10000 partecipanti. In Sichuan sarebbero confermate almeno 10, 14 vittime ad Abe, e altre manifestazioni si sono tenute a Lanchau in Gansu con la partecipazione di ragazzi delle scuole locali. "Ma ormai - ha detto il ministro che preferisce mantenere l’anonimato - la protesta si è estesa a Kardzé, a Jekundo, nell’Amdo, praticamente quasi ovunque".
* la Repubblica, 17 marzo 2008.
Ansa» 2008-03-16 20:09
TIBET: SIT-IN E MANIFESTAZIONI IN ITALIA E IN EUROPA
ROMA - Sit in e manifestazioni di solidarieta’ con i morti e le vittime degli scontri di questi giorni in Tibet si sono svolte oggi in Italia e in Europa. A Roma i manifestanti si sono stesi per un minuto a terra, davanti alla sede dell’ambasciata cinese. La manifestazione, promossa dai Radicali e dalla Sinistra Arcobaleno contro la repressione in Tibet, si e’ conclusa con un lungo applauso. Domani alle 18:30, sempre davanti alla sede dell’ambasciata, si terra’ la manifestazione organizzata da Cgil, Cigl e Uil. Un appello alla non violenza è stato lanciato dal leader radicale Marco Pannella, il quale ha ricordato che "la carta delle Nazioni Unite è chiarissima e occorre rispettare i diritti umani e politici. Viva la religione della libertà, basta - ha concluso Pannella - con talebani e vaticani".
Altre manifestazioni si sono svolte in varie citta’ d’Europa. All’Aja invece un gruppo di dimostranti ha tentato di fare irruzione all’ambasciata della Cina, durante una manifestazione di solidarietà con il Tibet, distruggendo una parte delle recinzioni esterne dalla sede diplomatica di Pechino. Tre persone, che erano riuscite a penetrare sul terreno attorno all’ambasciata, sono state arrestate. I manifestanti hanno anche strappato la bandiera cinese per issare il vessillo tibetano, scandendo gli slogan ’Cina go home’ e ’Lunga vita al Dalai Lama’. Gli organizzatori della protesta hanno fatto appello alla calma e hanno invitato a proseguire la manifestazione pacificamente.
IL DALAI LAMA DENUNCIA TERRORE, MA SI’ A OLIMPIADI
Il Dalai Lama ha condannato oggi il "regime di terrore" instaurato dalla Cina in Tibet e ha denunciato il "genocidio culturale" in corso ma ha confermato il suo "sostegno" alle Olimpiadi di Pechino. Il popolo cinese, ha affermato il leader dei buddisti tibetani a Dharamsala, in India, "ha bisogno di sentirsi fiero" e ha "meritato l’onore" di ospitare i Giochi Olimpici della prossima estate.
I drammatici avvenimenti degli ultimi giorni hanno ridato fiato ai gruppi umanitari che predicano il boicottaggio e hanno probabilmente guastato per sempre l’ atmosfera di festa che ci si aspettava per lo straordinario evento rappresentato dalla celebrazione delle Olimpiadi nella capitale della Cina. "Bisogna però ricordare alla Cina - ha proseguito il Dalai Lama - che deve essere un’ospite degna dei Giochi Olimpici".
Il leader tibetano ha sottolineato più volte - parlando prima in una conferenza stampa e poi in una lunga intervista alla rete televisiva Bbc - che non intende rinunciare alla "via di mezzo", un concetto mutuato dal buddismo e che in questo caso indica la volontà di offrire a Pechino un compromesso onorevole.
"Noi chiediamo l’autonomia, non l’ indipendenza. In privato studenti e funzionari cinesi manifestano il loro apprezzamento" per la "via di mezzo", ha aggiunto. La politica moderata del Dalai Lama viene però contestata da alcuni gruppi della diaspora come il Tibetan Youth Congress, secondo il quali la non-violenza non ha portato i risultati sperati. Il leader tibetano, che nel 1989 ha ricevuto il premio Nobel per la pace, ha alternato toni duri alle sue proposte di accordo. "In questa crisi - ha detto - le autorità locali cinesi non hanno fatto ricorso ad altro che alla forza in modo da ottenere un simulacro di pace. Ma una pace ed una stabilità ottenute con la forza equivalgono ad un regime di terrore".
