INTERVISTA
«Non conviene a nessuno creare un altro Iraq in Iran, pagherebbero solo i poveri». Parla Shirin Ebadi, Nobel per la pace
Islam: spegnete i fuochi di guerra
«I capi di Stato discutono tra loro a porte chiuse, invece il dialogo va portato tra la gente: quando si combatte sono i suoi figli a morire, per questo i popoli devono parlarsi»
Da Roma Paola Springhetti (Avvenire, 20.09.2006)
«Il Papa ha spiegato chiaramente che non intendeva offendere né Maometto né l’islam. Per me l’equivoco è stato chiarito, la storia finisce qui. Anzi, credo sia un dovere di voi giornalisti contribuire a spegnere questi fuochi». Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace 2003, non ha voglia di parlare dell’equivoco che ha causato focose reazioni in molti Paesi musulmani. È in Italia per presentare il libro in cui racconta la sua autobiografia di donna magistrato, cui la rivoluzione di Khomeini ha tolto il lavoro e i diritti, ma che non per questo si è rassegnata, cominciando anzi una battaglia per i diritti delle persone, e in particolare delle donne, nella convinzione che, se correttamente interpretato, il Corano non è affatto inconciliabile con la libertà, la pace e il rispetto dei diritti (il titolo è Il mio Iran, Sperling & Kupfer, pp. 294, euro 17). Ed è di questo che ha voglia di parlare, della battaglia non ha mai abbandonato nonostante le minacce di morte e la prigione, e della convinzione che un dialogo tra Occidente e Oriente sia possibile, nonostante le difficoltà e le incomprensioni. «I capi di Stato parlano tra loro a porte chiuse, così come i capi religiosi. Invece il dialogo va portato tra la gente, e il miglior posto per farlo è l’università».
Quella di Teheran è sempre stata un luogo di fermenti culturali, ma a parte gli studenti, che periodicamente scendono in piazza a manifestare, c’è una società civile pronta al dialogo?
«Il popolo è per il dialogo. Con le altre donne vincitrici del premio Nobel abbiamo dato vita alla Women Nobel Iniziative, che ha sede ad Ottawa. Tra l’altro abbiamo organizzato un incontro tra 5 ong americane e 5 iraniane, a maggio in Austria. Per tre giorni hanno discusso di come ristabilire una comunicazione tra gli Usa e il mio Paese. Quando scoppia una guerra sono i figli del popolo ad essere uccisi, non i figli del presidente, ed è il popolo che paga le spese. Per questo sono i popoli che devono decidere della pace e della g uerra, e per questo i popoli devono parlarsi».
Da quando è diventato presidente Ahmadinejad, la situazione è migliorata o è peggiorata?
«La censura è più forte: molti siti internet sono filtrati, alcuni giornali sono stati chiusi, altri hanno subito attentati. Ed è strano che quando viene attaccato un giornale nessun colpevole venga mai arrestato».
Qualche settimana fa anche la sua Fondazione per i Diritti umani è stata dichiarata illegale.
«Ho creato il centro 6 anni fa con altri avvocati: offriamo il patrocinio gratuito ai prigionieri politici (che sono il 70% dei carcerati); aiutiamo le famiglie; ogni tre mesi presentiamo alla stampa alcuni casi particolarmente significativi. Ci hanno accusato di fare un’attività illegale perché la Fondazione non è registrata. Ma noi abbiamo tutti i requisiti: sono loro che non ci registrano, né ci danno un rifiuto scritto. Dunque, noi andiamo avanti, perché sono loro ad essere nell’illegalità».
Crede che il suo Paese voglia davvero continuare sulla strada del nucleare fino ad avere la bomba atomica?
«Non rappresento il governo, né conosco quello che si dicono a porte chiuse. So però che nessun Paese al mondo ha bisogno della bomba atomica, e che anzi bisognerebbe distruggere tutte quelle che ci sono, in Pakistan, in America, in Israele, ovunque siano».
Eppure, se su questo tema non si troverà un accordo, che per ora sembra lontano, si rischia un nuovo conflitto.
«Un attacco militare all’Iran avrebbe conseguenze gravissime su tutta la zona: non credo sia conveniente creare un altro Iraq. Le sanzioni economiche non distruggerebbero l’Iran, perché ha abbastanza petrolio per sopravvivere, e perché probabilmente Cina e Russia aggirerebbero le sanzioni. Pagherebbero solo i poveri, che diventerebbero ancora più poveri. C’è un’unica strada percorribile, ed è quella del dialogo».
Nel campo dei diritti delle donne, sono stati fatti passi avanti nel suo Paese?
«Le leggi devono andare d’accordo con la situazione sociale del Paese, e invece in Iraq sono rimaste indietro. Anche se il 65% degli studenti universitari sono donne, e perfino Ahmadinejad, che rappresenta i nostri integralisti, ha un vicepresidente donna, le leggi restano profondamente discriminatorie. La vita di una donna vale la metà di quella di un uomo, ed è ancora possibile per un uomo avere 4 mogli. Però c’è un movimento femminista molto forte, che negli ultimi anni ha ottenuto dei risultati, sul piano legislativo. Ma vogliamo molto di più. Abbiamo avviato una raccolta di firme per chiedere l’eliminazione di tutte le discriminazioni. Vogliamo raccoglierne un milione, di donne e di uomini, e andiamo a cercarle bussando porta a porta, e raggiungendo anche i villaggi più sperduti».
Dopo che le hanno conferito il Nobel, è più libera di lavorare?
«Recentemente mi hanno nuovamente minacciata di arresto. Vengo dall’America, dove giorni fa mi hanno conferito una laurea honoris causa. È la ventesima che ricevo, da Paesi europei, dall’Australia, dalla Turchia, dagli Usa. Ma quando mi hanno dato il Nobel, l’università dove mi sono laureata, a Teheran, ha proibito agli studenti di festeggiare. Lavorare per i diritti umani in Iran non è facile, ma non smetto».
MOTIVAZIONE PER IL PREMIO NOBEL PER LA PACE A SHIRIN EBADI (2003):
«Il Comitato del Nobel è lieto di premiare una donna che fa parte del mondo musulmano. Una donna che non vede conflitto fra l’Islam e i diritti umani fondamentali. Per lei è importante che il dialogo fra culture e religioni differenti del mondo possa partire da valori condivisi. La sua arena principale è la battaglia per i diritti umani fondamentali, e nessuna società merita di essere definita civilizzata, se i diritti delle donne e dei bambini non vengono rispettati.
È un piacere per il comitato norvegese per il Nobel assegnare il Premio per la Pace a una donna che è parte del mondo musulmano, e di cui questo mondo può essere fiero, insieme con tutti coloro che combattono per i diritti umani, dovunque vivano»
La ragazza del hijab bianco
Capelli al vento contro i religiosi a decine come Vida in piazza in Iran
di Francesca Caferri (la Repubblica, 02.02.2018)
Dopo il fermo della donna simbolo delle proteste altre imitano il suo gesto: via il velo obbligatorio
E le immagini viaggiano sulla Rete. Già 29 arresti
C’è la ragazza dai capelli verdi che sale su un muretto e resta lì, immobile, forse protetta da un gruppo di ragazzi. Le amiche che si tengono per mano e si sfilano il velo davanti alla porta chiusa di una moschea. La donna con il chador, coperta da capo a piedi, che sale su una cassetta dell’elettricità e fa ondeggiare nell’aria un fazzoletto: simbolo di una battaglia che non è la sua, ma che sente comunque di difendere. E poi ci sono gli uomini: nelle strade, così come nelle campagne o sulla cima di una montagna. Era iniziata quasi sotto traccia, solo sui social network, più di un anno fa: ma la campagna delle donne iraniane che protestano contro l’obbligo di indossare il velo sui capelli in pubblico negli ultimi giorni è dilagata, diventando il paradigma di un Paese - o di una parte di esso - che nonostante le tante repressioni non ci sta a farsi indicare la strada dai religiosi in ogni aspetto della vita.
Ventinove donne, secondo il calcolo dei social media, sono state arrestate da quando, il 27 dicembre, la 31nne Vida Mohaved è stata fermata nel cuore di Teheran dopo essere salita su una cassetta dell’elettricità ed aver sventolato il suo velo bianco su un bastone. La donna è rimasta per settimane in detenzione ed è stata liberata pochi giorni fa: ma il suo gesto ha acceso un movimento che sta iniziando a infastidire i vertici della Repubblica islamica.
Prova ne è il fatto che la cauzione fissata per la liberazione di alcune delle donne arrestate è altissima per gli standard iraniani. E che due giorni fa anche il procuratore generale della Repubblica, Moahammad Jafar Montazeri è intervenuto per promettere il pugno duro contro le ragazze: «Azioni nate dall’ignoranza», ha detto. « Se credono nell’Islam sanno che per la sharia il velo è obbligatorio».
Ma le minacce non sono servite a fermare le donne: lunedì ne sono state arrestate sei, mercoledì - giorno inizialmente dedicato alla protesta - più di 20.
« Credo che queste proteste proseguiranno: è ovvio che alcune donne vogliono decidere da sole » , dice Nasrin Sotoudeh, la più nota avvocata per i diritti umani in Iran, lei stessa a lungo imprigionata per le sue battaglie. « Siamo stanche che a decidere per noi siano i religiosi: sulla nostra vita così come sul nostro abbigliamento » , commenta da New York Masih Alinejad, 32nne giornalista iraniana in esilio, fondatrice del movimento My Stealthy Freedom che per prima ha lanciato la protesta.
