La polveriera mediorientale di GUIDO RAMPOLDI*
ANCORA tre anni fa la regione che va dal fiume Indo alla città di Gaza pareva avviata, nei piani e negli auspici dell’amministrazione Bush, ad una trasformazione pacifica verso la democrazia e la cooperazione internazionale. Ieri sera quella stessa area sembrava in preda ad una di quelle convulsioni generali con le quali la storia abroga un ordine decrepito e prepara i sommovimenti grandiosi e cruenti che segneranno la nascita del nuovo. L’epicentro dello scossone era il confine tormentato tra Israele e il Libano, lì dove il movimento sciita Hezbollah, filo-siriano e soprattutto filo-iraniano, ieri ha rapito due soldati di Tshahal. Hezbollah ha annunciato che la vita dei due ostaggi era negoziabile con la libertà di palestinesi detenuti in Israele. Il governo di Ehud Olmert l’ha considerato un atto di guerra ed ha risposto di conseguenza: con operazioni militari in territorio libanese per scovare e liberare i due prigionieri. Ma a sera Israele non era riuscito nel suo progetto. Si trovava anzi risucchiata in una mischia cruenta e sotto un doppio scacco, ricattata sia da Hezbollah sia da Hamas, che da giorni nasconde un terzo soldato israeliano, anch’egli ostaggio negoziabile.
Origine d’un braccio di ferro pericoloso perché di difficile soluzione, il rapimento dei due soldati forse non appartiene soltanto alla sempre più concitata dinamica del conflitto israelo-palestinese, ma potrebbe rimandare all’attivismo dell’Iran, subentrato ai siriani nel ruolo di primo sponsor di Hezbollah. Da tempo il presidente iraniano Ahmadinejad si prospetta ai palestinesi come il loro vero protettore, e l’unico in grado di vendicarli con le sue atomiche al momento virtuali. Questa retorica ha reso Ahmadinejad enormemente popolare in Medio Oriente, molto più di quanto non lo sia in patria; da tempo ha soppiantato Osama bin Laden nei cuori dell’estremismo arabo. Il colpo messo a segno ieri da Hezbollah giova alla sua influenza nell’area.
Che la milizia dei libanesi sciiti abbia agito o no su richiesta di Hamas, l’intromissione le permette di accrescere il proprio credito nel West Bank e a Gaza, soprattutto a detrimento del presidente dell’Autorità palestinese, il saggio e solitario Abu Mazen. Le voci sulle possibili dimissioni di quest’ultimo ieri sera pareva quasi confermare che gli spazi per la politica e la ragionevolezza ormai sono minimi.
L’intera regione sembra quasi rassegnata a questa deriva raggelante. Malgrado si sforzi di fermare la guerra civile, domenica a Bagdad è successo qualcosa di incredibile perfino per gli standard dell’orrore iracheno. In seguito ad un attentato contro una moschea sciita, una grossa milizia, presumibilmente anch’essa sciita, per cinque ore ha preso il controllo d’un quartiere, stabilito posti di blocco e assassinato una cinquantina di giovani, la cui unica colpa era d’avere un nome sunnita.
Accadeva nella capitale, a pochi minuti di macchina dalla "Zona verde", il quartiere fortificato dove si riunisce il governo iracheno, ultimo simulacro della nazione. Durante quelle cinque ore nessuno è intervenuto per fermare la strage. Né la polizia né i soldati americani. Se queste sono le forze che dovrebbero fermare la guerra civile, si può dare per certo che ormai non vi sia più alcuna possibilità di evitare la spartizione etnica - provincia per provincia, distretto per distretto, quartiere per quartiere - dell’Iraq quasi defunto.
Anche di questa partita l’Iran è il grande vincitore. Teheran ha strumenti affilati per rafforzare la propria influenza su una fetta della Mesopotamia, e può ragionevolmente progettare di cacciarne a pedate gli Stati Uniti. Ha smascherato il penoso bluff dell’amministrazione Bush, che per tre anni ha finto di studiare un attacco militare quando invece non ne aveva alcuna intenzione, e adesso ride in faccia agli occidentali, che a giorni alterni intimano o supplicano Ahmadinejad di accettare un compromesso sul nucleare. Ma se l’eccesso di fiducia del regime divenisse scoperta tracotanza, Washington finirebbe per reagire, per una irrevocabile questione di prestigio.