Il Dalai Lama ha inoltre accusato i cinesi di compiere "volontariamente o involontariamente" un "genocidio culturale", in primo luogo con la continua immigrazione. Sulla carta, il 92 per cento dei circa 2,5 milioni di abitanti della ’Regione Autonoma del Tibet’ sono di etnia tibetana. Le statistiche considerano come "residenti" solo coloro che si fermano in Tibet per più di nove mesi all’anno, mentre la maggior parte degli immigrati cinesi, impiegati soprattutto nel turismo o nell’edilizia, rientrano durante l’inverno nei loro luoghi d’origine. Lhasa, la capitale, è stata completamente trasformata dai nuovi edifici che ospitano le strutture per il turismo e la ristorazione, in genere gestite da cinesi.
A questo si aggiungono le nuove regole varate l’anno scorso da Pechino, secondo le quali le reincarnazioni dei grandi lama non possono essere riconosciute senza l’approvazione delle autorità statali. Il leader tibetano non ha negato che la scorsa settimana a Lhasa ci siano stati violenti attacchi contro civili cinesi, ma li ha attribuiti ad un "forte risentimento" che ha affermato di non essere in grado di fermare. "Mi sento impotente", ha detto. "E’ un movimento di popolo e io mi considero un servitore del popolo, ma tutto il mondo conosce il mio principio, che è quello della non-violenza".
16/3/2008
Tibet, i missionari: basta repressione *
Il Pontificio Istituto Missioni Estere denuncia il genocidio culturale religioso ed economico
La repressione non risolve nulla, e ci vuole un altro tipo di soluzione per il Tibet: “Asia News” l’agenzia di stampa online del Pontificio Istituto Missioni Estere da’ voce alla preoccupazione vaticana per la situazione della libertà religiosa nell’universo controllato da Pechino. Un articolo di fondo della rivista conferma quelli che erano i timori della Santa Sede sulle cosiddette "aperture" delle settimane passate di Pechino: un’operazione di maquillage diplomatico in vista delle Olimpiadi. “Dieci morti e i carri armati a Lhasa sono la risposta cinese al “terrorismo” tibetano, che riesce ad esprimersi solo con proteste, marce di monaci e civili, negozi in fiamme, auto bruciate.
A quasi 50 anni dalla rivolta repressa nel sangue, che ha portato all’esilio il Dalai Lama e decine di migliaia di tibetani, una nuova fiammata rischia di far divampare un incendio violento - scrive il Direttore di “Asia News”, Bernardo Cervellera -. Il tutto a pochi mesi dalle Olimpiadi, che Pechino sbandiera come i Giochi della pace e della fraternità universale. Sono proprio le Olimpiadi ad aver acceso la scintilla. Atleti tibetani hanno domandato di partecipare alle Olimpiadi sotto la bandiera del Tibet, ma la Cina lo ha negato. Per le cerimonie d’inizio e fine dei Giochi sono previste performance di danzatori tibetani sorridenti sotto la bandiera cinese, mentre a Lhasa e nel Tibet la popolazione rischia il genocidio”.
Nell’editoriale si parla apertamente di genocidio: “Un genocidio anzitutto economico: le alte terre himalayane, ricche di minerali, sono disseminate di scienziati cinesi che ricercano miniere di rame, uranio e alluminio, mentre ai locali non resta che l’abbandono dei loro pascoli e il lavoro nelle fabbriche cinesi. Il turismo, con il suo strascico di alberghi, karaoke, prostituzione, è tutto in mano ai milioni di coloni cinesi, violentando la cultura ancestrale. La Cina dice che tutto questo serve per lo sviluppo della popolazione. Forse è anche vero, se non ci fosse anche il genocidio culturale e religioso: nessun insegnamento della religione e della lingua tibetane; nessuna esibizione o lode al Dalai Lama, controllo di ferro sui monasteri e i civili grazie allo spiegamento di oltre 100 mila soldati cinesi. Nel ’95 il controllo di Pechino è giunto fino a determinare il “vero” Panchen Lama, eliminando quello riconosciuto dal Dalai Lama. E dallo scorso settembre, tutte le reincarnazioni dei buddha (fra cui quella del Dalai Lama stesso, ormai 70enne), per essere “vere”, devono avere l’approvazione del Partito”.