È troppo presto per dire se questo gesto ha la forza di diventare una spina nel fianco reale per il regime iraniano o l’onda è destinata ad esaurirsi presto. Ma il fatto che tante donne abbiano scelto di tornare in piazza sapendo bene di rischiare l’arresto a poche settimane dalle proteste represse di dicembre scorso, che hanno portato in carcere 4mila persone e ne hanno viste 25 morire, è molto significativo.
Il velo che copre i capelli è obbligatorio per le donne in Iran dalla rivoluzione del 1979: fino a qualche mese fa la polizia poteva fermare le donne che non coprivano abbastanza i capelli, ma da poco questi poteri sono stati sensibilmente ridotti, almeno nelle grandi città. A molte iraniane tuttavia questo non basta, come la campagna di questi giorni dimostra.
La rivoluzione silenziosa delle donne contro l’obbligo del velo
Iran. Le donne iraniane rappresentano una forza sociale che ogni giorno combatte per la libertà di scelta, scardinando così un sistema che lentamente sta implodendo
di Farian Sabahi (il manifesto, 31.01.2018)
Rischiano due mesi di carcere e venti euro di multa. È questa la pena per le donne che osano liberare la chioma al vento nella Repubblica islamica dell’Iran, dove il velo è obbligatorio nei luoghi pubblici dal 1980.
Negli anni successivi alla Rivoluzione del 1979 il codice di abbigliamento era severo: nelle università era di norma il maghnaeh che somiglia al velo delle suore perché è cucito in modo da lasciare lo spazio per infilare la testa senza dovere fare il nodo al collo e quindi senza il rischio che scivoli; il maghnaeh era consuetudine anche negli uffici pubblici, dove ad attendere noi donne erano le dipendenti pubbliche munite di detergente per togliere il trucco troppo pesante; il chador era l’abito di ordinanza per i ceti bassi ed era obbligatorio nei mausolei meta di pellegrinaggio: in quello di Masumeh nella città santa di Qum e in quello dell’Imam Reza a Mashhad.
IL VELO È SEMPRE stato l’oggetto della discordia in Iran, basti pensare che nel 1936 lo scià di Persia lo aveva vietato, mettendo in difficoltà tante signore non abituate a mostrarsi agli estranei a capo scoperto. Abolendo il velo, Reza Shah aveva evitato di occuparsi di questioni più significative: gli uomini continuavano a vantare svariati privilegi, come la possibilità di contrarre matrimonio con quattro donne, divorziare a proprio piacimento ed ereditare una quota maggiore rispetto alle sorelle.
Reza Shah fu costretto all’esilio dagli inglesi, nel 1941. Con suo figlio Muhammad Reza Shah, il divieto del velo venne meno e ognuno tornò a vestirsi come voleva: la buona borghesia a capo scoperto, la stragrande maggioranza con il velo nelle sue diverse declinazioni.
Il velo è poi diventato obbligatorio dopo la Rivoluzione del 1979.
In questi quattro decenni il foulard è diventato sempre più striminzito, per mostrare un numero di ciocche di capelli sempre maggiore.
Ma rimane l’obbligo di coprirli almeno in parte con un tessuto. Leggero, trasparente. Poco importa. Ma resta il fatto che il velo resta obbligatorio: per alcune può essere una libera scelta, mentre per altre non lo è. Con un pizzico di solidarietà femminile, ora le iraniane protestano di fronte all’obbligo dell’hejab. Anche le donne che invece lo mettono per libera scelta.
QUELLA delle donne iraniane è così diventata una rivoluzione. Silenziosa, non violenta. Scelgono di indossare il velo bianco, per distinguersi dalle tante che optano, convinte, per il nero. Alcune se lo tolgono, si fanno fotografare, vengono arrestate.
Era successo a Vida Movahed, il 27 dicembre. Trentun anni, un bimbo di 19 mesi, si era tolta il velo in pubblico il giorno prima delle proteste in via Enghelab, la via della Rivoluzione a Teheran. Il giorno dopo era stata arrestata. Domenica è stata rilasciata, a comunicarlo su Facebook è stata il suo avvocato, Nasrin Sotoudeh, nota attivista per i diritti umani.
«La sua liberazione viene attribuita alla pressione internazionale, ma in realtà è la pressione interna che preoccupata le autorità iraniane, anche perché nei giorni scorsi una delegazione parlamentare ha potuto visitare il carcere di Evin, dove si trovano i prigionieri politici», spiega Anna Vanzan, esperta di Iran e docente all’Università Statale di Milano. E aggiunge: «Le donne in Iran rappresentano ormai una forza sociale che, con una protesta silenziosa ma quotidiana, stanno scardinando la presunta monoliticità di un sistema che lentamente - ma inesorabilmente - sta implodendo».
È EFFETTO domino: lunedì mattina un’altra ragazza si è tolta il velo ed è salita su un blocco di cemento. Bene in vista. È stata fotografata per dieci minuti. Poi sono arrivati gli agenti in borghese ad arrestarla. Si chiama Nargues Hosseini. Al polso ha un braccialetto verde, segno che gli iraniani hanno memoria del movimento verde d’opposizione del 2009 e dei suoi leader, agli arresti domiciliari dal 14 febbraio 2011. Il luogo è il solito, significativo: via Enghelab, ovvero via della Rivoluzione. Ieri, la stessa iniziativa è stata presa da altre tre ragazze.
Sui social network circolano le loro foto. Si trovano nella capitale Teheran, per terra c’è la neve. Alcune hanno i capelli scuri, lunghi e mossi. Un’altra li ha corti, colorati di verde. Alcune si tolgono il velo nella capitale, altre a Isfahan, Shiraz e località minori.
LA LORO è una forma di ribellione. Non necessariamente contro il velo, ma contro l’obbligo del velo che dovrebbe essere invece una libera scelta.
Di certo, conclude Anna Vanzan, «eliminare l’obbligatorietà del velo non è una priorità per le iraniane, ma la loro protesta in questo senso diviene simbolica di altre ingiustizie che da anni le donne patiscono e per le quali da anni combattono, come la riforma del codice di famiglia che contiene articoli discriminanti le donne in istituzioni fondamentali quali, per citare i più importanti, il matrimonio, il divorzio e l’affidamento dei figli minori, la ripartizione dell’eredità perché in Iran alle figlie femmine spetta la metà rispetto ai maschi».
Hale Sahabi, atttivista politica dell’opposizione, era la figlia del noto intellettuale iraniano Ezzatollah Sahabi.
E’ morta a Teheran dopo l’aggressione nel corso dei funerali del padre. Aveva avuto un permesso per lasciare il carcere e partecipare alla cerimonia
La “sfida funebre” dell’Onda verde
In Iran l’addio a Sahabi si trasforma in tragedia: negli scontri muore la figlia.
di Siavush Randjbar-Daemi *
Il lutto e la tragedia hanno nuovamente tramortito l’Onda verde iraniana a pochi giorni dal secondo anniversario della sua fondazione. Lunedì sera è spirato, tra la disperazione di molti attivisti, Ezatollah Sahabi, una delle figure più in vista della dissidenza interna. Sahabi rivestì diversi ruoli di primo piano nei governi e nel parlamento dei primi anni Ottanta.
In seguito alla defenestrazione del primo presidente della repubblica islamica Abolhassan Bani-Sadr nel 1981, Sahabi divenne uno degli oppositori interni più tenaci, scontando diversi lunghi periodi di carcere - 15 anni totali, tra regime dello scià e repubblica islamica - ma coraggiosamente portando avanti la propria battaglia politica sino all’indomani delle fatidiche presidenziali del giugno 2009, quando esortò dapprima il popolo a recarsi in massa a votare per i riformisti e poi a scendere in piazza contro l’esito giudicato falsato.
La morte tranquilla di Sahabi, di fatto preannunciata dalla sua grave malattia, è diventata cornice di un’improvvisa tragedia. La figlia del dissidente veterano, Haleh, è stata infatti colpita da un infarto fatale durante le esequie del padre. La 54enne celebre attivista femminista - che si trovava rinchiusa nel carcere di Evin, dove è entrata in seguito ai tumulti del dicembre 2009 - al momento del decesso del padre aveva faticosamente ottenuto un permesso speciale per poter portare un ultimo saluto al genitore.
A nulla sono valsi i tentativi delle autorità di disperdere la vasta folla che si era radunata dinanzi all’abitazione di Sahabi per una cerimonia convocata tramite internet ma priva di qualsiasi autorizzazione.
Secondo l’agenzia di stampa semi-ufficiale Fars, la Sahabi ha avuto un malore naturale. Ma diversi testimoni oculari hanno riferito, tramite i siti riformisti, che Haleh è svenuta in seguito a un alterco con alcuni funzionari di sicurezza, che avrebbero tentato di strapparle dalle mani un ritratto del padre e l’avrebbero colpita allo stomaco. La morte dei due Sahabi ha causato forte commozione all’interno della tuttora vivace comunità che continua a sostenere la causa dei candidati riformisti Mir-Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, che oggi si trovano nel quarto mese dei propri arresti domiciliari.
I fatti di ieri rappresentano un nuovo capitolo nella singolare “sfida funebre” a cui sono soggetti il presidente Mahmoud Ahmadinejad e la Guida suprema Ali Khamenei. Il confino di Mousavi e Karroubi e i timidi e controversi tentativi, sinora senza successo, per la “rappacificazione nazionale” da parte degli ex presidenti Khatami e Rafsanjani hanno infatti convertito i funerali di personalità considerate vicine all’Onda verde in istanze di furente contestazione.
Le esequie di Nasser Hejazi, amato portiere della nazionale iraniana degli anni Settanta nonché aperto critico delle politiche di Ahmadinejad, sono diventate occasione, la settimana scorsa, per una nuova manifestazione improvvisata dei simpatizzanti dell’opposizione, che hanno scandito cori contro i vertici del regime islamico durante la sepoltura di Hejazi. I funerali di Mir-Esmail Mousavi, il padre ultranovantenne dell’ex candidato, si sono pure svolti in un’atmosfera di grande tensione e senza la presenza del figlio.