E poi l’Afghanistan, dove gli aiuti pakistani e gli errori americani hanno permesso ai Taliban di rientrare in gioco. E il Pakistan, sempre più tentato dal vecchio trucco, rovesciare oltreconfine le proprie tensioni interne per evitare d’implodere. E l’India, l’altro ieri insanguinata da sette bombe su altrettanti treni di Bombay. Ma la grande convulsione che percorre la terra dell’islam e del petrolio dal Mediterraneo fino al Punjab non riesce a impaurire davvero l’elefante indiano. Malgrado gli attentati, ieri la Borsa indiana guadagnava il 3%. Le ragioni erano tecniche, ma quella flemma sorprendente (dopo decine di morti, quale mercato finanziario avrebbe reagito allo stesso modo?) pareva quasi rappresentare la serenità con la quale i nuovi protagonisti della storia assistono alle convulsioni del vecchio ordine. Un ordine nel quale americani ed europei fino a ieri erano in varia misura influenti, decisivi. Adesso sembrano soprattutto impotenti. Non sanno più cosa fare. E non hanno molte idee con cui rimpiazzare quella trovata bushiana che s’intitolava "il Grande Medio Oriente". Prometteva un contagio democratico da Gaza a Teheran. Non è andata in quel modo. (13 luglio 2006)
___
* www.repubblica.it, 13.07.2006
Che senso hanno queste guerre che nessuno vincerà mai? di Franco Berardi Bifo (Liberazione, 11.07.2006)
Il dibattito che si sta svolgendo in questi giorni sulla questione del rifinanziamento della missione in Afghanistan non può esaurirsi con la decisione parlamentare condizionata dal ricatto politico della destra, né ridursi al problema di ritirare le truppe dall’Afghanistan, chiudendo gli occhi davanti alla catastrofe umanitaria che venticinque anni di guerra hanno provocato. Il problema che oggi si pone con urgenza è quello di comprendere la natura della guerra iniziata dopo l’11 settembre del 2001 e di indicare una via d’uscita se questo è possibile.
Nella guerra afgana come in quella irachena è contenuto un paradigma di devastazione originale rispetto alla storia delle guerre moderne. Le guerre moderne erano decise, provocate e condotte da stati nazionali o da coalizioni di stati che si proponevano di vincere per imporre un nuovo ordine, di espandere il loro territorio e così via. Ora non è più così. Quando il presidente americano dichiarò che la sua guerra aveva carattere preventivo e infinito, intendeva che questa guerra non è combattuta per vincere ma per rendere possibile una devastazione e una rapina illimitata nello spazio e nel tempo.
Qui sta la novità della guerra interminabile iniziata in Afghanistan e continuata in Iraq: essa non ha come finalità la vittoria di uno Stato e la sconfitta di un altro, ma la devastazione progressiva dell’intero pianeta.
Le agenzie che dirigono effettivamente queste guerre sono corporation private il cui scopo non è la vittoria politica né l’espansione territoriale, ma l’estorsione di immensi profitti in cambio della fornitura di servizi militari (scadenti) e servizi civili di ricostruzione di ciò che viene incessantemente distrutto.
Le agenzie tradizionali della politica imperialista (gli stati nazionali, le coalizioni e gli organismi internazionali) hanno avviato la procedura politica della guerra, ma il vero soggetto dell’azione aggressiva sono corporation private come Halliburton Exxon, Parson, Bechtel, che non hanno alcun interesse alla vittoria militare e politica dell’Occidente, ma solo la finalità di sfruttare le risorse dei paesi aggrediti e le commesse multimiliardarie pagate dai contribuenti degli stati occidentali.
Queste agenzie private sono state incaricate di fornire servizi militari e civili di alta qualità al minimo costo. In effetti hanno fornito servizi di bassa qualità al minimo costo, e questo comincia ad apparire evidente, al punto che la stampa americana di ispirazione nazionalista e democratica denuncia il sabotaggio della guerra al terrore da parte di gente come Rumsfeld. Il problema è che Rumsfeld e compagnia non si sono mai posti l’obiettivo di vincere questa guerra, ma solo di aprire una fase infinita di devastazione e di appropriazione armata. A loro non importa nulla se decine di migliaia di soldati americani e britannici tornano a casa mutilati e distrutti, se decine di migliaia di civili irakeni muoiono sotto le bombe, e neppure gli importa che l’Occidente perda l’egemonia strategica in Medio Oriente, e che il terrorismo integralista moltiplichi le sue forze. Quel che importa ai funzionari delle corporation è aumentare i loro profitti anche se per ridurre i costi indeboliscono lo stesso fronte militare.
Il risultato è la più straordinaria disfatta strategica dell’Occidente, il potenziamento del terrorismo integralista, la proliferazione dell’armamento nucleare, e perfino il declino strategico del capitalismo americano.