Asia News denuncia un’esasperazione che raggiunge la soglia della disperazione: “Le proteste di questi giorni, portate avanti soprattutto da giovani monaci e civili sono il frutto della disperazione davanti al lento morire di un popolo impotente. Tale disperazione è creata anche da Pechino. Per tutti questi anni il Dalai Lama ha proposto alla Cina una soluzione pacifica, con un’autonomia religiosa per il Tibet, rinunciando all’indipendenza. Vi sono stati anche incontri fra rappresentanti del governo tibetano in esilio e le autorità del governo cinese. Ma quest’ultimo, alla fine, ha sempre sbattuto la porta in faccia, sospettando chissà quali mire indipendentiste nell’Oceano di Saggezza (un altro nome del Dalai Lama), che ormai desidera solo essere un leader religioso. La mancanza di segni di speranza porta a gesti disperati. Temiamo che la situazione a Lhasa diventi sempre più incandescente o spinga la Cina a soluzioni estreme, con la scusa di combattere “il terrorismo separatista”.
Per la Cina è il momento della verità: dopo essersi preparata a diventare un Paese moderno per le Olimpiadi, deve mostrare di essere tale anche nel risolvere crisi sociali e di libertà. L’apertura di un dialogo col Dalai Lama sarebbe il passo da fare. Sembra quasi una nemesi storica che a decidere questo debba essere il presidente Hu Jintao. Nel marzo ’89 vi è stata un’ennesima rivolta in Tibet, conclusa con un massacro e con la legge marziale, decretata proprio da Hu Jintao, a quel tempo segretario del Partito a Lhasa. Pochi mesi dopo vi è stato il grande massacro di Tiananmen a Pechino. Ma dopo quasi 20 anni Hu Jintao si trova davanti agi stessi problemi. La repressione non ha risolto nulla: è tempo per un altro tipo di soluzione”.
* La Stampa, Blog San Pietro e dintorni di M. Tosatti - 16.03.2008
Pechino parla di dieci vittime e dà la colpa all’opposizione
Per il governo tibetano in esilio i caduti sono 30: "Intervenga l’Onu"
Tibet, strage nelle vie Lhasa
guerra di cifre sul numero di morti
Ultimatum cinese: "La rivolta cessi entro lunedì a mezzanotte"
Dopo l’arresto di 102 tibetani in India, pronto a partire un altro gruppo
di RAIMONDO BULTRINI *
DHARAMSALA (INDIA) - Le notizie che giungono a Dharamsala dalla capitale tibetana Lhasa sono sempre più allarmanti. Se fino a ieri polizia ed esercito cinese avevano adottato una tattica di repressioni mirate, oggi le truppe sono state impiegate in tutto il distretto cittadino e altre sono in arrivo con la nuova linea ferroviaria da Pechino e Golmud destinata - nei progetti - a portare "ulteriore progresso".
Attraverso le organizzazioni degli esuli abbiamo potuto avere alcuni contatti di fonti non solo del dissenso, ma anche di stranieri e cinesi che lavorano in diversi progetti governativi. Riferiscono testimonianze agghiaccianti di sparatorie dalle auto in corsa contro manifestanti e semplici cittadini tibetani incontrati al loro passaggio. Il numero delle vittime varia dai dieci morti denunciati dai media cinesi e dalle autorità (quasi tutti commercianti, titolari e dipendenti di alberghi) ai trenta accreditati dallo stesso governo tibetano in esilio.