La tragedia dei Sahabi potrebbe inoltre avere l’effetto di galvanizzare l’opposizione in vista del 12 giugno, anniversario delle controverse elezioni di due anni fa. I principali siti dell’opposizione hanno invitato la popolazione a partecipare a una marcia silenziosa che dovrebbe snodarsi tra due delle principali piazze di Teheran. Rimane da vedere se le forze di sicurezza si asterranno dal compiere azioni che potrebbero ingrossare la lista sempre più lunga dei “martiri” dell’Onda verde che si è venuta a creare sin dal giugno infuocato del 2009.
Siavush Randjbar-Daemi
* Europa, 02.06.2011
Appello di Shirin Ebadi: «L’11 febbraio l’Onda verde in piazza»
I democratici vogliono usare l’anniversario della caduta dello Shah per denunciare il tradimento degli ideali rivoluzionari
di Ga B. (l’Unità, 08.02.2010)
Cresce come una febbre in Iran l’attesa per l’anniversario della rivoluzione khomeinista, che governo ed opposizione si apprestano a celebrare in opposta maniera. Il movimento democratico vuole trasformare la ricorrenza in un’occasione per denunciare il tradimento degli ideali rivoluzionari. Il potere si appresta a reprimere con la forza ogni manifestazione di dissenso.
Il regime cerca pretesti
Un appello ai connazionali affinché giovedì 11 febbraio scendano in piazza ed esprimano la loro esigenza di libertà, è stato rivolto ieri dalla premio Nobel per la pace 2003, Shirin Ebadi. La donna vive all’estero dai giorni delle elezioni presidenziali del giugno scorso. Ha buone ragioni di temere di essere arrestata non appena metta piede in patria.
In un’intervista al giornale britannico Sunday Telegraph, Ebadi, avvocata e fondatrice di un centro per la tutela giuridica delle vittime di abusi e violenze, esorta gli iraniani a «protestare pacificamente». «Penso che tutti dovrebbero partecipare alle dimostrazioni -affermae rivendicare i propri diritti in modo pacifico». La premio Nobel mette anche in guardia verso il fatto, a suo giudizio «evidente, che il regime cerca una scusa per poter intervenire».
Il regime già sta intervenendo.
Sette dissidenti sono stati arrestati ieri cono l’accusa di avere svolto attività sovversive. Alcuni di loro, secondo notizie diffuse dall’agenzia di Stato Irna, avrebbero agito su istruzioni della Cia e avrebbero avuto legami con «i network satellitari sionisti». Vengono loro imputati rapporti con l’emittente americana in lingua farsi Radio Farda. Sono accusati di essere stati «assunti come spie» dagli Stati Uniti e «addestrati a Dubai e a Istanbul».
I pasdaran minacciano
Sui media ufficiali è un susseguirsi di messaggi intimidatori. La notizia degli arresti è impacchettata in un comunicato del ministero dell’intelligence, secondo cui i sette avrebbero svolto un ruolo importante negli incidenti post-elettorali ed in particolare in quelli del giorno dell’Ashura, il 27 dicembre scorso. Il governo sostiene che stavano progettando una sedizione proprio per giovedì prossimo, anniversario della caduta dello shah.
«Le forze di sicurezza si occuperanno di garantire lo svolgimento delle dimostrazioni e affronteranno decisamente chiunque volesse uscire dai binari del percorso rivoluzionario», ha ammonito il comandante delle Guardie rivoluzionarie (Pasdaran), Hossein Hamedani. Secondo Hamedani l’anniversario della rivoluzione «appartiene a tutti i settanta milioni di iraniani e non permetteremo ad alcuno di appropriarsene per gli interessi di un gruppo particolare».
I dirigenti dell’Onda verde non si lasciano intimidire.
Sui siti vicini alle organizzazioni progressiste, i massimi dirigenti del movimento democratico continuano a invitare i seguaci a mobilitarsi per il trentunesimo anniversario della nascita della Repubblica islamica. Sia Mirhossein Mousavi sia Mehdi Karroubi chiedono ai concittadini di esprimere pacificamente la loro protesta nei confronti del regime, degli arresti arbitrari, delle torture.
E mentre il presidente Mahmoud Ahmadinejad sfida il mondo ribadendo l’intenzione di andare avanti con l’arricchimento dell’uranio nei siti atomici nazionali, la Guida suprema Ali Khamenei annuncia l’«imminente» distruzione di Israele. L’ayatollah si dice «molto ottimista sul futuro della Palestina» e ritiene «che l’entità sionista sia sulla strada del tramonto a e del deterioramento. A dio piacendo, la sua distruzione è imminente». ❖
Alla vigilia della risoluzione Onu contro la violazione dei diritti umani in iran
La denuncia di Shirin Ebadi:
«Mi hanno sequestrato il Nobel»
La dissidente all’estero da mesi: «Dicono che devo pagare delle tasse. Sono sotto costante minaccia, ma tornerò»
Dal nostro corrispondente Alessandra Farkas
NEW YORK - «Ho invitato il segretario generale dell’Onu a visitare l’Iran per vedere coi propri occhi il tragico deterioramento delle libertà nel mio Paese». Alla vigilia della risoluzione contro le violazioni dei diritti umani in Iran che l’Assemblea generale Onu si appresta a votare in settimana, Shirin Ebadi abbandona i toni soft per attaccare il regime «che uccide i minorenni, perseguita donne e minoranze religiose e mette all’indice la libertà di parola».
Lei manca dal suo Paese dalle contestatissime elezioni dello scorso giugno.
«Vivo in uno stato di esilio effettivo», spiega l’attivista 62enne, premio Nobel per la Pace nel 2003, in un incontro col Corriere all’Hotel Tudor, a due passi dall’Onu. «Mi hanno confiscato l’appartamento, la pensione che ricevo dal ministero della Giustizia e il conto in banca mio e dei miei famigliari, ormai sotto costante minaccia. E se non bastasse mi hanno sequestrato tutti i premi, incluso il Nobel e la Legion d’Onore».
Ha paura di tornare in Iran?
«Nulla mi spaventa più, anche se minacciano di arrestarmi per evasione fiscale al mio rientro. Sostengono che debbo al governo 410 mila dollari in tasse arretrate per il Nobel: una fandonia visto che la legge fiscale iraniana stabilisce che i premi siano esentasse. Se trattano così una persona ad alto profilo come me, mi chiedo come si comportano di nascosto con uno studente o cittadino qualunque».
Quando ha intenzione di rimpatriare?
«Tornerò, forse accompagnata da Ban Ki-moon, quando avrò finito il mio lavoro all’estero e sarò più utile nel mio Paese. Sono stati i miei colleghi di Teheran a chiedermi di restare: ’Adesso ci sei più utile fuori’, hanno detto. Uno dei miei compiti è perorare la risoluzione Onu che i partner commerciali iraniani vorrebbero bloccare in quanto ’politicizzata’. Un’accusa falsa come dimostra l’ultimo rapporto di Ban Ki-moon: un uomo che non si può certo accusare di parzialità».
A cosa serve una risoluzione puramente simbolica?
«A mettere in guardia il governo di Teheran e a dare al popolo che soffre la conferma che l’Onu è con lui. Bisogna riportare la calma nel Paese e io sento il dovere di intervenire per fermare l’escalation di violenza».
Teme che i media internazionali abbassino la guardia?
«Sì. Migliaia di prigionieri languono in carcere, torturati e stuprati. Nessuno conosce il vero numero delle vittime».
La commissione Onu per i diritti umani a Ginevra fa la sua parte?
«Cerca di farla ma la composizione del consiglio è tale da legargli le mani. Vorrei spingerlo a fare di più perché, lo ripeto, la violazione dei diritti umani nel mio Paese è diventata sistematica e diffusissima. Se la Comunità internazionale tace, il popolo sarà dimenticato ed è proprio ciò che vuole il governo».
L’amministrazione Obama sta facendo abbastanza?
«Non ho ancora incontrato il presidente Obama né i membri della sua amministrazione ma la mia posizione è ben chiara: nel dialogo con l’Iran non si può parlare solo di nucleare, ignorando la questione ben più pressante dei diritti umani. Le due sono interdipendenti».
È ottimista sulla ripresa del dialogo tra Washington e Teheran?
«Obama ha inaugurato un nuovo corso rispetto all’ostile sbarramento di Bush, ma bisogna aspettare per vedere quali decisioni in concreto verranno prese».
È ancora in contatto con i suoi famigliari in Iran?
«Parlo tutti i giorni con mio marito e con i miei colleghi del Centro per la difesa dei diritti umani. No, non sono in contatto con gli esuli iraniani in America e nel resto del mondo: non sono un leader politico né un leader del movimento d’opposizione né loro mi riconoscono come tale. Sono solo un difensore dei diritti umani, un semplice avvocato che difende pro bono i perseguitati politici».
Quando tornerà in Iran avrà molto da fare.
«Ne sono certa e mi preparo già ad accettare tutti i casi che mi capiteranno, coadiuvata da una ventina di illustri colleghi, la maggior parte delle quali donne».
È vero che la rivoluzione estiva è stata guidata dalle donne?
«Basta andare su Youtube per capirlo. Non a caso Neda ne è diventata il simbolo. Tantissime donne sono dietro le sbarre mentre ogni sabato sera il comitato delle Madri in Lutto dell’Iran si riunisce in un parco. Protestano in silenzio, vestite di nero e con le foto dei figli imprigionati o uccisi. Molte città, tra cui Firenze e Venezia, hanno creato comitati di solidarietà analoghi e io mi appello a tutte le donne del mondo perché facciano lo stesso».
