Un incontro e un dialogo:
Come ti chiami?
Gesù.
Gesù?!
E di "Chi" sei figlio?
Sono figlio dell’Amore di Maria e di Giuseppe.
Ma chi ha deciso di chiamarti così?
Il mio papà, Giuseppe [Mt. 1, 21-25!!!].
Cosa significa il tuo Nome?
Significa “Amore salva”,
cioè che l’Amore di due persone, Maria e Giuseppe, mi ha salvato!
E’ bellissimo! Bene! Grazie e buona giornata!
Buona giornata!
*** * ***
GESU’: E voi, Chi dite che io sia?
Pietro: "Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivo"
GESU’: "Beato sei tu, Simone figlio di Giona, poiché non è la carne né il sangue che ti hanno fatto questa rivelazione, ma il Padre mio che sta nei cieli" - AMORE (Agape, Charitas).
25 Giugno: salviamo la Costituzione e la Repubblica che è in noi
di Federico La Sala (Libertà - quotidiano di Piacenza, 08.06.2006, p. 35)
Il 60° anniversario della nascita della Repubblica italiana e dell’Assemblea Costituente, l’Avvenire (il giornale dei vescovi della Chiesa cattolico-romana) lo ha commentato con un “editoriale” di Giuseppe Anzani, titolato (molto pertinentemente) “Primato della persona. La repubblica in noi” (02 giugno 2006), in cui si ragiona in particolar modo degli articoli 2 e 3 del Patto dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti.
Salvo qualche ’battuta’ ambigua, come quando si scrive e si sostiene che “il baricentro dell’equilibrio resta il primato della persona umana di cui è matrice la cultura cattolica” - dove non si comprende se si parla della cultura universale, di tutto il genere umano o della cultura che si richiama alla particolare istituzione che si chiama Chiesa ’cattolica’ (un po’ come se si parlasse in nome dell’Italia e qualcuno chiedesse: scusa, ma parli come italiano o come esponente di un partito che si chiama “forza...Italia”!?), - il discorso è tuttavia, per lo più, accettabile...
Premesso questo, si può certamente condividere quanto viene sostenuto, alla fine dell’editoriale, relativamente al “diritto alla vita” (“esso sta in cima al catalogo ’aperto’ dell’articolo 2, sta in cima alla promessa irretrattabile dell’art. 3”) e alla necessità di una responsabile attenzione verso di essa (“Non declini mai la difesa della vita; senza di essa è la Repubblica che declina”).
Ma, detto questo, l’ambiguità immediatamente ritorna e sollecita a riporsi forti interrogativi su che cosa stia sostenendo chi ha scritto quanto ha scritto, e da dove e in nome di Chi parla?!
Parla un uomo che parla, con se stesso e con un altro cittadino o con un’altra cittadina, come un italiano comune (- universale, cattolico) o come un esponente del partito ’comune’ (’universale’, ’cattolico’)?
O, ancora, come un cittadino di un partito che dialoga col cittadino o con la cittadina di un altro partito per discutere e decidere su quali decisioni prendere per meglio seguire l’indicazione della Costituzione, della Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ che ci ha fatti - e invita a volerci! - uomini liberi e donne libere, cittadini-sovrani e cittadine-sovrane?!
Nonostante tante sollecitazioni a sciogliere i nodi e chiarirsi le idee da ogni parte - dentro e fuori le istituzioni cattoliche, c’è ancora molta confusione nel cielo del partito ’cattolico’ italiano: non hanno affatto ben capito né la unità-distinzione tra la “Bibbia civile” e la “Bibbia religiosa”, né tantomeno la radicale differenza che corre tra “Dio” [Amore - Charitas] e “Mammona” [Caro-Prezzo - Caritas] o, che è lo stesso, tra la Legge del Faraone o del Vitello d’oro e la Legge di Mosè!!! E non hanno ancora ben-capito che Repubblica dentro di noi ... non significa affatto Monarchia o Repubblica ’cattolica’ né dentro né fuori di noi, e nemmeno Repubblica delle banane in noi o fuori di noi!!!
Il messaggio del patto costituzionale, come quello del patto eu-angelico ...e della montagna è ben-altro!!! La Costituzione è - ripetiamo: come ha detto e testimoniato con il lavoro di tutto il suo settennato il nostro Presidente, Carlo A. Ciampi - la nostra “Bibbia civile”, la Legge e il Patto di Alleanza dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti (21 cittadine-sovrane presero parte ai lavori dell’Assemblea), e non la ’Legge’ di “mammasantissima” e del “grande fratello” ... che si spaccia per eterno Padre nostro e Sposo della Madre nostra: quale cecità e quanta zoppìa nella testa e nel cuore, e quale offesa nei confronti della nostra Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’- di tutti e tutte noi, e anche dei nostri cari italiani cattolici e delle nostre care italiane cattoliche!!!
Nel 60° Anniversario della nascita della Repubblica italiana, e della Assemblea dei nostri ’Padri e delle nostre ’Madri’ Costituenti, tutti i cittadini e tutte le cittadine di Italia non possono che essere memori, riconoscenti, e orgogliosi e orgogliose di essere cittadine italiane e cittadini italiani, e festeggiare con milioni di voci e con milioni di colori la Repubblica e la Costituzione di Italia, e cercare con tutto il loro cuore, con tutto il loro corpo, e con tutto il loro spirito, di agire in modo che sia per loro stessi e stesse sia per i loro figli e le loro figlie ... l’ “avvenire” sia più bello, degno di esseri umani liberi, giusti, e pacifici! Che l’Amore Charitas dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ illumini sempre il cammino di tutti gli italiani e di tutte le italiane...
Viva la Costituzione, Viva l’Italia!!!