La polizia ha dato tempo ai rivoltosi di consegnarsi entro la giornata di lunedì, promettendo un trattamento di favore. Vuol dire che dopo l’ultimatum la situazione peggiorerà ulteriormente.
Ormai è data per scontata, anche se non ufficialmente, la notizia dello stato d’emergenza nella capitale, ma anche in altre città come Chengdu nel Sichuan, dove vive una grande comunità tibetana. Qui le truppe hanno circondato i quartieri " a rischio" e tagliato la corrente elettrica, nell’intento - tra l’altro - di non esacerbare gli animi con le immagini delle rivolte di Lhasa diffuse invece nel resto della Cina.
"In realtà il governo mostra solo ciò che vuole", ci hanno detto diversi familiari di residenti con i quali abbiamo parlato a Dharamsala. La televisione nazionale del partito trasmette senza censure le immagini delle rivolte nell’intento affatto nascosto di mostrare il volto violento di questo popolo che distrugge negozi, auto, strutture pubbliche, uccide cittadini inermi e ferisce i poliziotti. Ma l’esasperazione - da quanto risulta ormai chiaro dalla reazione che coinvolge ogni strato della società tibetana - era ormai alle stelle.
Ieri è emersa dalle conversazioni con numerosi tibetani a Dharamsala e al telefono da Lhasa che tra i motivi scatenanti della protesta c’è stata la decisione degli Stati Uniti di declassificare la Cina nell’elenco dei paesi che violano i diritti umani. La concomitanza con i 49 anni della mancata insurrezione del 59 contro le truppe di Pechino e l’approssimarsi delle Olimpiadi ha convinto molti monaci e giovani ad utilizzare il possibile impatto mediatico per mostrare al mondo ciò che davvero sentono e pensano i tibetanti dopo 60 anni di occupazione.
Per il secondo giorno consecutivo centinaia di residenti del villaggio di Nyangra a 50 chilometri dalla capitale sono scesi in strada per protestare contro la repressione dei monaci di Sera, uno dei più grandi monasteri del Tibet. Dopo il tentato suicidio di due religiosi (vedi le foto di Lobsang Kelsang e Lobsang Damchoe) di un altro centro monastico, Drepung, che lottano tra la vita e la morte, un terzo monaco di Ganden si è dato alle fiamme e non è sopravvissuto.
Ancora incerte le conseguenze di altre manifestazioni nelle regioni lontane dal Tibet centrale dove si trova Lhasa. Di certo la gente è scesa in piazza a Shigatse, sede del grande monastero di Tashilungpo del Panchen lama, la seconda figura del buddhismo tibetano dopo il Dalai. L’importanza di Shigatse è legata a uno dei più gravi motivi di risentimento dei tibetani verso le autorità cinesi. Il Panchen insediato a Tashilungpo infatti è stato scelto dai cinesi dopo aver fatto sparire nell’ormai lontano 1995 un bambino di appena cinque anni considerato la vera reincarnazione dal Dalai lama e dagli abati del monastero.
Non è però il solo "reincarnato" deciso a tavolino dal partito: con una nuova legge ogni cosiddetto Buddha vivente deve essere sottoposto al vaglio politico dei dirigenti comunisti, e i tibetani hanno temuto di vedersi privare anche dei maestri spirituali che avevano finora alleggerito la pesantezza della condizione di servi e prigionieri dei nuovi padroni nel loro stesso paese.
L’altra regione strategica dove dilagano le rivolte è Pashu, nel Kham, una regione di confine abitata da fiere tribù guerriere e molto devote al buddismo. Le notizie giunte tra i profughi in esilio sono di un impressionante movimento di truppe che hanno bloccato tutte le strade d’accesso al distretto.