* Corriere della Sera, 17 novembre 2009
Iran, la polizia chiude il centro del premio Nobel Ebadi *
La polizia iraniana ha fatto irruzione e chiuso d’autorità il quartier generale del Centro dei Difensori dei Diritti Umani, organizzazione non governativa guidata dall’avvocato Shirin Ebadi, la pacifista e femminista insignita nel 2003 del premio Nobel per la Pace per il suo impegno a favore delle donne, dell’infanzia e dei dissidenti.
Lo ha denunciato la vice di Ebadi, Narges Mohammadi, secondo cui all’operazione hanno preso parte agenti in uniforme di ordinanza ma anche altri in borghese, probabilmente appartenenti dunque ai corpi speciali. «Hanno messo i sigilli al nostro ufficio e ci hanno intimato di sgomberarlo senza opporre resistenza. C’è anche la signora Ebadi», ha precisato.
«Non abbiamo altra scelta che andarcene». Durante l’incursione è stato fatto l’inventario dei beni di proprietà dell’associazione. «Non ci hanno mostrato l’ordine di perquisizione emesso dalla magistratura, ce ne hanno soltanto comunicato il numero di protocollo», ha accusato la militante.
Secondo Mohammadi, diverse decine di poliziotti di rinforzo si erano radunati davanti all’edificio, situato nella parte nord-occidentale della capitale dell’Iran. Proprio domenica il gruppo umanitario avrebbe dovuto celebrare nella sua sede una cerimonia per commemorare, a posteriori, il sessantesimo anniversario della fondazione, caduto il 10 dicembre scorso; quello stesso giorno Ebadi, 61 anni, prima donna di fede musulmana a ricevere il Nobel per la Pace, si trovava a Ginevra, presso il Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, dove pronunciò un discorso con cui si appellò per il riconoscimento di un ruolo più ampio alle Ong nelle attività dell’organismo Onu e di altri enti ufficiali analoghi.
Fondato dalla battagliera avvocatessa insieme a quattro colleghi lo stesso anno in cui le fu conferito il Nobel, il Centro dei Difensori dei Diritti Umani è considerato la principale entità per la tutela delle libertà civili esistente nella Repubblica Islamica; ha difeso sistematicamente innumerevoli oppositori, prigionieri politici, dirigenti dei movimenti studenteschi e personalità perseguitate per la loro lotta a favore della libertà di coscienza. Di recente si è distinto in particolare per l’appello, rivolto al regime degli ayatollah, affinchè siano bloccate le continue esecuzioni di condannati per reati di minore gravità. Il mese scorso, durante un raduno dell’organizzazione, Ebadi attaccò il nuovo codice penale iraniano, sottolineandone il mantenimento delle discriminazioni a danno delle donne e l’interpretazione a suo dire «scorretta» dei principi dell’Islam.
* l’Unità, 21 dicembre 2008
IRAN: POLIZIA CHIUDE SEDE GRUPPO DI SHIRIN EBADI
PERSONALE INVITATO AD USCIRE, UFFICI SIGILLATI
Teheran, 21 dic. (Adnkronos/Dpa) - La polizia iraniana ha chiuso e sigillato gli uffici dove ha sede il gruppo per il rispetto dei diritti umani che opera a Teheran sotto la direzione di Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace 2003. A riferirlo sono state fonti vicine alla stessa Ebadi, precisando che le forze di sicurezza che hanno partecipato all’operazione hanno invitato il personale presente a lasciare gli uffici dell’organizzazione, quindi hanno chiuso la sede.
ISLAM E DEMOCRAZIA di Farian Sabahi
L’intervento di Shirin Ebadi a Torino Spiritualità *
Di fronte a governi islamici non democratici che giustificano l’oppressione abusando del nome dell’Islam, sono sorti moderni pensatori e studiosi islamici, formando un fronte unico di musulmani di diverse nazionalità che, mantenendo la sacralità dell’Islam, ha intrapreso una lotta contro i governi totalitari.
Questo fronte unico non ha un nome, non ha un leader, non ha sede o filiali, ma ha luogo nella mente di ogni pensatore musulmano che, mantenendo la religione dei propri padri e dei propri antenati, rispetta la democrazia e non vuole ubbidire a nessun pretesto errato e non tollera l’ingiustizia.
Crede fermamente che i governi che rifiutano la democrazia e i diritti umani siano obsoleti tiranni che, mascherando la loro natura oppressiva con una cosiddetta cultura nazionale o religiosa, intendono violare i diritti dei propri popoli. L’Islam, invece, è una religione di eguaglianza.
Il Profeta Maometto disse sempre: non c’è differenza tra il nero e il bianco, tra un arabo e un non arabo. Il Profeta, dopo aver conquistato la Mecca, decise di fondare un governo islamico. Prese in mano la guida della società in veste di governatore e di leader politico, chiedendo la «lealtà» del popolo, musulmano e non. Esprimere «la Lealtà» (Bei’at) significava votare. Secondo quanto racconta la storia, ci furono persone che non espressero la lealtà ma vissero liberamente nel paese islamico. Il Profeta baciava la mano di sua figlia Fatima e la rispettava molto.
Allora come si può, in una religione come questa, umiliare le donne e privarle dei loro diritti, e come si può proclamare errato il pluralismo culturale e dire apertamente che la democrazia non è compatibile con l’Islam? Il vero problema non è nella natura dell’Islam. La questione importante è che, per varie ragioni, alcuni governi islamici non vogliono che sia presentata un’interpretazione dell’Islam compatibile con la democrazia e con i diritti umani.
Per questo la cultura che governa i paesi islamici, compresa la loro cultura politica, ha bisogno di democrazia per poter comprendere le verità sociali con gli occhi aperti e per varare le leggi secondo le esigenze di oggi.
Il passo più importante da intraprendere per l’adeguamento culturale è di insegnare le fondamenta dell’Islam nella maniera corretta. Bisogna insegnare ai musulmani l’Islam all’avanguardia, bisogna insegnar loro che si può essere musulmani e vivere meglio, che si può essere musulmani e rispettare i princìpi dei diritti umani e della democrazia e realizzarli.
Bisogna far sapere ai musulmani che la chiave del paradiso non è nelle mani dei governi islamici e che non tutto quello che si fa a nome dell’Islam è islamico. Contro questi pensieri, oltre agli obsoleti fondamentalisti e ai governi non democratici, hanno protestato anche altri gruppi: quelli che cercano di far passare i comportamenti errati di alcuni musulmani o gruppi di musulmani come il vero Islam, presentando l’Islam agli occhi del mondo sotto il nome di «terrorismo», per promuovere meglio la loro teoria sullo scontro tra le civiltà e per poter giustificare le guerre nel Medio Oriente.
L’Islam progressista, che approva la democrazia, rispetta il pluralismo culturale, crede nei diritti umani, è attaccato da due fronti: dai fondamentalisti che giustificano i propri misfatti in nome dell’Islam e dai nemici dell’Islam che, distorcendone l’immagine, cercano di giustificare le proprie azioni belliche; questo è il punto comune tra gli amici ignoranti e i nemici consapevoli dell’Islam.
Il dovere critico dei musulmani consapevoli in questo momento storico cruciale è di presentare il vero volto dell’Islam, che è colmo di affetto, di generosità e misericordia ed è contro la violenza e il terrorismo. L’Islam non è una religione di terrore e di violenza. Se viene assassinata una persona in nome dell’Islam, siate certi che è stato compiuto un abuso in suo nome.
L’Islam è contro la dittatura. I Governi islamici abusano in nome dell’Islam. Abusare in nome della religione non appartiene solo ai musulmani: non si dimentichino i campi di lavori forzati staliniani della Siberia o il massacro degli studenti in Cina. Quei governi giustificavano e giustificano le loro crudeltà con il socialismo.
Le pagine della storia sono testimoni delle crudeltà commesse dalla Chiesa nel Medioevo, da chi si considerava cristiano e abusava in nome del cristianesimo. Il modo migliore di affrontare i governi non democratici che operano in nome di un’ideologia o di una religione è di disarmarli di quest’arma - di non permettere che la religione e l’ideologia diventino i pilastri del governo.
La religione è un fatto personale e intimo di ogni persona. I governi non devono approfittare della religione per promuovere i propri interessi e scopi politici. Essendo questo un discorso sull’Islam e sul suo rapporto con la democrazia e i diritti umani, devo aggiungere anche questo: in seguito alla «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» i governi islamici, come anche il governo dell’Iran, hanno sottoscritto la «Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo».
Io più volte ho dichiarato di essere contraria alla «Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo», perché se i musulmani vogliono avere una dichiarazione dei diritti umani separata, motivando questo con la loro religione, dovrà essere concessa la stessa cosa ai credenti delle altre religioni; e quindi saremo testimoni della dichiarazione ebraica dei diritti dell’uomo, la dichiarazione buddista dei diritti dell’uomo e migliaia di altre dichiarazioni dei diritti dell’uomo.
Governare il mondo in base a tutte le religioni esistenti sulla terra è una cosa impossibile. Quello dei diritti umani è un concetto universale e si adatta a tutte le culture e le religioni, non c’entra con l’Oriente o l’Occidente, è uguale per tutti. Anche i musulmani lo devono rispettare.
Dobbiamo cominciare dai principi che sono condivisi da tutti e non quelli nei quali crediamo solo noi. Invece di scontro tra le civiltà, possiamo parlare di dialogo tra le civiltà.
