La trappola di Teheran e le mosse dell’Europa
di GUIDO RAMPOLDI (la Repubblica, 31.03.2007)
Incolto ma pio, il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad probabilmente conosce quel mistico persiano, Rumi, che già nel Duecento descriveva nei termini propri il fenomeno da un secolo noto a noi occidentali come "l’eterogenesi dei fini»: «Do la caccia a un cervo e mi trovo inseguito da un cinghiale. Scavo buche per intrappolare altri e ci cado dentro. Dovrei sospettare dei miei piani». Lo scontro che oppone con intensità crescente l’Iran e l’Occidente, innanzitutto i britannici e gli americani, sembra iscritto nel segno di quello scavare trappole e caderci dentro. In quest’arte è maestro il presidente Bush, colui che invase l’Iraq anche con l’idea di far saltare il regime degli ayatollah. E che oggi non sa come fronteggiare l’attivismo dei servizi segreti iraniani in Mesopotamia. Ma Ahmadinejad appartiene alla stessa scuola.
Agevolato dagli errori americani e dalla disponibilità di 40 miliardi di dollari da introiti petroliferi non previsti, il presidente era nelle condizioni di fare dell’Iran la prima potenza della regione. Invece continua a inciampare nei propri lacci. Poteva avviare con gli Stati Uniti quel Grand Bargain, o negoziato globale, dal quale Teheran aveva tutto da guadagnare: e invece si trova due portaerei americane di fronte alle coste.
Poteva ottenere l’accesso alla tecnologia essenziale alla sua industria petrolifera: e invece ha attirato sull’Iran nuove sanzioni Onu, più affilate delle precedenti. Poteva rompere il tenue fronte occidentale: pare riuscito a ricomporlo scavando, con la cattura di quindici marinai britannici, una trappola in cui anche l’Iran rischia di restare imprigionato. Astraendo dalla sorte di quei quindici europei potremmo perfino rallegrarci che il pericoloso Ahmadinejad giochi così male le sue carte. Ma se consideriamo l’accusa che ormai gli rivolgono perfino giornali del khomeinismo duro, «avventurismo», c’è da preoccuparsi. Un avventurista non può arretrare senza smascherarsi. E se anche il suo avversario è debole e gioca d’azzardo con gli strumenti militari, caratteristiche che attengono alla presidenza Bush, i rischi d’una conflagrazione aumentano in modo esponenziale.
Starà anche all’Europa evitare che nell’ultima buca scavata da Ahmadinejad ci finiscano tutti. Londra ha mostrato in questi frangenti lucidità e nervi saldi; e la solidarietà che le ha espresso l’Unione europea non sembra solo di facciata. Ma per concludere che l’Europa c’è e pesa dovremo capire come finirà questa "crisi degli ostaggi" forse appena agli inizi. La plateale esibizione dei prigionieri da parte della tv iraniana non aiuta a sperare in un negoziato sotterraneo breve e risolutivo. Semmai sembra abbozzare un’operazione di propaganda, ambiziosa e priva di remore, per umiliare Londra, gli anglosassoni, gli occidentali in genere.
Spacciando per debolezza la loro impotenza, il regime riuscirebbe a compiacere sia il nazionalismo persiano, tuttora restio a perdonare ai britannici il colpo di Stato del 1953 e la brutale eliminazione del premier Mossadeq, sia gli estremismi arabi, che hanno trovato in Ahmadinejad un nuovo vendicatore. E se l’Occidente chiamasse il mondo a condannare la "confessione" estorta alla soldatessa Turney per quel che è, una brutale violazione della Convenzione di Ginevra, Teheran potrebbe agevolmente ricordare che Ginevra è già finita sotto gli stivali della Coalizione dei volenterosi, a Falluja, ad Abu Ghraib, a Guantanamo. Perfino l’esibizione dei prigionieri di guerra apparteneva al repertorio "iracheno", sia pure in forme meno vili.
Quanto più la crisi incancrenisse, tanto più aumenterebbero le probabilità, al momento remote, d’una reazione muscolare alla sfida iraniana. Ma Ahmadinejad non sembra affatto impressionato dall’eventualità che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna lancino sull’Iran l’attacco militare minacciato dai primi e paventato dai secondi. Innanzitutto perché non pare facile distruggere gli impianti coinvolti nel programma nucleare iraniano. Inoltre Teheran ha predisposto da tempo gli strumenti per la «rappresaglia asimmetrica» che ha promesso. In Iraq come in Afghanistan, milizie oggi "dormienti" probabilmente entrerebbero in scena. Hezbollah metterebbe mano ai missili. Tutta la regione ribollirebbe. E Ahmadinejad diventerebbe un "presidente di guerra", un condottiero, ruolo non privo di vantaggi (a Bush ha reso la rielezione).
Eppure la partita che l’iraniano sta giocando non è per lui priva di rischi. E anzi, un’Europa giudiziosa, consapevole che la "diplomazia delle cannoniere" è finita, potrebbe vedere Ahmadinejad intrappolato nella propria trappola. Le sanzioni decise dal Consiglio di sicurezza all’indomani della cattura dei marinai britannici colpiscono con durezza gli interessi forti che tengono ancora insieme l’establishment iraniano. E confermano a molti, potenti e facoltosi, che l’»avventurismo» di Ahmadinejad porta solo guai. A meno d’una escalation militare che darebbe mano libera al presidente, queste ostilità sembrano destinate a crescere.
Il regime è fratturato. Lo era già all’indomani dell’elezione di Ahmadinejad, quando un parlamento in teoria "conservatore" come lui gli bocciò un ministro ogni cinque, in particolare quelli destinati ai dicasteri cruciali, gli Esteri e l’influentissimo ministero del Petrolio.
Come in ogni autoritarismo petrolifero c’è in Iran un blocco di potere consolidato che non intende lasciare il passo ai "rivoluzionari". Diffida dell’ideologia che minaccia l’economia, del puritanesimo che attenta alla ricchezza più o meno lecita, delle avventure che disturbano gli affari.
Parte di questo establishment (soprattutto l’apparato militare, legato ai Pasdaran) è stata determinante nell’elezione di Ahmadinejad e gli è rimasta legata. Ma in dicembre i potentati iraniani hanno visto il presidente perdere male le amministrative e precipitare nei pronostici, soprattutto a causa dell’andamento dell’economia. L’inflazione è aumentata, la disoccupazione non è diminuita, gli introiti offerti dal petrolio non sono arrivati all’elettorato in una forma soddisfacente. In giugno 50 autorevoli economisti hanno accusato Ahmadinejad di essere un incompetente. Se una guerra non l’aiuta, difficile possa risalire la china.
Per nostra buona fortuna una guerra non pare nell’aria. Ma non pareva nell’aria neppure nel 1913. E anzi, chi oggi rilegga i carteggi intercorsi tra le Case reali europee alla vigilia della prima guerra mondiale non può non trovare stupefacenti i sentimenti amichevoli e le aspirazioni alla pace espressi da sovrani che di lì a poco avrebbero lanciato le loro armate nel conflitto più sanguinario e rovinoso mai combattuto prima. Al dunque quella consorteria di teste coronate finì, senza averne alcuna intenzione e quasi per forza inerziale, dentro il disastro che avrebbe volentieri evitato.
Oggi il sistema delle relazioni internazionali prevede strumenti abbastanza raffinati per evitare guerre casuali, e vie d’uscita che prima non erano contemplate. Ma tuttora la somma di un vecchio ordine che non tiene più, egemonie in crisi, deliri di potenza e clamorose inettitudini di governanti, può produrre miscele tra le più esplosive. Cerchiamo di non dimenticarlo.