Nella città degli esuli a nord dell’India gruppi di religiosi e laici attraversano le strade del villaggio tibetano di McLeod Ganji con bandiere e striscioni gridando tutta la loro frustrazione. Se da una parte sono entusiasti della rivolta dei loro fratelli e parenti, dall’altra temono che i rapporti di forza impari possano trasformarsi in un bagno di sangue ben più grave delle cifre riferite finora. Già giungono voci di retate e arresti notturni nelle abitazioni dei tibetani sotto osservazione o riconoscuti durante le manifestazioni.
Il Dalai lama ha invitato sia i cinesi che i suoi fedeli ad evitare ogni violenza, ma è ormai chiaro che la situazione è sfuggita di mano a tutti. Da sempre una grossa fetta della popolazione non riusciva ad accettare la posizione non violenta assunta dal leader spirituale, soprattutto perché il controllo e la repressione si accompagnava a una situazione economica disastrosa per la grande maggioranza dei tibetani. Gran parte dei posti di lavoro va infatti da mezzo secolo ai nuovi arrivati cinesi che costituiscono la maggioranza della popolazione. Invece di assumere tibetani, dei quali non si fidano, richiamano i loro parenti da altre regioni della Cina. Negli ultimi anni il business con l’arrivo massiccio di turisti dall’Occidente è cresciuto enormemente, e per evitare contatti troppo diretti tra dissenzienti e stranieri in quasi ogni monastero sono stati collocati falsi monaci e lama istruiti dal partito. Lo stesso Dalai lama nel suo ultimo discorso aveva sottolineato le "massicce violazioni dei diritti umani" nel suo paese, e non aveva cercato di dissuadere i giovani tibetani partiti in marcia da Dharamsala il 10 marzo scorso per raggiungere il confine cinese in occasione delle Olimpiadi.
Dopo quattro giorni la polizia indiana, su ordine del governo preoccupato per le possibili crisi di relazioni con la Cina, li ha fermati e arrestati. Ma lunedi prossimo ne partiranno altri 44, già pronti a raggiungere la città dove sono detenuti i loro compagni.
* la Repubblica, 15 marzo 2008.
La tv cinese mostra le immagini degli scontri e dà la colpa all’opposizione
Il governo tibetano in esilio parla di 100 morti e chiede l’intervento dell’Onu
Tibet, guerra di cifre sulle vittime secondo Pechino sono solo dieci
L’appello del Dalai Lama: "La Cina smetta di usare la forza"
PECHINO - Adesso Pechino ammette che negli scontri di Lhasa ci sono stati dei morti. Almeno dieci dice l’agenzia Nuova Cina che attribuisce la responsabilità delle vittime ai manifestanti tibetani: "Le vittime sono tutte civili innocenti, bruciati a morte". Tra loro vi sarebbero due dipendenti di un albergo e due negozianti. Ancora le stesse fonti parlano di un centinaio di negozi saccheggiati.
Ma il bilancio, secondo il governo tibetano in esilio a Dharamsala, nel nord dell’India, sarebbe molto più drammatico. I morti, soprattutto manifestanti, sarebbero cento. Nel darne comunicato, il governo in esilio ha chiesto l’apertura di una inchiesta da parte dell’Onu con l’invio immediato di rappresentanti a Lhasa che intervengano a porre fine alle numerose violenze cinesi che rappresentano violazioni continue dei diritti umani.
Il Primo Ministro del governo tibetano in esilio, Samdhong Rinpochè, ha poi affermato di "sperare che la Cina, che ha messo fine nel passato al movimento democratico di piazza Tienanmen, agisca in questa situazione con compassione e saggezza".
La tv cinese intanto ha mandato in onda delle immagini da Lhasa tutte tese a sostenere la tesi della violenze perpetrate dalla protesta: nei video si vedono solo manifestanti che attaccano negozi e alberghi. La rivolta dei monaci e dei tibetani contrari al regime cinese, dunque, continua. Testimoni hanno riferito che le strade di Lhasa sono presidiate da carri armati e blindati e che le vittime sarebberop molte di più. Si parla di almeno ottanta cadaveri contati sulle strade di Lhasa.