Federico La Sala
DA RICORDARE:
Alla Costituente, su 556 eletti, 21 erano donne:
9 NEL GRUPPO DC, SU 207 MEMBRI - LAURA BIANCHINI, ELISABETTA CONCI, FILOMENA DELLI CASTELLI, MARIA IERVOLINO, MARIA FEDERICI, ANGELA GOTELLI, ANGELA GUIDI CINGOLANI, MARIA NICOTRA, VITTORIA TITOMANLIO;
9 NEL GRUPPO PCI, SU 104 MEMBRI - ADELE BEI, NADIA GALLICO SPANO, NILDE IOTTI, TERESA MATTEI, ANGIOLA MINELLA, RITA MONTAGNANA TOGLIATTI, TERESA NOCE LONGO, ELETTRA POLLASTRINI, MARIA MADDALENA ROSSI;
2 NEL GRUPPO PSI, SU 115 MEMBRI - BIANCA BIANCHI, ANGELINA MERLIN;
1 NEL GRUPPO DELL’UOMO QUALUNQUE: OTTAVIA PENNA BUSCEMI.
Federico La Sala - (5 settembre 2007).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Scuola dell’infanzia. Le nuove indicazioni nazionali
Il sonno della fede e della ragione: una lettera del 2002.
FLS
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E COSTITUZIONALE, CIVILE E RELIGIOSA. IL CUORE DELLA LEGGE:
La #Costituzione è la nostra #Bibbiacivile. Ricordiamo i nostri #Padri e le nostre #Madri
#Costituenti:
"Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge"
(Mario Draghi).
L’iniziativa.
Il 19 marzo al via l’Anno della famiglia. «Uniti da San Giuseppe»
Sedici congregazioni religiose danno vita a un Comitato per iniziative comuni. Primo appuntamento un triduo online in preparazione alla festa del 19 marzo
di Enrico Lenzi (Avvenire, domenica 14 marzo 2021)
Sedici congregazioni tra maschili e femminili, diverse per storia, carisma, luogo di nascita e diffusione, ma unite dal riconoscere in san Giuseppe il proprio patrono o il santo ispiratore dell’azione della famiglia religiosa. È uno dei frutti del lavoro che già da qualche anno tre di queste famiglie religiose (i Giuseppini del Murialdo, gli Oblati di san Giuseppe e la Federazione italiana suore di san Giuseppe) stanno compiendo per diffondere non tanto la devozione, quanto la conoscenza dell’opera e del ruolo del Custode del Redentore.
Complice anche l’Anno di san Giuseppe indetto lo scorso 8 dicembre da papa Francesco, il nucleo iniziale di questa collaborazione ha deciso di invitare anche le altre famiglie religiose che pongono san Giuseppe all’interno del proprio carisma. Nasce così il Comitato San Giuseppe, che «in questo anno ha deciso di dare vita a un calendario di incontri e iniziative - spiega uno dei coordinatori, padre Luigi Testa, Oblato di san Giuseppe, congregazione nata ad Asti nel 1878 grazie a san Giuseppe Marello -, alla luce della Lettera apostolica «Patris corde» che papa Francesco ha diffuso proprio l’8 dicembre 2020 a 150 anni dalla proclamazione di san Giuseppe a patrono della Chiesa universale ».
E proprio da quel documento papale sono tratte le riflessioni che caratterizzeranno il triduo in preparazione alla memoria liturgica di san Giuseppe (19 marzo), che si svolgerà online sul canale YouTube denominato «Comitato San Giuseppe» il 16, 17 e 18 marzo prossimi alle 15.
A quell’ora, infatti, sarà possibile seguire le riflessioni che tre religiosi e tre religiose, alternandosi, faranno prendendo ciascuno un aspetto della Patris corde.
Si inizia il 16 marzo con un collegamento dalla Basilica di san Giuseppe al Trionfale a Roma in cui si rifletterà sull’aspetto del «padre nella tenerezza» e in quello «nell’obbedienza».
Il giorno successivo, dal Santuario San Giuseppe a San Giuseppe Vesuviano (Napoli) si rifletterà sul Custode del Redentore come «padre nell’accoglienza » e «padre del coraggio creativo».
Infine il 18, dal Santuario San Giuseppe ad Asti, si affronterà la figura come «padre lavoratore » e «padre nell’ombra».
Ma il triduo «è l’appuntamento più ravvicinato del programma che stiamo elaborando insieme - spiega padre Testa -. Il 29 aprile abbiamo una iniziativa che coinvolgerà le scuole superiori. Si intitola “Nel laboratorio di Giuseppe. I giovani e il lavoro tra paura e speranza”, a cui è legato anche un concorso («Domani è un’altra impresa») che assegnerà alcune borse di studio». L’evento sarà in streaming e avrà come sede principale il Collegio Artigianelli di Torino dei Giuseppini del Murialdo e vi saranno collegamenti con Roma e Lucera.
Già fissato anche l’evento che si lega alla conclusione dell’Anno di San Giuseppe: sarà a Roma dal 6 all’8 dicembre. «Stiamo studiando programma, relatori e modalità di realizzazione - aggiunge padre Testa -, ma intendiamo viverlo non come momento finale di un percorso, bensì come occasione per rilanciare l’attività di conoscenza e di studio anche teologico sulla figura di san Giuseppe». Insomma «ci domanderemo come continuare il percorso anche dopo il 2021».
Quinto Stato
Un altro genere di paese: educare alle differenze nella scuola pubblica
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 28.1.2016)
Storia di un movimento che lavora con le maestre per contrastare la violenza di genere, il bullismo omofobico e vuole un’istruzione universale per tutti. La Cei e il Vaticano lo contrastano e hanno lanciato la crociata contro l’inesistente «teoria del gender»
***
Un altro genere di educazione. È il motto della rete «Educare alle differenze» composta da 250 associazioni che lavorano con le maestre nelle scuole per superare gli stereotipi di genere, contrastare la violenza di genere e il bullismo omofobico tra i bambini. Giunto al terzo anno di vita, «Educare alle differenze» oggi è un network composto da docenti universitari, attivisti/e Lgbtqi, case editrici, educatori e assistenti sociali, associazioni impegnate in programmi che coinvolgono gli enti locali. Insieme cercano di colmare le lacune formative e i vuoti normativi presenti nella scuola italiana quando si parla di sessualità o di parità tra i sessi.