Lo scontro tra le civiltà non porta che alla rovina. È molto più probabile che il dialogo tra le civiltà possa trovare la soluzione più logica per i problemi del mondo.
PROFILI. ETTORE MO: LA RIVOLUZIONE PAZIENTE DI SHIRIN EBADI *
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo il seguente testo originariamente apparso sul "Corriere della sera" del 24 settembre 2006.
Ettore Mo e’ stato per oltre vent’anni inviato speciale del "Corriere della sera", testata alla quale tuttora collabora. Tra le opere di Ettore Mo: Sporche guerre, Rizzoli, Milano 2000; Gulag e altri inferni, Rizzoli, Milano 2002; Kabul, Rizzoli, Milano 2003; I dimenticati, Rizzoli, Milano 2004.
Shirin Ebadi, giurista iraniana, gia’ magistrata, impegnata nella difesa dei diritti umani, premio Nobel per la pace nel 2003. Riportiamo di seguito alcun stralci da un articolo di Sara Sesti gia’ riprodotto su questo foglio:
"Il 9 ottobre 2003 e’ stato assegnato ad Oslo il Nobel per la pace all’iraniana Shirin Ebadi, 56 anni, avvocata, madre di due figlie. Il premio le e’ stato conferito "per il suo impegno nella difesa dei diritti umani e a favore della democrazia. Si e’ concentrata specialmente sulla battaglia per i diritti delle donne e dei bambini". Ebadi e’ l’undicesima donna a vincere il Nobel per la pace, da quando il riconoscimento e’ stato istituito nel 1903, ed e’ la prima musulmana. Shirin Ebadi, nata nel 1947, e’ stata la prima donna nominata giudice prima della rivoluzione. Laureata in legge nel 1969 all’Universita’ di Teheran, e’ stata nominata presidente del tribunale dal 1975, ma dopo la rivoluzione del 1979 e’ stata costretta a dimettersi per le leggi che limitarono autonomia e diritti civili delle donne iraniane. Con l’avvento di Khomeini al potere infatti venne decretato che le donne sono troppo emotive per poter amministrare la giustizia. Avvocato, ha difeso le famiglie di alcuni scrittori e intellettuali uccisi tra il 1998 e il 1999. E’ stata tra i fondatori dell’Associazione per la protezione dei diritti dei bambini in Iran, di cui e’ ancora una dirigente. Nel 1997 ha avuto un ruolo chiave nell’elezione del presidente riformista Khatami.
E’ stata avvocato di parte civile nel processo ad alcuni agenti dei servizi segreti, poi condannati per aver ucciso, nel 1998, il dissidente Dariush Forouhar e sua moglie. Nel 2000 ha partecipato ad una conferenza a Berlino sul processo di democratizzazione in Iran, organizzata da una fondazione vicina ai Verdi tedeschi, che provoco’ grande clamore e la pronta reazione dei poteri conservatori a Teheran, che arrestarono diversi dei partecipanti al loro ritorno in Iran. Perseguitata a causa delle indagini che stava svolgendo, nel 2000 e’ stata sottoposta a un processo segreto per aver prodotto e diffuso una videocassetta sulla repressione anti-studentesca del luglio 1999, materiale che secondo l’accusa ’disturbava l’opinione pubblica’. Arrestata, ha subito 22 giorni di carcere.
Il Comitato del Nobel e’ lieto di premiare ’una donna che fa parte del mondo musulmano’, si legge nella motivazione del premio che sottolinea come Ebadi ’non veda conflitto fra Islam e i diritti umani fondamentali’. ’Per lei e’ importante che il dialogo fra culture e religioni differenti del mondo possa partire da valori condivisi’, prosegue il comitato, la cui scelta appare particolarmente mirata in un contesto storico di tensioni fra Islam e Occidente. ’La sua arena principale e’ la battaglia per i diritti umani fondamentali, e nessuna societa’ merita di essere definita civilizzata, se i diritti delle donne e dei bambini non vengono rispettati’ prosegue la nota. ’E’ un piacere per il comitato norvegese per il Nobel assegnare il premio per la pace a una donna che e’ parte del mondo musulmano, e di cui questo mondo puo’ essere fiero, insieme con tutti coloro che combattono per i diritti umani, dovunque vivano’".
Su Shirin Ebadi cfr. anche i profili scritti da Giuliana Sgrena e Marina Forti apparsi nei nn. 701 e 756 di questo foglio. Dal "Corriere della sera" riprendiamo anche la seguente scheda: "Shirin Ebadi, 59 anni, sposata con due figlie, e’ diventata giudice nel 1970. Dopo la rivoluzione islamica del ’79 ha perso il posto. Nel ’93 ha avuto l’autorizzazione per svolgere l’attivita’ di avvocato. Prima personalita’ iraniana a ricevere il Nobel per la pace (nel 2003). Ebadi difende gratis dissidenti e donne vessate dalla legislazione iraniana. Ora le autorita’ le hanno intimato di sospendere le attivita’: ’Possono arrestarmi in ogni momento’"]
"Le donne stanno ormai occupando tutte le trincee, che fino ad ora erano nelle mani degli uomini, i quali volevano anche l’ esclusiva su Dio. Ma Dio appartiene a tutti, a uomini e donne. Ed io sono certa che verra’ il tempo in cui il massimo trono della spiritualita’ del mondo sara’ occupato da una donna. Io forse non assistero’ a questo avvenimento straordinario ma sono sicura che sul soglio di San Pietro siedera’ una donna papa. In questo o nel prossimo secolo avremo un papa donna".
Lo afferma senza enfasi e con assoluta disinvoltura la signora Shirin Ebadi, iraniana, premio Nobel per la pace nel 2003, in visita a Roma, che da anni difende i diritti delle donne nel suo Paese ed era stata prima della rivoluzione islamica uno dei cento giudici donna dell’Iran fino all’arrivo dell’ayatollah Khomeini e del suo governo religioso, per il quale assoluzione o condanna dovevano essere gestiti da un tribunale di soli uomini.
Ero a Teheran in quei giorni di rabbia dopo la fuga dello scia’ Reza Pahlavi e dopo una rivoluzione breve e incruenta, pero’ ricordo che una donna in processione con altre hostess, per protestare contro il chador, venne accoltellata da un uomo che insieme ad altri esagitati maschilisti definiva puttane o con altri termini osceni quello schieramento femminile.
Khomeini e i suoi successori hanno fatto di tutto per irrigidire il Paese dentro la camicia di forza del piu’ severo regime islamico. A Shirin Ebadi, giurista di prestigio, che presiedeva allora una sezione civile, venne offerto un posto nell’amministrazione che lei rifiuto’, senza esitazione.
Una decisione che al momento le costo’ molto cara ma al tempo stesso le consenti’ di affermarsi come uno dei piu’ aggressivi e competenti avvocati nell’ambiente legale dell’Iran. E anche uno dei piu’ scomodi, perche’ si sta battendo per la parita’ dei diritti in un Paese in cui la Costituzione e i codici sono ispirati non solo al Corano ma all’interpretazione degli imam che sono succeduti a Khomeini. Ho appreso che Shirin significa "dolce" letteralmente ma questa signora che da anni si sta battendo per i diritti umani e per l’emancipazione delle donne - in un Paese dove la legge prevede che una bambina di 9 anni sia gia’ in eta’ di matrimonio e dove l’uomo puo’ avere quattro mogli e puo’ sciogliere il vincolo matrimoniale con ciascuna di esse senza dimostrare un valido motivo - ha una tempra e un carattere d’acciaio e non sembra turbata dalle minacce di morte che le son piovute addosso da parte dei suoi concittadini estremisti dopo il Nobel per la pace.
"Anche se lentamente, la condizione delle donne in Iran sta migliorando - dice -. Hanno preso coscienza di dover affrontare e superare l’ostacolo di una cultura maschilista ma e’ un fatto rincuorante e positivo che piu’ del 65% delle donne frequenti l’universita’. Mia figlia si e’ laureata in giurisprudenza e il 70% dei laureati in quell’anno e in quella sezione erano donne. Le donne iraniane hanno avuto diritto al voto prima delle donne svizzere e abbiamo 13 donne in Parlamento". Il Corano prevede delle leggi primarie come l’ obbligo del digiuno nel mese di Ramadan, ma ci sono anche leggi secondarie ideate dagli uomini per affrontare la realta’ quotidiana senza rinnegare lo spirito islamico: "Ma oggi le donne sono piu’ forti che in passato per il grado di istruzione che hanno ricevuto - sostiene la signora Ebadi -, e questa nuova struttura sociale consente loro di opporsi e combattere alcune di queste leggi che le hanno avvilite e oppresse per secoli. Secondo la nostra legge, la vita di una donna vale la meta’ di quella dell’uomo".
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"Una vita di rivoluzione e speranza" e’ il sottotitolo del libro "Il mio Iran" (pubblicato in Italia da Sperling & Kupfer) in cui Shirin Ebadi racconta la sua avventurosa e pericolosa esistenza. Come si legge nel risvolto di copertina, "E’ il 2000 quando Shirin Ebadi viene a sapere di essere sulla lista dei condannati a morte dal regime di Teheran". Appena ventitreenne, nel 1970, Shirin era diventata giudice di tribunale nella capitale iraniana. Regnava ancora Reza Pahlavi, che aveva occidentalizzato il suo Paese ed era percio’ amato all’estero, mentre era odiato in casa per via della Savak, la polizia segreta che torturava e ammazzava chiunque avesse osato criticare il regime monarchico sostenuto dagli Stati Uniti. E’ in questo clima che la giovane avvocatessa fa le sue prime esperienze e scopre l’ingiustizia e l’aggressivita’ del potere ai danni del popolo. Ma nel ’79 arriva a Teheran l’ayatollah Khomeini fino ad allora esule a Parigi che instaura la teocrazia, un regime dispotico e disumano.