Da lunedì centinaia di persone, poi diventate migliaia guidate da monaci buddhisti aveavno manifestato a Lhasa e in altre località del Paese nell’anniversario della sanguinosa repressione del 1959 della rivolta contro i dieci anni di dominazione cinese, che portò all’esilio del Dalai Lama, il leader spirituale del Tibet. Poi, i monaci sono stati praticamente relegati nei monasteri assediati dalla polizia cinese, ma le manifestazioni sono proseguite, alimentate da migliaia di giovani che si sono scontrati con le forze dell’ordine.
E da Dharamshala, sede del governo tibetano in esilio, una seconda ondata di tibetani ha deciso di opporsi agli ordini del governo indiano riprendendo la marcia verso il Tibet. Mentre 102 tibetani sono ancora in carcere, un secondo gruppo di 44 persone è partito stamattina alle 10. "Le proteste coraggiose dei tibetani in Tibet - ha dichiarato Chime Youngdrung, presidente del partito nazionale democratico del Tibet - ci hanno reso ancor più determinati nel voler continuare questa marcia e portarla a termine. Poichè siamo testimoni di una escalation di violenze da parte del governo cinese a Lhasa, crediamo che sia importante per noi ritornare a casa per riunirci con i nostri fratelli e sorelle che stanno combattendo per sopravvivere sotto l’occupazione cinese".
Dal Dalai Lama è partito un appello alle autorità cinesi: "Queste proteste - ha sottolineato la guida spirituale tibetana - sono una manifestazione del radicato risentimento del popolo tibetano sotto l’attuale governo. Mi appello ai dirigenti cinesi perché smettano di usare la forza e affrontino tale risentimento attraverso il dialogo con il popolo tibetano. Come ho sempre detto, l’unità e la stabilità ottenuti dalla violenza bruta possono al massimo essere una soluzione temporanea. E’ irrealistico aspettarsi unità e stabilità sotto un simile governo e questo non contribuirà a trovare una soluzione pacifica e durevole".
Anche dagli Stati Uniti è arrivato un monito alla moderazione rivolto alle autorità pechinesi che, intanto, hanno proseguito la loro normale attività politica. Ieri, il presidente Hu Jintao è stato rieletto per un secondo mandato di cinque anni dall’Assemblea Nazionale del Popolo, riunita a Pechino nella sua unica sessione annuale. Già rieletto segretario del Partito Comunista in ottobre Hu, che ha 65 anni, ha avuto il 99,7% dei voti quasi tremila deputati dell’Assemblea ed è stato riconfermato alla testa della potente Commissione Militare Centrale. Nella stessa seduta il suo erede designato, il 54enne Xi Jinping, è stato eletto vicepresidente della Commissione, un posto che viene tradizionalmente occupato dal "delfino" del leader in carica.
I massimi leader non hanno commentato finora gli avvenimenti del Tibet, lasciando ai leader locali come il presidente della Regione Autonoma del Tibet Qiangba Puncog il compito di denunciare "la cricca del Dalai Lama" quale responsabile dei disordini.
LA PROTESTA CONTRO IL GOVERNO DI HU JINTAO
.L’Ue si appella alla Cina ."Rispettate i diritti dei tibetani"
I Ventisette chiedono a Pechino di affrontare con moderazione la repressione della rivolta in Tibet, e di rilasciare gli arrestati. La Francia "no al boicottaggio delle Olimpiadi"
L’Europa fa fronte comune contro il regime comunista di Pechino, e si appella alla Cina, perchè affronti con moderazione la repressione della rivolta dei monaci tibetani, che nelle ultime ore ha raggiunto toni più gravi.
I capi di Stato e di Governo dei Ventisette riuniti oggi a Bruxelles per il consueto vertice europeo di primavera hanno approvato un testo di risoluzione messo a punto dalla presidenza di turno slovena, che chiede a Pechino il rilascio delle persone arrestate e, soprattutto, il rispetto dei diritti umani. «Gli ultimi sviluppi in Tibet preoccupano molto l’Italia e l’Unione europea» ha dichiarato il ministro degli esteri Massimo D’Alema, che ha poi voluto sottolineare la distanza di questi episodi con le proteste avvenute in Birmania lo scorso anno.