In attesa di organizzare il terzo incontro nazionale a Roma, promosso dalle associazioni Scosse (Roma), Stonewall (Siracusa), Il Progetto Alice (Bologna), la rete intende diventare un’interlocutore del ministero dell’Istruzione nella scrittura delle linee guida sulla prevenzione della violenza di genere e l’educazione alla parità tra i sessi prevista dalla Convenzione di Istanbul, ratificata dal Parlamento italiano nel 2013.
La sua storia ricorda da vicino quella dei movimenti che sin dagli anni Sessanta hanno cambiato i costumi e le metodologie di insegnamento della scuola pubblica. A sostegno di questo obiettivo sono stati pubblicati materiali didattici che sono diventati una consuetudine negli istituti, da Nord a Sud. Ne ricordiamo due, che hanno prodotto scandalo, campagne di diffamazione e vere e proprie censure da parte della Cei, di sindaci e di politici nazionali: gli opuscoli contro l’omofobia realizzati dall’istituto A. T. Beck per l’Unar e destinati agli insegnanti delle scuole primarie e secondarie e i 49 titoli contro il razzismo e la discriminazione sessuale dell’iniziativa «Leggere senza stereotipi» promossa dalla consigliera comunale di Venezia Camilla Seibezzi e censurata dal sindaco Luigi Brugnano.
In un biennio, questo movimento in formazione si è trovato ad affrontare una violentissima campagna politica, orchestrata dalle gerarchie vaticane e agita da movimenti reazionari che continuano a sfregiare il senso dell’educazione alle differenze, contro il sessismo e le violenze di genere inventando un nemico fantomatico: la cosiddetta «teoria del gender».
Il colpo di partenza lo diede papa Ratzinger in un discorso del 21 dicembre 2012 in cui condannò la «nuova filosofia della sessualità» espressa dal «lemma gender». Secondo il fine teologo tale «filosofia» contraddice il racconto biblico della creazione. L’essere umano è creato da Dio «come maschio e come femmina». A questa teoria della «famiglia naturale» e della genitorialità biologica, che nega ogni storicità e cambiamento nelle convivenze e nelle relazioni affettive, sono ispirati vademecum, family day e i whatsapp dei gruppi dei genitori.
Una strategia basata su psicosi mediatica e complottismo - due armi fondamentali all’epoca di internet che vantano illustri antenati nella caccia alle streghe - per la quale la rete «Educare alle differenze» starebbe trasformando la scuola in un «campo di rieducazione» che sforna soldati in difesa della «dittatura del gender», in altre parole un’inesistente educazione all’omosessualità. Non lo ha detto un utente qualsiasi di Facebook, ma il capo dei vescovi italiani della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco il 24 marzo 2014.
A questa diffamazione, basata su un pregiudizio ideologico, il movimento dell’educazione alle differenze risponde così: «Il genere - si legge nel report dell’incontro nazionale della rete del 2015 - è un sistema di pratiche sociali e culturali che assegnano ruoli, potere, funzioni e opportunità diverse agli individui in base al loro sesso di nascita e al loro orientamento sessuale». Il «genere esiste eccome e produce ingiustizie e sofferenze sul piano individuale e sociale». I programmi educativi servono «per decostruire gli stereotipi e offrire strade di libertà agli studenti».
La ragione di fondo della controffensiva omofobica sta nell’attacco all’istruzione pubblica e laica finalizzata alla creazione di un’egemonia. In Italia, la resistenza politico-culturale e l’affermazione di una «cittadinanza democratica» passano anche dall’educazione alle differenze.
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.
I requisiti del prof di religione
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 23.11.2012)
Caro Augias,
insegno da 15 anni in una scuola primaria. Ora, entrata in ruolo dopo un concorso, non posso più insegnare religione se non in possesso di apposita idoneità rilasciata periodicamente dalla diocesi di appartenenza. È il Concordato, bellezza, direbbe Bogart. Così ho deciso di frequentare un apposito corso. Subito ci sono state illustrate le novità contenute ne “L’intesa per l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche” firmata il 18 giugno 2012 dal cardinal Bagnasco e dal ministro Profumo. Ero contenta perché avevo tutti requisiti, poi è arrivata la sorpresa. Dopo l’annuncio di un esame (!?) finale ci viene detto che avremmo dovuto consegnare un attestato del parroco dove si dice che siamo “persone coerenti con la fede professata nella piena comunione ecclesiale”. Qualcuno ha obiettato, ma ci è stato risposto che il diritto canonico non transige sul punto. Trovo questa “patente di buon cattolico” un insulto alla Fede e al Concilio Vaticano II, oltre che illogica. Chi come me non va a messa e per di più convive non potrà averla; al suo posto verrà nominata una persona scelta dalla diocesi.
Barbara Castellari
La prof Castellari definisce il provvedimento illogico. In realtà è peggio: è anticostituzionale. L’articolo 33 della Carta stabilisce perentoriamente che “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Vero peraltro che questa solenne dichiarazione è indebolita da un altro articolo della Carta, il discusso articolo 7, fonte di molte polemiche.
L’articolo sembra aprire bene: “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”. Cavour sarebbe stato contento di leggerlo. Poi però arriva il secondo comma: “I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi” e questo mette in conflitto l’articolo 7 con l’articolo 33. Quale dei due vale di più? Una possibilità sembrerebbero darla le parole finali dell’articolo: “Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”.