Il consenso politico e la crescita economica o nazionale mondiale si fondano ormai sul terrore. L’utopia di un’economia dell’intelligenza che aveva permesso negli anni ‘90 un’alleanza tra capitale ricombinante e lavoro cognitivo ha lasciato il passo a un’economia psicopatica la cui unica finalità è appropriarsi delle residue risorse del pianeta escludendone la maggioranza dell’umanità.
E’ significativo a questo proposito un documento della Halliburton che propone la creazione di servizi per la difesa dell’elite internazionale in caso di crollo degli ecosistemi globali (vedi http: //www. halliburtoncontracts. com/about/)
La presidenza Bush sarà ricordata (ammesso che nel futuro ci sia qualcuno capace di ricordare), non solo per avere distrutto l’eredità dell’universalismo illuminista borghese, le garanzie civili e politiche di cui l’Occidente è stato a lungo l’alfiere, ma anche per aver corroso le basi dell’egemonia politica degli Stati Uniti d’America aprendo la strada al fascismo integralista islamico e al totalitarismo schiavista cinese, due potenze emergenti che negano alla radice il patrimonio sociale e politico del progresso della libertà e della solidarietà. Per il futuro della civiltà umana queste due potenze rappresentano un pericolo paragonabile a quello che fu il nazismo, ma purtroppo hanno una base sociale molte volte più estesa e una radice storica ben più profonda. Il patrimonio dell’universalismo moderno è oggi smantellato sotto i nostri occhi: l’eredità che discende dall’Umanesimo, dall’Illuminismo e dal socialismo, attivamente contrastata dall’intolleranza integralista, ignorata dallo schiavismo totalitario cinese sembra essere ormai abbandonata anche dall’occidente democratico.
L’Europa non può limitarsi a difendere quel che resta di quel patrimonio e di quell’eredità. Occorre ripensare entro condizioni tecniche culturali e produttive completamente mutate il significato e la prospettiva dell’universalismo, occorre agire per sgretolare l’alleanza paradossale di ultraliberismo integralismo e schiavismo che in questi anni si va delineando.
L’alternativa è rassegnarsi alla violenza generalizzata, allo schiavismo e alla barbarie, all’estinzione di ciò che abbiamo imparato a considerare umano.
Questo mi pare il contenuto profondo della discussione sul finanziamento della guerra in Afghanistan, al di là dell’attuale scadenza parlamentare.
Il senso di queste guerre mi sembra abbastanza palese: assicurare la pace, la tranquillità all’occidente, e cioè a noi. E poi chi se ne frega della Palestina, degli iracheni, degli afghani... l’11 settembre 2001 una rete terroristica ci ha dichiarato guerra e noi la stiamo conducendo, naturalmente non sul nostro suolo, come avrebbero desiderato, ma sulla loro terra, sulla pelle della loro gente ! Mors tua vita mea ! Oramai la guerra convenzionale è finita, mettiamocelo bene in testa; dopo il crollo delle due torri americane è nata una nuova guerra, la guerra post-moderna, post-convenzionale, segreta, senza esclusioni di colpi, dove il diritto internazionale e la Convenzione di Ginevra vanno a farsi benedire. La lotta al terrosismo non può conoscere regole, perchè il terrorista regole non ne ha !
E allora dovremmo capire tutti quanti che il discorso della morte non può essere più accettabile. Abbiamo bisogno di scommettere su un nuovo, un secondo rinascimento della cultura, della scienza, dell’arte, come proposto più di trent’anni fa da Armando Verdiglione. È tempo che si proclami la guerra intellettuale, altrimenti saremo condannati a perpetuare il massacro dell’uomo sull’uomo. Eliminiamo anche il pacifismo, perchè appartiene pur sempre al discorso della guerra !
Dal due (tanto caro al nostro Prof. La Sala), in latino duo, deriva duellum e poi bellum. La guerra è sempre lotta armata fra Due Io, due Assoluti (il Bene e il Male), ma è l’odio che la fa da padrone in questo "rapporto". Ma qui siamo tentati di precipitare nel manicheismo, nelle complicazioni che inevitabilmente derivano dall’eventuale esistenza dei due principi, del Principe appunto del bene e dell’altro del male...
Ben vengano allora le guerre intellettuali fra Vattimo e Ratzinger, fra i filosofi, i politici, i professori e i teologi... In greco, ricordiamolo, guerra è polemos, che a me piace tanto tradurre in polemica, dibattito, dialettica, confronto, dialogo.