"Inizialmente - ricorda la signora Ebadi - mi trovai a simpatizzare con chi acclamava l’ayatollah, non vedevo alcuna contraddizione nel sostenere un’opposizione che ammantava di religione le sue battaglie contro le sofferenze dei cittadini". Un’illusione che dura poco. Il fervore rivoluzionario si affievolisce di settimana in settimana e la gente deve fare i conti con la realta’ quotidiana imposta dal nuovo tiranno. Che obbliga le donne a portare il velo, il chador, e bandisce le cravatte, la musica, le discoteche, i pub, i locali notturni. Bandito l’alcol. I grandi empori di vini pregiati vengono sfasciati a colpi di mitra. E tutto quel bendidio liquido scorre per le strade e gonfia le fogne. Teheran diventa una lugubre capitale dove ogni giorno si compiono arresti, epurazioni, esecuzioni capitali. Alla fine del 1980 il comitato di epurazione destituisce Shirin dalla sua carica di giudice distrettuale. "Ero una donna - commentera’ poi la grande giurista - e la vittoria di quella rivoluzione esigeva la mia sconfitta".
L’ayatollah Khomeini muore il 3 giugno del 1989 e per tutti gli anni Novanta il numero di donne laureate aumenta in maniera costante, superando addirittura quello dei maschi: ma il tasso di disoccupazione femminile e’ tre volte piu’ alto. "Il privilegio di una laurea - scrive la Ebadi - non elimino’ la discriminazione sessuale, ma installo’ nelle donne iraniane qualcosa che nel tempo trasformera’ il nostro Paese: una viscerale consapevolezza della loro condizione di oppresse". Qualcosa che ha colpito nel profondo anche Shirin, che decidera’ di mettere al servizio delle donne tutto il suo tempo e la sua capacita’ di giurista.
Gratuitamente. Nel suo piccolo ufficio al piano terra arrivano ogni giorno le mamme di bambine violentate o uccise, le mogli di uomini torturati o uccisi, le figlie di genitori fatti assassinare dal regime. Si tratta di cause difficilissime da difendere e che le costano una grande sofferenza. Per due mesi viene rinchiusa nel carcere di Evin, definito "luogo di tortura e di morte", ma neanche questa esperienza riuscira’ a bloccare il suo slancio nella battaglia intrapresa a favore delle donne, vittime di ogni tipo d’ingiustizia.
Giovani di Teheran
Non solo chador e tradizione «Ma amiamo il nostro Paese» Alì, 21 anni: «Qui per noi ragazzi è tutto così frustrante... Può diventare un problema anche il gesto più banale. Si parla però solo di restrizioni e problemi, la nostra resta una nazione meravigliosa» «Sarebbe assurdo negare le difficoltà, ma stiamo assistendo a una specie di rinascimento, che va oltre la politica, che parte dalla gente comune. C’è un potenziale enorme che sta prendendo vita»
Da Teheran Vicsia Portel (Avvenire, 04.01.2007)
«Take it easy, stai tranquilla». La ragazzina lo dice sorridendo mentre la giornalista tenta maldestramente di sistemarsi il velo in testa. «Guarda me e le mie amiche. Non ti devi mettere il burka, sai? Tieni un po’ fuori i capelli, come noi, non è un problema. Take it easy».
Museo nazionale di Teheran, le 8 e mezzo del mattino. Gli studenti del corso per guide turistiche arrivano alla spicciolata. Oggi passeranno un paio d’ore fra reperti e sculture che vengono dall’antica Persepoli. «Qui ci sono le perle della nostra storia», dice orgogliosa Salome, 20 anni, un cappottino che la fascia stretta e un foulard buttato appena sui capelli tinti. Nei giorni scorsi ha nevicato e un freddo secco e pungente costringe tutti, maschi e femmine, ad andare in giro infagottati. A vederle così, con i loro berretti colorati, il cappuccio della giacca a vento tirato in testa, queste ragazze potrebbero vivere in una qualsiasi città italiana.
Per alcune di loro l’hijab, il tradizionale costume islamico, è un perfetto sconosciuto. Roba da museo archeologico, per l’appunto. Fra i volti truccatissimi e curati, spunta perfino un nasino rimodellato dal chirurgo plastico. «Voi occidentali quando pensate all’Iran, vedete solo il velo che portiamo - commenta nervosa una ragazza con gli occhiali -, ma il nostro Paese è molto di più. È un Paese complesso e voi non lo capite».
E di questa complessità loro, i giovani, due terzi dell’intera popolazione, sono forse l’espressione più evidente. Divisi fra voglia di vivere qui e andare all’estero. Fra tradizione e desiderio di rinnovamento. Fra chador e cellulari high-tech.
Si ritrovano nei caffè della capitale, navigano su Internet, destreggiandosi come equilibristi fra i dettami del governo conservatore e la relativa censura. Se è vietato ascoltare musica occidentale, la scaricano dalla Rete. E se non esistono discoteche, fanno le feste e ballano in casa. I politici lo sanno. E spesso chiudono un occhio.
«La Repubblica Islamica non ci può impedire di pensare e di vivere secondo i nostri gusti», spiega Alì, 21 anni. Studia letteratura inglese all’università e vorrebbe trasferirsi all’estero. «Forse in Canada - aggiunge -. Là c’è più libertà. Qui per noi ragazzi è tutto così frustrante... Può diventare un problema anche il gesto più banale. Si deve però stare attenti quando si parla dell’Iran. Tutti evidenziano solo le restrizioni e i problemi, si deve scrivere invece che questo è davvero un Paese meraviglioso, il nostro Paese».
Ed è forse questo che più colpisce: in linea o meno con l’orientamento del governo, convinti o no della coerenza della Rivoluzione islamica, una cosa hanno in comune i giovani iraniani. Adorano il proprio Paese. Di un amore assoluto e viscerale. Come Mohammed, che ha 24 anni e vuole diventare ricercatore in antiche lingue persiane: «Non so come spiegare il mio rapporto con la mia terra. Io non solo voglio stare qui. Io voglio vivere e morire in Iran». Frasi patriottiche che in Italia, di solito, si possono ascoltare dalla bocca di qualche anziano reduce. «Voi giornalisti stranieri ci dipingete come un popolo di barbari, di folli estremisti - continua -, ma noi abbiamo una cultura millenaria alle spalle. È solo che voi non la conoscete».
Stesso tono nell’affermazione di Fatemeh: «Non posso dire che l’Iran mi piaccia: io amo l’Iran». Ha diciannove anni, chador e libri sottobraccio. Studia ingegneria e da grande vuole fare il manager d’azienda. «Ovviamente a Teheran». Ride di gusto quando le si chiede se per una donna non sia troppo complicato fare carriera nella Repubblica Islamica: «Perché, da voi le donne non fanno fatica a raggiungere i vertici?». Proprio ieri è caduto un altro piccolo tabù sul fronte dell’occupazione: è al lavoro a Teheran la prima autista di autobus, un mestiere finora tradizionalmente riservato agli uomini.
«I nostri ragazzi sono la forza di questo Paese», spiega Behrouz Gharibpour, direttore della Casa della Cultura, un centro che ospita e sostiene g ruppi di giovani artisti. «Sarebbe assurdo negare i problemi, ma stiamo assistendo a una specie di rinascimento della nazione, che va oltre la politica, che parte dalla gente comune. C’è un potenziale enorme che sta prendendo vita». Motore del rinnovamento, i giovani. E vera forza del motore, le ragazze. «Hanno, magari, una limitazione "sopra la testa" - sorride Gharibpour - ma dentro quelle teste, sono più libere che mai».
Certo Teheran non è tutto l’Iran, e all’università o in altri centri di aggregazione spesso si incontrano le figlie di famiglie benestanti (e forse più aperte). Nella capitale tuttavia la presenza delle ragazze colpisce davvero. Qualcuna avvolta nel tradizionale chador, tutte le altre lanciate nella più spregiudicata interpretazione del costume islamico: poco più che un ritaglio di stoffa colorata sui capelli, giubbini aderenti che segnano le forme del corpo e arrivano appena sotto il sedere, scarpe da ginnastica ai piedi e cellulare in tasca. E tutte si stupiscono quando l’occhio dell’osservatore occidentale si sofferma così tanto sul loro abbigliamento. «Ma che cosa pensavate, che ce ne andassimo in giro sul cammello? O che fossimo segregate in casa?», tuona Samar, 19 anni e un futuro da interprete. «i problemi del Paese sono altri, non certo un fazzoletto in testa. Per noi ragazze la vita universitaria è più difficile che per i ragazzi. Abbiamo tante regole in più da rispettare. Ma non ci scoraggiamo, questo è certo». E non si fa fatica crederle. «Solo nel mio campo, per fare un esempio, il 60% degli artisti sono ragazze», fa notare Gharibpour.
«Non è sempre una vita facile, ma ogni nazione ha i suoi problemi - spiega Maryam -. È vero che dobbiamo rinunciare a tante cose che hanno i nostri coetanei in Europa o negli Usa, ma per migliorare dobbiamo stare qui, lavorare da dentro. Non è poi così male». Dello stesso avviso, ma con un pragmatismo tutto suo è Alì, un ragazzo di 24 anni che lavora come speaker alla radio di Teheran. «Ma con chi avete parlato? Nel fine settimana, io vado a sciare, esco con gli amici, parliamo di politica e di cinema. E chi ti ha detto che noi non possiamo ascoltare musica e guardare film occidentali? Io conosco tanti cantanti italiani, per esempio: Laura Pausini, Eros Ramazzotti, Dolcenera...». Mentre lo dice la cresta impomatata, ultima moda della capitale, ondeggia leggermente. Certo, essendo vietati, di sicuro non comprerà i cd europei nel negozio sotto casa. «No, ma che c’entra. Me li portano gli amici. E quando ho voglia di un po’ di tv straniera, uso il satellite». Ma non è vietato anche quello? «Certo, è illegale, clandestino, ma si fa di nascosto».