Con questa chiusa la questione da costituzionale diventa banalmente politica. Mettetevi d’accordo e cambiate, dice il costituente. Ma perché entri in azione la politica bisogna che ci sia la volontà, appunto “politica”, di farlo. Come accadde con Craxi presidente del Consiglio nel 1984 quando il Concordato venne rivisto lasciando cadere, tra l’altro, la nozione del cattolicesimo come “religione di Stato”. Non sembra questo il momento se si pensa che il ministro Profumo che ha co-siglato l’intesa con il capo dei vescovi è lo stesso che in settembre aveva dichiarato: “L’ora di religione così come viene insegnata non ha più senso”. Apriti cielo! S’è talmente aperto che siamo alla lettera della prof Castellari.
Ora di religione
La riforma cominci dai docenti
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 28.09.2012)
Ciclicamente sorge il problema dell’insegnamento della religione nella scuola pubblica. Tutti gli argomenti sono stati usati e spesi, con risultati modesti, salvo la possibilità dell’esenzione dall’ora di religione. Sino a qualche anno fa il problema veniva sollevato soprattutto in nome del principio della laicità dell’educazione pubblica. Le richieste che ne seguivano erano molto articolate - dalla soppressione pura e semplice dell’ora di religione alla istituzione sostitutiva di una lezione di etica, all’introduzione della storia delle religioni, Tutte le proposte sono sempre state contestate e respinte dai rappresentanti (quelli che contano) del mondo cattolico. Nel frattempo si sono aggiunte altre problematiche: l’enfasi sulle «radici cristiane» della nostra cultura (argomento poi vergognosamente politicizzato), la presenza crescente di allievi di altre religioni ( con riferimento costante se non esclusivo a quella islamica) e i discorsi sempre più frequenti sul ritorno e «il ruolo pubblico delle religioni».
Il tutto si è accompagnato con crescente deferenza pubblica verso la Chiesa la cui posizione dottrinale poco alla volta ha acquistato la funzione surrogatoria di una «religione civile». Si è creato l’equivoco di misurare i criteri dell’etica pubblica sulle indicazioni della dottrina della Chiesa - senza preoccuparsi della effettiva adesione ad essa dei comportamenti dei cittadini che dicono di essere credenti. Il tasso di trasgressione delle indicazioni ecclesiastiche da parte dei cittadini italiani non è affatto minore di quella generale dei Paesi considerati più secolarizzati.
In questo contesto il monopolio della Chiesa nell’insegnamento religioso nelle scuole - comunque definito - è solo un tassello, cui non intende minimamente rinunciare. D’altra parte oggi né l’istituzione statale né la cosiddetta società civile sono in grado di offrire alternative. E’ possibile superare questo circolo vizioso? Non già contro la Chiesa - come subito si accuserà - ma per rinnovare profondamente o semplicemente dare concretezza alla libertà religiosa.
Nel nostro Paese cresce paurosamente l’incultura religiosa, che non ha nulla a che vedere con la laicità. Anche se gli uomini di Chiesa ne danno volentieri la colpa al laicismo, al relativismo, al nichilismo ecc. Solo i più sensibili si interrogano sul paradosso della crescente incultura religiosa in un Paese dove la Chiesa è accreditata di un’enorme autorità morale. Solo i più sensibili si chiedono se non c’è qualcosa che non va in un magistero e in una strategia comunicativa che rischia di impoverirsi teologicamente, perché tutta assorbita dalla preoccupazione per quelli che sono chiamati perentoriamente «i valori», a loro volta monopolizzati dai temi della «vita» e della «famiglia naturale», sostenuti e trattati con fragili argomentazioni teologiche. Una particolare (discutibile) antropologia morale ha preso il posto della riflessione teologica. So che è un discorso impegnativo e complicato, da rimandare ad altra sede. Ma c’entra con il nostro tema.
La stragrande maggioranza delle famiglie italiane - loro stesse caratterizzate da basso tasso di cultura religiosa - mandano i figli all’ora di religione perché «fa loro bene». Lo considerano un surrogato di insegnamento morale, senza troppo preoccuparsi dei contenuti. Anzi sono ben contenti che i ragazzi non fanno «lezione di catechismo» - come assicurano molti degli insegnanti cattolici.
Ma qui nasce un altro brutto paradosso. Certamente è giusto che non si faccia catechismo. Ma la lezione di religione deve comunque fornire contenuti di conoscenza su che cosa significa avere una fede. La sua origine, la sua storia, la sua evoluzione, i suoi conflitti interni, le differenze rispetto alle altre religioni ma anche il loro confronto positivo. Tutto questo per noi è «storia delle religioni», anche a partire dalla centralità del cristianesimo, che - sia detto per inciso - teologicamente parlando non coincide con il cattolicesimo.
Suppongo che il cattolico che leggesse queste righe, direbbe con cipiglio severo che è esattamente quello che fanno (o dovrebbero fare) gli insegnanti ufficiali di religione, quelli autorizzati dal vescovo, per intenderci. Non dubito che ci sono molti insegnanti di religione «ufficiali» ottimi nel senso delle cose che sto dicendo.
Ma qui si apre un altro problema, forse il più delicato e decisivo. Non ci si può fidare o affidare alla maturità soggettiva dei singoli insegnanti o all’assicurazione dell’autorità ecclesiastica, se vogliamo che la lezione di religione o di storia delle religioni si configuri come vero servizio della scuola pubblica. Si obietterà che le norme attualmente vigenti sono concepite diversamente e vanno rispettate. Bene. Ma è tempo di cambiarle, senza aspettare l’esternazione del prossimo ministro dell’Istruzione o la prossima congiuntura politica.