Gli ha fatto eco il collega francese Bernard Kouchner, che ha precisato che «la condanna è forte, poichè proviene dal Consiglio europeo nel suo insieme e dai 27 Paesi membri». Nel testo i Ventisette chiedono alla Cina di porre fine alla repressione, di avere rispetto dei diritti dei tibetani e delle loro tradizioni, ma non fanno alcun riferimento ai giochi olimpici che si svolgeranno la prossima estate. Nei prossimi giorni, ha spiegato il premier sloveno Janez Jansa (nella foto), la presidenza di turno dell’Ue chiederà alla Cina di «prendere in conssiderazione la situazione in Tibet dal punto di vista dei diritti umani» e inviterà le autorità cinesi al dialogo con la comunità tibetana».
Anche di fronte all’infiammarsi delle proteste nella capitale tibetana, Kouchner ha escluso la possibilità di boicottare i giochi olimpici di Pechino: «la Francia è contraria» ha ribattuto a chiare lettere. Ma a Bruxelles c’è chi inizia a credere che un blocco possa essere «l’unica soluzione possibile» a porre un freno agli episodi di violenza e ai comportamenti non democratici del governo di Hu Jintao. «Non possiamo più accettare episodi che evidenziano l’assoluta indifferenza a qualsiasi forma di dialogo del regime comunista» ha dichiarato in serata il vicepresidente del Parlamento europeo Mario Mauro (Pdl), che, nell’unirsi all’appello del Dalai Lama - «stop all’uso della violenza» - ha definito «sconsiderata e antidemocratica» la reazione delle autorità cinesi.
* La Stampa, 14/3/2008
E’ scoppiata con una furia cieca nel centro della città dopo le proteste
dei giorni scorsi intorno ai monasteri. La repressione su cittadini e monaci
Lhasa, la rivolta dei tibetani
vissuta con gli esuli in India
Nella città di confine gli altoparlanti rimandano le drammatiche notizie
"Hanno sentito l’esercito sparare". Ecco la ricostruzione degli incidenti
di RAIMONDO BULTRINI *
DHARAMSALA - Le notizie della rivolta e delle repressioni provenienti dal Tibet vengono diffuse dagli altoparlanti tra la comunità degli esuli a Dharamsala, in territorio indiano. Altre arrivano da Phuntsok Wangchuk, il segretario generale di Gu Chu Sum, l’associazione degli ex prigionieri politici esiliati dopo le rivolte anticinesi di vent’anni fa.
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Dopo giorni di proteste dei grandi centri religiosi attorno a Lhasa - come Drepung, Sera e Ganden in queste ore sigillati dalla polizia - oggi è stato il popolo laico a scendere in piazza, mentre i religiosi sono bloccati nei monasteri circondati dalla polizia e stanno effettuando un massiccio sciopero della fame. Le prime proteste al mattino sono avvenute al mercato Tromsikhang, costruito di recente nel Jockang, cuore di Lhasa e luogo più sacro della città. Una folla inferocita ha dato alle fiamme negozi e banchi, senza prendersi cura che le fiamme devastassero anche le attività commerciali dei pochi tibetani e musulmani Hui che fanno affari fianco a fianco coi cinesi, la grande maggioranza.
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Poi sono giunti in città a protestare i monaci del tempio di Ramoche, e a loro si sono uniti altri cittadini. "Non abbiamo notizie dirette dell’intervento della polizia - dice Puntsok -. Quello che sappiamo è ciò che ci hanno detto da Lhasa, la gente ha sentito molti colpi di arma da fuoco e qualcuno ha visto persone ferite in strada".
Notizie analoghe giungono dai siti web dei tibetani in esilio. Manifestazioni sono ancora in corso non solo a Lhasa ma anche a Nyangra, un villaggio a 50 chilometri dalla capitale dove una gran parte della popolazione è scesa in strada per difendere i monaci del vicino monastero di Sera.