Vivono così. A metà fra disillusione e voglia di cambiare. Coraggio e abilità da contorsionisti nell’infilarsi fra gli interstizi del potere. E anche un po’ di sano fatalismo. «Scusa Alì, ma non hai mai paura?». Lo speaker guarda l’interlocutore come se fosse una pazza e alza le spalle... Già. Take it easy.
Femminismo - Una battaglia di donne in Iran
La carica di un milione di firme
In Iran un ampio movimento di donne ha deciso di raccogliere firme per sostenere la richiesta di riformare le leggi che discriminano la parte femminile della società. Con un lavoro capillare, nelle città e nei villaggi, che mobilita diverse generazioni di attiviste: un’esperienza unica in un Medio oriente dove prevale l’atmosfera della guerra
di Marina Forti (il manifesto, 04.01.2007)
L’obiettivo può sembrare limitato: una campagna per abrogare le norme legali che discriminano le donne in Iran e sancire la parità giuridica di donne e uomini. Eppure la campagna lanciata alla fine di agosto da alcuni gruppi di donne iraniane è interessante ben al di là del suo carattere «riformista» e paritario. L’intenzione è di raccogliere «un milione di firme per cambiare le leggi discriminatorie».
Per come è nata, per la diversità delle persone che vi partecipano, quest’iniziativa sta catalizzando un movimento diversificato per età ed estrazioni sociali e politiche. Un milione di firme non sono poche, e le attiviste che hanno lanciato questa campagna intendono raccoglierle una per una, con un lavoro capillare: porta-a-porta, riunioni nelle università e nei luoghi di lavoro, conferenze pubbliche, carovane nei villaggi e nei quartieri periferici...
L’idea di buttarsi in una raccolta di firme è nata dopo la manifestazione femminista tenuta a Tehran il 12 giugno scorso, e sciolta dalla polizia a manganellate. Non era la prima volta che nella capitale iraniana si vedevano cartelli a favore dei diritti delle donne, e neppure la prima volta che la polizia o qualche milizia di vigilantes interveniva per «ristabilire l’ordine». Quel giorno però l’intervento è stato particolarmente brutale, donne d’ogni età sono state malmenate e una settantina arrestate, e la sera stessa su internet circolavano foto del pestaggio. Tra le donne arrestate c’erano note avvocate, giornaliste e attiviste sociali: due di loro sono state poi incriminate per «assembramento illegale». Anche se la manifestazione era un semplice sit-in pacifico, simile a quello tenuto lo stesso giorno di un anno prima, annunciato per tempo e convocato per rivendicare pari diritti giuridici per le donne. in ciò che riguarda matrimonio e divorzio, eredità, diritto proprietario, figli, lo statuto della persona - o le norme di derivazione islamica secondo cui la testimonianza di due donne equivale a quella di un solo uomo.
«A quella manifestazione c’erano anche molti gruppi di studentesse, giovani e giovanissime femministe», spiega Firouzeh Mojaher, insegnante di letteratura italiana all’Università di Tehran e una delle promotrici del Centro Culturale delle Donne, cioè la prima biblioteca e centro di documentazione femminista sorto nella capitale iraniana (era a Roma in occasione di Medlink, la conferenza della società civile nel Mediterraneo e Medio oriente riunita a fine novembre). L’idea di raccogliere le firme, dice, è nata proprio dall’incontro tra diverse generazioni di attiviste. E forse dalla necessità di darsi un obiettivo pratico attorno a cui costruire una mobilitazione.
La campagna «un milione di firme» è stata presentata infine il 27 agosto a Tehran durante un seminario pubblico. «L’esistenza di queste leggi in molti casi degrada le donne, le riduce a cittadine di seconda classe, assegna loro un valore che è metà di quello dell’uomo», dice l’appello, ora pubblicato su un sito web (www.we-change.org) con le firme di 51 promotrici, a cominciare dall’avvocata e premio Nobel Shirin Ebadi o dall’anziana poetessa Simin Behbahani che molte femministe iraniane guardano come una ispiratrice, poi l’editrice Shahla Lahiji, la regista Tahmineh Milani, o Sahla Sherkat che ha fondato e dirige Zanan («Donne»), uno di magazines femminili che alla fine degli anni ’90 ha contribuito a cambiare il discorso pubblico sulle donne.
Nomi noti, intellettuali, militanti politiche, donne che hanno pagato a volte con la galera il loro impegno. Come la stessa Firouzeh Mojaher, che ogni tanto divaga e ricorda quando è stata chiusa nel carcere femminile, nell’84, accusata di simpatie di sinistra, e le sono rimaste impresse le scritte lasciate sui muri da generazioni di detenute prima di lei (ragazze in attesa dell’esecuzione in momenti più bui della storia iraniana, prima e subito dopo la Rivoluzione...). Poi riprende il filo: «Questa nuova generazione di femministe giovanissime ha un grande entusiasmo, avranno successo».
«Non so se arriveremo davvero al milione, ma ci siamo rese conto che il processo stesso del raccogliere quelle firme si sta rivelando un’esperienza straordinaria: avremo costruito legami tra le donne ben al di là delle leggi che vogliamo cambiare», dice Firouzeh Mojaher. Per raccogliere quelle firme le femministe iraniane hanno cominciato a mobilitarsi in ambito urbano e rurale, nelle grandi città e quelle piccole.
La firma, da mettere su un modulo apposito, è l’esito finale. Prima ci sono incontri pubblici, discussioni. Il solo problema è trovare una sala per le riunioni, «gli assembramenti indipendenti suscitano sempre qualche timore», spiega Mojaher. Racconta di riunioni affollate: «A volte sono studentesse o insegnanti che prendono l’iniziativa di organizzare una riunione, magari hanno chiamato vicine di casa e amiche. A volte ci arriva la richiesta di qualche gruppo che ha saputo di noi dal sito web». Le riunioni sono spesso animate: «C’è sempre un’avvocata o giurista in grado di passare in rassegna le leggi che discriminano le donne, si parla di famglia, di discriminazioni professionali, di patriarcato: tutto ciò che rende le donne delle cittadine minori». E’ più difficile il lavoro porta-a-porta: «Non perché le persone non vogliano parlare, troviamo sempre un dialogo: ma poi sono restie a firmare, un po’ dicono che è tutto inutile, un po’ sospettano che ci sia dietro qualche trappola, firmare un foglio è sempre un gesto compromettente».
L’appello evoca «il potere dei numeri»: questa campagna, dice, «proverà una volta per tutte che la richiesta di cambiare le leggi discriminatorie non riguarda solo le poche migliaia di donne che si sono già mobilitate in passato», ma «è sostenuta dalla grande maggioranza di donne e uomini che soffrono delle iniquità delle leggi iraniane». Firouzeh Mojaher dice che è proprio così, «abbiamo trovato appoggi inaspettati». Racconta di incontri tenuti in piccoli centri industriali, di una missione a Tabriz e nell’Azerbaijan iraniano: «Là le cose sono più complicate, ci sono stati disordini a sfondo etnico di recente. Però abbiamo conosciuto giovani donne impegnate in movimenti sociali molto attive e piene di speranza».
Alcune delle attiviste più giovani si sono trovate così per la prima volta fuori dai quartieri di classe media di Tehran - magari nelle periferie dove vivono le profughe afghane o le famiglie immigrate dalle regioni più depresse. «Le ragazze di Tehran ora si rendono conto di avere una vita privilegiata: hanno accesso all’informazione, lavorano, vivono sole. L’Iran è molto frammentato, il processo di modernizzazione ha diviso le classi sociali in modo ancor più profondo che ai tempi dello Shah. Anche il ceto medio è diversificato, per reddito e per cultura. Attraverso le differenze però certe idee si vanno affermando: ci sono ragazze che vengono da famiglie molto tradizionali e si sono messe a raccogliere le firme delle parenti durante le feste familiari...».
Nella loro campagna, le attiviste del «milione di firme» hanno con sé due opuscoli. Uno contiene l’appello e un manuale sulle leggi discriminatorie che si chiede di cambiare, «l’altro è un quaderno in cui annotare l’esperienza fatta, tenere una sorta di diario delle conversazioni pubbliche, delle reazioni incontrate. Credo che alla fine tutte avremo tutte imparato qualcosa».
L’Islam trendy delle ragazze di Teheran
di Chiara Valentini *
«Ma voi credete davvero che l’America voglia bombardarci»? La faccia di Salma, incorniciata da un leggero velo colorato, ha un’espressione stupefatta. «Non oseranno farlo. Con tutti i guai che hanno in Iran e in Afghanistan non possono permettersi di aprire un altro fronte, specie dopo che Putin si è fatto sentire», interloquisce Ziba, grandi occhi scuri e macchina fotografica a tracolla, una reporter abituata a girare nella Teheran che conta. «Non riesco neanche pensarci. Invece che aiutare la democrazia le bombe distruggerebbero ogni spazio di cambiamento», aggiunge Shirin, che studia sociologia all’Università. Sedute ad un tavolino del caffè Naderi, tradizionale ritrovo di intellettuali e artisti, le tre amiche esprimono uno stato d’animo largamente condiviso in Iran. I raid e le bombe sui siti atomici e non solo di cui sempre più spesso si parla in alcune capitali occidentali, visti da qui sembrano qualcosa di lontano, di inconcepibile in una società troppo occupata a cercare nuovi equilibri per la sua vita quotidiana e ad immaginare un futuro un po’ meno peggio del presente.