Il vero problema è che l’Italia ha urgenza di formare laicamente un ceto di insegnanti di religione o delle religioni - non già contro la Chiesa ma sperabilmente con la sua collaborazione - che risponda seriamente alla nuova problematica del pluralismo religioso. In molte università italiane ci sono buoni centri di ricerca sui fenomeni religiosi, con opportuni collegamenti interdisciplinari con le scienze antropologiche e di storia delle civiltà. Si tratta di valorizzare tali centri, di metterli in collegamento e renderli funzionali per la formazione di nuovi docenti per la scuola. E’ un lavoro impegnativo, ma necessario e urgente. E’ un vero peccato invece che molti influenti cattolici del nostro Paese si chiudano a riccio con argomenti davvero molto modesti.
LA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA HA ROTTO I PONTI CON IL MESSAGGIO EVANGELICO. A 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, bisogna prendere atto che il terribile è già accaduto: il "Lumen Gentium" è stato spento e, sulla cattedra di Pietro, siede il Vicario del Signore e Padrone Gesù ("Dominus Iesus": J. Ratzinger, 2000). Egli regna e governa in nome del suo Dio, Mammona ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006).
Scuola
Tutti i nomi di Dio
di Maria Novella De Luca (la Repubblica, 27 settembre 2012)
Bisogna venire qui, in questa ex “scuola ghetto” per stranieri, «da cui le famiglie italiane fuggivano, mentre adesso c’è la fila», ricorda Miriam Iacomini, coordinatrice didattica, per capire come e quanto la polemica sull’ora di religione, la crociata di critiche contro il ministro Profumo che ne ha proposto una (timida) modifica, siano cose e parole lontane dalla vita reale.
Perché l’Italia di Hu, di Massimo, di Pilar, cinesi, filippini, sudamericani, nordafricani, bangladesi, ma anche romeni, ucraini, albanesi, che giocano e corrono nel cortile della loro scuola, è già “multi”- culture, fedi, colori - e il cattolicesimo, visto dalle volte scrostate di questo antico istituto, è soltanto una tra le tante religioni.
Racconta Yusra, 11 anni, accanto alla madre Safia, somala: «Sono musulmana, frequento la moschea, ma qui a scuola fin dalle elementari ho avuto amici di tutte le nazionalità e di tutte le religioni. Ho sempre fatto l’ora di “alternativa”, ma ho partecipato ai laboratori: ognuno raccontava le proprie usanze e anche il proprio modo di pregare». E Safia, con il capo coperto, quietamente precisa: «Nel Corano c’è ogni cosa, anche un po’ della Bibbia, dividersi non serve... ».
Davanti al cancello donne velate e mamme in sari, genitori italiani e la folta, foltissima e sempre più prospera comunità asiatica dell’Esquilino. «Noi siamo buddisti, scandisce sicura la bambina cinese, italiano perfetto e lieve accento romano - ma la mia migliore amica ha fatto la prima comunione, e alla sua festa sono andata anch’io». Integrazione senza barriere. Poi i ragazzini crescono, e può accadere che tutto cambi. Ma per ora è così. Semplicemente.
«Questa scuola negli ultimi dieci anni ha subito una metamorfosi positiva», dice con orgoglio Rosaria D’Amico, maestra con la passione ancora intatta per il suo lavoro. «Le famiglie italiane del quartiere avevano paura di portare i loro figli in un istituto con una percentuale di immigrati così alta. Poi hanno iniziato a frequentarci, hanno capito la nostra didattica aperta ad ogni tipo di diversità, hanno visto le attività, dallo sport alla ludoteca, e le iscrizioni sono cresciute di anno in anno. Italiani e non. E forse sarebbe ora di smetterla di parlare di “stranieri”, visto che il 90% degli immigrati che frequentano la nostra scuola è in realtà nato in Italia ».
I piccoli cinesi ad esempio. Che alle 16,30, quando tutti gli altri vanno a giocare, frequentano la loro seconda scuola, in cinese, appunto. «E sono fortissimi, hanno un allenamento formidabile, come quelli che arrivano dal Bangladesh, che parlano tre lingue», aggiunge Rosaria D’Amico. Mescolarsi fa bene. Apre la mente e i cuori. Come pregare, per chi ci crede. Cristo, Allah, Budda: i grandi poster sulle pareti disegnati dai ragazzi ci ricordano che le fedi sono tante, Dio ha più volti e più nomi. «Ognuno nel cuore sa come invocarlo, soprattutto quando sei un bambino», dice Fatiah, musulmana, che però non ha esonerato i suoi figli dall’ora di religione. «Per loro è come una favola, va bene così».
Educazione alla convivenza. Alla “Di Donato” da alcuni anni, l’associazione “Uva”, che vuol dire “Universo L’Altro”, tiene laboratori di storia delle religioni, finanziati attraverso un bando della Tavola Valdese, con i fondi dell’8 per mille. Spiega la presidente Giulia Nardini: «È da questa eterogeneità che nasce la curiosità dei bambini. Ai nostri corsi partecipano tutti, anche chi è esonerato dall’ora di religione cattolica. Noi facciamo un racconto delle varie fedi attraverso i simboli, le feste e le mappe dei luoghi dove queste storie sono nate. E la narrazione li cattura, conquista sia chi in famiglia prega, chi no. La particolarità è che spesso i bambini di questa scuola già sanno a quale religione appartengono i loro compagni. Sono abituati alla diversità». E gli insegnanti di religione? «A volte collaborano, a volte è come se volessero difendere il loro territorio dalla contaminazione».
Invece questa scuola multi-tutto, aperta dal primo mattino alla sera tardi, grazie ad un efficientissimo comitato di genitori, sede di un Ctp, cioè un centro di educazione per adulti, ha fatto della “contaminazione” la propria cifra. Vincente, sembra. Francesca Longo ha due figlie.