Phuntsok riferisce anche delle proteste dei monaci del tempio di Labrang, un altro grande monastero dell’Amdo, mentre gli altri gruppi del dissenso parlano di cortei nelle strade di Sangchu Conty Kanlho, nella Prefettura autonoma tibetana. E’ un susseguirsi di informazioni che lasciano i tibetani di Dharamsala col fiato sospeso.
A far esplodere tutto in Tibet, dopo vent’anni dall’ultima grande manifestazione di piazza a Lhasa, non è stato un aumento dei prezzi come in Birmania nel settembre scorso. A dare il coraggio ai tibetani di manifestare tutta la propria frustrazione e rabbia è stato soprattutto il testo del discorso che il loro leader spirituale, il Dalai Lama, ha diffuso alla vigilia della ricorrenza del 10 marzo. "Da sessant’anni i tibetani continuano a vivere in un clima di paura, intimidazione e sospetto", aveva dichiarato, aggungendo che "la repressione cinese aumenta con numerose, inimmaginabili e massicce violazioni dei diritti umani".
Tibet in fiamme, morti a Lhasa
Il Dalai Lama: non usare la forza
Lhasa è in fiamme. La protesta dei monaci buddisti contro l’occupazione cinese del Tibet è degenerata in violenti scontri. Numerose testimonianze parlano di morti nelle strade e negli ospedali della capitale tibetana. Difficile avere notizie certe. Poche le immagini filtrate nel resto del mondo attraverso la censura di Pechino: nelle foto si vedono negozi ed auto in fiamme, polizia nelle strade, alte colonne di fumo. Radio Free Asia, citando testimoni a Lhasa, ha parlato di almeno due morti nel centro storico della città, affermando che la polizia cinese ha sparato sui manifestanti tibetani.
La situazione sarebbe degenerata quando un migliaio di persone hanno cominciato a tirare sassi contro le forze dell’ordine ed i loro mezzi, e hanno dato alle fiamme negozi di proprietà di cinesi. La città è stata chiusa agli stranieri.
L’agenzia Nuova Cina si è limitata ad affermare che «ci sono dei feriti, che sono stati ricoverati in ospedale». Ma la tensione dilaga in tutta la Regione. La polizia ha impedito con la forza ai monaci del monastero di Ramoche di tenere una manifestazione. Attivisti della "Free Tibet Campaign" riferiscono che «alcuni» monaci di un altro monastero, quello di Sera, sono da giovedì in sciopero della fame per chiedere la liberazione dei loro compagni arrestati nei giorni scorsi, che sarebbero decine.
Sempre secondo Radio Free Asia molti monaci stanno compiendo gesti di autolesionismo per marcare la loro protesta: in due si sarebbero tagliati le vene. Il Dalai Lama, dal suo esilio, lancia un appello al governo cinese chiedendo di «rinunciare all’uso della forza».
Le proteste sono iniziate in due monasteri di Lhasa, Sera e Drepung, lunedì scorso, anniversario della rivolta non-violenta del 1959 contro l’occupazione cinese, e giovedì hanno raggiunto anche quello di Ganden, secondo Rfa e l’associazione britannica Campagna internazionale per il Tibet (Ict). I tre monasteri, che sono di grande importanza storica e vengono chiamati «I pilastri del Tibet», sono circondati dalla polizia militare.
Gli incidenti avvengono anche alla vigilia della nomina del nuovo governo cinese da parte dell’Assemblea Nazionale del Popolo, il Parlamento, e a cinque mesi dall’inizio delle Olimpiadi di Pechino.
L’Unione europea ha chiesto alla Cina «moderazione» nei confronti dei manifestanti e il rilascio degli arreastati. Gli Stati Uniti hanno espresso «rammarico» per le violenze ed hanno richiamato la Cina al «rispetto della cultura tibetana».
* l’Unità, Pubblicato il: 14.03.08, Modificato il: 14.03.08 alle ore 17.46