Non c’è bisogno di accurati sondaggi d’opinione, peraltro piuttosto difficili nell’unica repubblica teocratica del mondo, per capire che, a due anni dalla sua elezione, l’appoggio popolare al presidente Ahmadinejad è decisamente in calo, insidiato da un’inflazione al 20 per cento, dalla disoccupazione crescente, dall’aumento dei prezzi e dal razionamento della benzina. In un Paese in bilico fra islamismo di stato e voglia di modernità cova l’insofferenza, specie nei ceti più colti, per l’attacco alle ultime libertà sopravvissute al decennio riformista di Khatami. Non si vede però un vero dissenso organizzato. Al di là delle proteste di qualche intellettuale, il malumore si esprime nelle case e negli incontri privati, un po’ come negli ultimi anni dell’Unione Sovietica. Ma esiste una resistenza tutta speciale all’abbraccio soffocante dei mullah, quella delle donne. Più che con un movimento, che pure esiste, la sfida femminile si esprime in una presenza forte nella società, in una consapevolezza dei propri diritti che viene da lontano. Anche se nel farsi, la lingua dell’Iran, non esiste la parola femminismo, è addirittura dall’inizio del ’900 che le richieste di leggi paritarie si sono ciclicamente ripresentate. Quasi per paradosso proprio la rivoluzione di Khomeini, che aveva imposto alle donne di nascondersi sotto il chador, le aveva poi spinte a frequentare le scuole. Con il risultato che, a trent’anni di distanza, non solo le iraniane sono le più scolarizzate del Medio Oriente, ma che all’università hanno superato i maschi. Come anche da noi, quasi sempre sono più brave negli studi. E poiché superano più facilmente la dura prova d’ammissione che intanto è diventata obbligatoria, sono arrivate ad essere più del 60 per cento delle iscritte degli ultimi anni. In facoltà come medicina questo esercito di future dottoresse ha preoccupato a tal punto gli islamisti, che hanno introdotto le quote a favore degli studenti di sesso maschile, spesso più umiliati che compiaciuti da un privilegio così ambiguo.
«Siamo in tante ad iscriverci all’università perché questo ci rende più libere. La laurea è il passaporto per trovare lavoro e per andarcene da casa anche senza un marito al braccio», taglia corto Sharmin, una venticinquenne che sta per laurearsi in architettura. Il luogo del nostro incontro è una boutique in un appartamento dalle parti di Gandhi Avenue, nuova zona di ritrovo dei giovani. Quello di mettere in piedi un’attività in una casa privata è un’abitudine che si sta diffondendo non solo nel campo della moda. Negli ultimi anni a Teheran si sono aperte decine di gallerie d’arte d’avanguardia, di studi di grafica, di case editrici dirette da donne per lo più giovani e combattive, lontane anni luce dalle ombre femminili in chador nero che pure si incontrano nei quartieri più tradizionali. Proprio nella moda si concentra un’insolente resistenza delle ragazze, che interpretando in modo piuttosto creativo le rigide prescrizioni in fatto d’abbigliamento femminile, hanno realizzato il paradosso dell’Islam trendy. E così i ropush, i casti camicioni che devono coprire le forme femminili fin sotto il ginocchio, completati da ampi pantaloni o da gonne sotto la caviglia, sono diventati cappottini colorati e attillati da cui sbucano i fuseux o i jeans elasticizzati. Il foulard, imposto a fatica da Khomeini dopo la rivoluzione del 1978, si è trasformato in una leggera sciarpa annodata nei modi più originali, come mi fa vedere sorridendo la stilista di Gandhi Avenue. «Anche il trucco in teoria sarebbe proibito. Ma per noi è quasi una sfida usare rossetti violenti e fard che luccicano, è un modo per difendere un nostro spazio individuale di libertà», dice la quasi architetta Sharmin. Resta il fatto che non è tanto facile la vita delle nuove iraniane, appena escono dagli spazi protetti dei luoghi privati. Con l’arrivo di Mahmoud Ahmadinejad è ripartita la caccia alle «malvelate»-così hanno definito queste sovversive dello chador- che spesso vengono fermate e ammonite dai poliziotti e a volte anche arrestate. E ha ripreso forza lo speciale comitato «per difendere la Virtù e combattere il Vizio», a cui spetta il controllo di abbigliamenti e comportamenti nei luoghi pubblici.
Ma dato che controllare il look di un esercito di donne sempre più in movimento è un’impresa dura, i guardiani della moralità se la prendono con i più docili manichini femminili esposti nei negozi di abbigliamento delle strade principali. Una giovane documentarista che come tante altre è spesso alle prese con la censura, ha girato un corto che fra qualche settimana verrà presentato in versione ridotta in una galleria di Roma. È la storia di queste donne di plastica a cui vengono segati via i seni e quasi tutta la parte superiore delle teste, dai peccaminosi capelli e dagli occhi fino alle labbra tentatrici, per sostituirle con pezzi di cartone. Un’interessante metafora del sogno fondamentalista di ridurre le donne, quelle vere, ad oggetti inanimati senza possibilità di reagire, osservano le femministe.
Ben altri sono i sogni delle iraniane in carne ed ossa. Rivelatore, in questo senso, è il boom piuttosto recente di libri scritti da donne. Mi racconta Gelareh, un’ex giornalista che si è riconvertita critica letteraria dopo che il suo giornale, di taglio riformista, è stato chiuso dal governo, che su 100 libri di narrativa pubblicati oggi in Iran, almeno 70 sono di autrici piuttosto giovani e non sempre famose. A leggerli avidamente è un pubblico femminile, stufo delle traduzioni dei romanzi stranieri sforbiciati dalla censura e desideroso di storie più vicine alla realtà iraniana. «Ci sono quasi sempre triangoli amorosi, tradimenti, difficoltà ad avere rapporti sessuali. È la scoperta, perfino implicita, che il privato è politico», dice Gelareh. Ma non mancano immagini e suggestioni di vite diverse, come nel best seller di Zoia Pirzad, dove la protagonista è una ricca imprenditrice single, che vive in una grande casa con una giovane figlia tutta rock e trasgressione, ha una travolgente storia d’amore ma non rinuncia alla sua libertà.
In un Paese dove, al cinema come a teatro, è proibito perfino far vedere una stretta di mano fra un uomo e una donna, questo genere di letteratura è uno dei tanti segni di una condizione schizofrenica che anche le cronache rendono evidente. Se nei villaggi remoti ancor oggi le adultere possono essere lapidate, nelle città continua a diminuire il tasso dei matrimoni e ad aumentare quello dei divorzi, mentre la «fornicazione», cioè i rapporti sessuali fra persone non sposate, si diffondono pur essendo considerati un crimine. È uno scollamento crescente fra regole e comportamenti, che ha spinto il regime a rilanciare l’istituto del sigheh, il matrimonio temporaneo, che può durare anche per un giorno solo e si scioglie con estrema facilità, ma in qualche modo regolamenta la libertà sessuale. In teoria, se dall’incontro viene fuori un bambino, l’uomo deve riconoscerlo e mantenerlo. Ma spesso le cose vanno diversamente, come racconta il film «Ho 15 anni e mi chiamano Taranee», dove un’adolescente viene mollata ed emarginata da tutti dopo uno di questi matrimoni lampo.«Come sempre si tratta di norme che favoriscono solo gli uomini», dice Ziba, 50 anni portati splendidamente, che mi riceve nel suo luminoso ufficio nella zona nord, quasi una città giardino di ville e ambasciate. Ziba, figlia di uno scrittore e madre divorziata di due adolescenti che ha tirato su con le sue sole forze, dirige una casa editrice specializzata in testi femministi (ma lei preferisce definirli di women’s studies), con l’obiettivo di dare strumenti a un pubblico sempre più desideroso di informarsi. Un’impresa non facile in una repubblica islamica, che richiede un’abilità da equilibrista, ma che Ziba porta avanti con tranquilla fermezza, incoraggiata dalla richiesta crescente delle lettrici.
Ma intanto a muovere le acque è andata avanti un’iniziativa, unica in Medio Oriente, di cui si è parlato spesso anche in Italia. E’ la campagna, lanciata un anno fa dal premio Nobel Shirin Ebadi e da altre intellettuali, per la raccolta di un milione di firme per riformare le leggi che discriminano le donne. Sono norme che vanno dal riconoscimento della poligamia alla possibilità per il marito di ripudiare la moglie al fatto che l’uomo abbia diritto al doppio dell’eredità. La campagna si è estesa a macchia d’olio, con le attiviste impegnate in un lavoro capillare nelle università, negli uffici e perfino negli istituti di bellezza, non solo a Teheran ma nelle più lontane province, arrivando un mese fa alle 100 mila firme. Ma anche se le promotrici si sono sempre sforzate di dimostrare che le loro richieste non vanno contro i precetti della legge islamica, il regime ha reagito. Militanti arrestate o intimorite, telefoni sotto controllo, siti internet oscurati. «Non ci siamo fermate ma siamo diventate più prudenti», dice Jila, studentessa universitaria di economia, che quest’estate ha passato tre giorni in una cella di Evin, la grande prigione di Teheran. Come la maggior parte delle sue compagne è convinta che le iraniane devono conquistarsi da sole i loro diritti, senza interventi esterni. E Shirin Ebadi, nei suoi giri all’estero, non si stanca di ripetere che «qualunque attacco militare sarebbe disastroso per la nostra causa».
* l’Unità, Pubblicato il: 21.10.07, Modificato il: 21.10.07 alle ore 8.14