«Entrambe hanno sempre frequentato l’ora di religione. Per cultura, per curiosità. Credo sia giusto. Purché, naturalmente, non diventi catechismo». Aldo è il giovane padre di Paolo, 6 anni, energia incontenibile: «Siamo atei, Paolo non è battezzato e non fa religione. Il ministro Profumo ha ragione: in un mondo globalizzato non si può insegnare ai bambini che esiste soltanto il cattolicesimo. E chi lo critica dovrebbe vedere questa realtà: il miglior amico di mio figlio è di fede islamica, il suo compagno di banco è induista. Il mio sospetto è che la Cei voglia utilizzare l’ora di religione per catechizzare e riportare alla Chiesa i nostri bambini...».
Chissà. Eppure ai più giovani il contatto con il “sacro” piace. Miriam Iacopini, maestra e coordinatrice didattica: «Poco tempo fa abbiamo fatto un lungo lavoro sulle tre religioni monoteiste, portando i bambini a visitare anche la moschea e la sinagoga. E alle famiglie che avevano esonerati i figli dall’ora di religione abbiamo chiesto un esonero “al contrario”. Un’esperienza entusiasmante. Queste polemiche invece sono inutili. Avete visto la nostra scuola? Cadono i cornicioni, la palestra è inagibile, le finestre sono rotte. Abbiano bisogno di fondi non di dibattiti già vecchi per i bambini di domani... ».
di Mariapia Veladiano (la Repubblica, 27 settembre 2012)
Come si fa a non parlar di Dio a scuola? Far finta che non esista un credere che ha scosso la storia, disegnato le nazioni, spostato i confini, costruito cattedrali e pievi, riempito musei di opere d’arte. E poi ha dato speranza e suscitato l’azione di persone, popoli, per generazioni, ovunque, da sempre.
Anche adesso. E poi, certo che è capitato, questo credere si è anche rovesciato in conflitti, ordalie atroci, fanatismi devastanti. E bisogna saperlo perché non capiti più, così si dice sempre, tutti d’accordo. Fin qui d’accordo. Poi comincia la guerra. Su come parlare di questa immensità che si declina in infiniti personalissimi modi di far propria una speranza così assoluta da non potersi quasi dire e che pure si deve dire. La via italiana al parlar di Dio a scuola è limpidamente inesemplare.
L’attuale status dell’Insegnamento della religione cattolica (Irc) è formalmente ineccepibile. Ha da anni un suo corretto profilo culturale, dei programmi non confessionali che guardano al cristianesimo come fenomeno religioso fondante per la nostra storia e società, ha suoi obiettivi di apprendimento e sta definendo le specifiche competenze in uscita riferite ai diversi ordini di scuola. Però ha alcuni peccati d’origine che la rendono una disciplina sempre in trincea: nasce da un Concordato (quella del 1984 è stata solo una Revisione del Concordato) internazionale, è disciplina a pieno titolo, ma marginalizzata a livello reale in quanto non entra nell’esame di Stato ed è soggetta a scelta, e marginalizzata anche a livello simbolico, perché la valutazione è fuori dalla pagella.
Poi ci sono i docenti: ora di ruolo per concorso, ma sottoposti all’idoneità dell’ordinario diocesano e però gestiti dallo Stato, privilegiati per alcuni, ma anche crocifissi da una condizione irrimediabilmente anomala che spesso li costringe a programmi molto dipendenti dai desideri degli studenti. A volte eroi a volte fantasisti della didattica.
Ora, a dire che va bene così, magari perché ancora i numeri “tengono” e gli studenti che si avvalgono sono ancora la maggioranza, ci vuol proprio coraggio. Non va bene così anche solo perché decenni di IRC non ci stanno salvando da un analfabetismo religioso impressionante.
Chi insegna lettere conosce la disperazione di dover spiegare tutto, ma proprio tutto, ogni volta che in letteratura si ha bisogno di riferirsi alla cultura religiosa: che sia la cacciata dal paradiso terrestre per il primo capitolo del Candido di Voltaire, o la Pentecoste per gli Inni sacri di Manzoni. Gli studenti non sanno enunciare un dogma quando si parla di principio d’autorità nell’Illuminismo, non sanno dire cosa sia un salmo quando si incontrano i versi struggenti di Quasimodo “alle fronde dei salici per voto,/ anche le nostre cetre erano appese,/ oscillavano lievi al triste vento”. E spesso neppure sanno cosa sia un voto diverso da quello di scuola.
Oggi la scuola è davvero l’ultimo splendido laboratorio della nostra convivenza e l’esperienza religiosa, che per tanti, per la maggior parte di noi, è sì storia, cultura, passato ma anche fondamento e insieme spiraglio di un futuro possibile, deve trovare un posto preservato dalla strumentalizzazione politica, difeso attraverso la sobrietà delle parole e dei toni. Chi crede sa che la fede non ha bisogno dell’IRC, ma del nostro dar ragione della speranza che viviamo, lungo tutto il laico comune costruire insieme i giorni che ci sono dati.
Ai ragazzi a scuola si deve dare la consapevolezza che l’allargarsi dell’umano alla dimensione dello spirito non è un abbaglio, ma una possibilità che moltitudini prima di loro e intorno a loro hanno conosciuto e conoscono. E nella pace possono coltivare. Un parlar di Dio a scuola che venga dalla vittoria di un malsano accanito combattersi è sempre una sconfitta.
L’operazione-anestesia sul cardinal Martini
di Vito Mancuso (la Repubblica, 9 settembre 2012)
Con uno zelo tanto impareggiabile quanto prevedibile è cominciata nella Chiesa l’operazione anestesia verso il cardinal Carlo Maria Martini, lo stesso trattamento ricevuto da credenti scomodi come Mazzolari, Milani, Balducci, Turoldo, depotenziati della loro carica profetica e presentati oggi quasi come innocui chierichetti.
A partire dall’omelia di Scola per il funerale, sulla stampa cattolica ufficiale si sono susseguiti una serie di interventi la cui unica finalità è stata svigorire il contenuto destabilizzante delle analisi martiniane per il sistema di potere della Chiesa attuale. Si badi bene: non per la Chiesa (che anzi nella sua essenza evangelica ne avrebbe solo da guadagnare), ma per il suo sistema di potere e la conseguente mentalità cortigiana.
Mi riferisco alla situazione descritta così dallo stesso Martini durante un corso di esercizi spirituali nella casa dei gesuiti di Galloro nel 2008: “Certe cose non si dicono perché si sa che bloccano la carriera. Questo è un male gravissimo della Chiesa, soprattutto in quella ordinata secondo gerarchie, perché ci impedisce di dire la verità. Si cerca di dire ciò che piace ai superiori, si cerca di agire secondo quello che si immagina sia il loro desiderio, facendo così un grande disservizio al papa stesso”.
E ancora: “Purtroppo ci sono preti che si propongono di diventare vescovi e ci riescono. Ci sono vescovi che non parlano perché sanno che non saranno promossi a sede maggiore. Alcuni che non parlano per non bloccare la propria candidatura al cardinalato. Dobbiamo chiedere a Dio il dono della libertà. Siamo richiamati a essere trasparenti, a dire la verità. Ci vuole grande grazia. Ma chi ne esce è libero”.
Quello che è rilevante in queste parole non è tanto la denuncia del carrierismo, compiuta spesso anche da Ratzinger sia da cardinale che da Papa, quanto piuttosto la terapia proposta, cioè la libertà di parola, l’essere trasparenti, il dire la verità, l’esercizio della coscienza personale, il pensare e l’agire come “cristiani adulti” (per riprendere la nota espressione di Romano Prodi alla vigilia del referendum sui temi bioetici del 2005 costatagli il favore dell’episcopato e pesanti conseguenze per il suo governo). È precisamente questo invito alla libertà della mente ad aver fatto di Martini una voce fuori dal coro nell’ordinato gregge dell’episcopato italiano e a inquietare ancora oggi il potere ecclesiastico.
Diceva nelle Conversazioni notturne a Gerusalemme: “Mi angustiano le persone che non pensano, che sono in balìa degli eventi. Vorrei individui pensanti. Questo è l’importante. Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti”. Ecco il metodo-Martini: la libertà di pensiero, ancora prima dell’adesione alla fede.
Certo, si tratta di una libertà mai fine a se stessa e sempre tesa all’onesta ricerca del bene e della giustizia (perché, continuava Martini, “la giustizia è l’attributo fondamentale di Dio”), ma a questa adesione al bene e alla giustizia si giunge solo mediante il faticoso esercizio della libertà personale. È questo il metodo che ha affascinato la coscienza laica di ogni essere pensante (credente o non credente che sia) e che invece ha inquietato e inquieta il potere, in particolare un potere come quello ecclesiastico basato nei secoli sull’obbedienza acritica al principio di autorità. Ed è proprio per questo che gli intellettuali a esso organici stanno tentando di annacquare il metodo-Martini.
Per rendersene conto basta leggere le argomentazioni del direttore di Civiltà Cattolica secondo cui “chiudere Martini nella categoria liberale significa uccidere la portata del suo messaggio”, e ancor più l’articolo su Avvenire di Francesco D’Agostino che presenta una pericolosa distinzione tra la bioetica di Martini definita “pastorale” (in quanto tiene conto delle situazioni concrete delle persone) e la bioetica ufficiale della Chiesa definita teorico-dottrinale e quindi a suo avviso per forza “fredda, dura, severa, tagliente” (volendo addolcire la pillola, l’autore aggiunge in parentesi “fortunatamente non sempre”, ma non si rende conto che peggiora le cose perché l’equivalente di “non sempre” è “il più delle volte”).
Ora se c’è una cosa per la quale Gesù pagò con la vita è proprio l’aver lottato contro una legge “fredda, dura, severa, tagliente” in favore di un orizzonte di incondizionata accoglienza per ogni essere umano nella concreta situazione in cui si trova.
Martini ha praticato e insegnato lo stesso, cercando di essere sempre fedele alla novità evangelica, per esempio quando nel gennaio 2006 a ridosso del caso Welby (al quale un mese prima erano stati negati i funerali religiosi in nome di una legge “fredda, dura, severa, tagliente”) scrisse che “non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete - anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite - di valutare se le cure che gli vengono proposte sono effettivamente proporzionate”. Questa centralità della coscienza personale è il principio cardine dell’unica bioetica coerente con la novità evangelica, mai “fredda, dura, severa, tagliente”, ma sempre scrupolosamente attenta al bene concreto delle persone concrete.
Martini lo ribadisce anche nell’ultima intervista, ovviamente sminuita da Andrea Tornielli sulla Stampa in quanto “concessa da un uomo stanco, affaticato e alla fine dei suoi giorni”, ma in realtà decisiva per l’importanza dell’interlocutore, il gesuita austriaco Georg Sporschill, il coautore di Conversazioni notturne a Gerusalemme.
Ecco le parole di Martini: “Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti”. È questo il metodo-Martini, è questo l’insegnamento del Vaticano II (vedi Gaudium et spes 16-17), è questo il nucleo del Vangelo cristiano, ed è paradossale pensare a quante critiche Martini abbia dovuto sostenere nella Chiesa di oggi per affermarlo e a come in essa si lavori sistematicamente per offuscarlo.
SCUOLA "RE-PUBBLICANA" O SCUOLA "FARISAICA"?!
UNA QUESTIONE EUROPEA, EPOCALE: OSSERVAZIONI SULLA MORALE CATTOLICA ...
A SCUOLA, COME in FRANCIA? NO! A SCUOLA, IN ITALIA, DI "MORALE LAICA" NON SE NE DEVE PARLARE PROPRIO!!! Una nota di Maurizio Viroli - con appunti
L’IMMAGINARIO MITOLOGICO DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA:
"Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio"(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, La Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
Natale: regalo vuol dire amore, non importa quanto costa
di don Paolo Farinella ( “domani”, 5 dicembre 2011)
Non ho niente contro e regali e contro il presepe, figuriamo se perdo tempo contro i mulini a vento con tutto quello che c’è fare sulle strade dei senza dimora e nell’aiuto a persone che non riescono nemmeno a trovare un riparo per sé e i propri figli. In fondo Gesù è stato fortunato: ha trovato riparo in un caravanserraglio, ha avuto il riscaldamento naturale delle eventuali bestie presenti, non ha patito la solitudine e l’abbandono perché gli angeli hanno sostituito il carillon e i pastori hanno provveduto al latte prescritto dal pediatra.
Il presepe è un segno, solo un segno, ma come tutti i segni deve essere vero e trasparente. Se diventa solo poesia e scusa per distogliere gli occhi dalla strada, allora è un inganno e una truffa e come fece Mosè che spezzò le tavole della Toràh contro il vitello d’oro, bisognerebbe annientarlo e buttarlo via. Tutto dipende dal cuore e dalle intenzioni. Se il presepe ci richiama all’esigenza di incarnare la nostra fede nella vita e nella storia facendoci carico dei tanti, troppi «Gesù Bambini» che non hanno nemmeno la stalla, la greppia e la mangiatoia per riparasi dal vento e dal freddo, dalla fame e dalla sete, allora sono il primo a fare non uno ma cento, mille presepi.
Ad una condizione, però: chi attacca gli immigrati come causa dei mali italiani e pericolo per i posti di lavori che i nostri figli non vogliono fare e chi bestemmia contro i barboni perché sporcano le nostre città, costoro non possono in coscienza fare il presepio perché commettono un peccato che non sarà perdonato né in cielo né in terra perché è un peccato contro lo Spirito Santo. Chi è xenofobo, egoista, berlusconista, bossiano o bossita ed appoggia partiti che mettono in atto politiche di esclusione, non può fare il presepio perché rinnega Dio e la dignità umana che è il cuore dell’incarnazione di Dio.
Natale è riscatto dell’umanità, di tutta l’umanità di ogni umanità. Dio lo fa e tu?
Il regalo è un gesto umano e carico di sentimento. Quando uno fa un regalo, mette in esso il meglio di sé e lo consegna alla persona a cui fa il regalo. Se poi il regalo ricevuto è inatteso è ancora più bello perché è il simbolo del pensiero di chi lo fa senza aspettarsi un cambio. Fare un regalo è nell’ordine della natura e dell’autenticità del cuore. Per questo il regalo deve essere libero, sincero, espressione del profondo, segno espressivo di qualcosa di più grande che supera lo stesso gesto. Poiché uno non riesce ad esprimere con le sue capacità tutto l’amore che racchiude in sé si affida ad un regalo per dire l’indicibile. Il regalo è lì, osservato, guardato, interiorizzato: è il sigillo di un amore senza parole e senza null’altro che l’amore. Il regalo esprime l’unicità di chi lo riceve per chi lo fa.
Se però il regalo si fa perché lo si deve fare, perché è tempo di Natale e quindi di regali, perché lo impone la società, perché è San Valentino, la festa della mamma, del papà, dei nonni, del lusco e del brusco e tutti gli scemi corrono dietro al mercato che impone le sue esigenze e i suoi tempi, ammazzando lo spirito del regalo, allora no, allora è pura prostituzione: potrebbe significare che si fa un regalo perché obbligato, ma non parte dal profondo del cuore.
Ecco perché dico, a Natale non fate regali e ditelo: «non faccio regali a comando, io faccio solo regali d’amore». A Natale, uscite dalla chiese, luoghi spesso senza Dio, e andate a cercare quel Gesù Bambino smarrito e senza casa, abbandonato da tutti e dalla società dei regali e fatevene carico. Solo così Gesù non nasce più perché lui è nato ed è per sempre, ma possiamo rinascere noi come nuove creature che hanno fatto un passo in più alla ricerca del vero volto del Dio di Gesù Cristo. Vivere tutto questo da soli è buono, ma viverlo in comunità e insieme è ancora più «segno» ancora più «dirompente».
PER L’ITALIA, PER L’EUROPA, E PER L’INTERA umanita’: RIPENSARE LA RELAZIONE TRA MARIA, GIUSEPPE, E L’AMORE (CHARITAS !!!) - LA "SACRA" FAMIGLIA - E RESTITUIRE L’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE !!! (fls)
Il discorso dell’Hofburg
Avvocato della causa umana
Luigi Geninazzi
Che l’Europa non sia solo un’espressione geografica o un progetto politico ma abbia «qualcosa a che fare con l’anima», lo diceva già il filosofo Jan Patocka. C’è però il rischio di scivolare nel vago idealismo, quello che ha fatto scrivere tante pagine sulla necessità d’infondere uno slancio spirituale ad una realtà che ha ben altri corposi interessi, materiali e ideologici. La riflessione offerta da Benedetto XVI ai rappresentanti politici austriaci e ai diplomatici accreditati a Vienna rovescia i termini della questione: la fede non è un supplemento d’anima per un continente in crisi, è invece l’Europa che per essere se stessa deve fare i conti con l’umanesimo cristiano.
È un pronunciamento d’ampio respiro e di grande rigore intellettuale quello tenuto dal Pontefice nell’ex palazzo imperiale della città «crocevia» del mondo e cuore dell’Europa. Come già la lezione di un anno fa a Ratisbona il discorso di ieri alla Hofburg conferma la fiducia luminosa di Papa Ratzinger nell’argomentazione razionale innervata dalla fede. Qual è infatti la caratteristica fondamentale dell’Europa? È «la capacità autocritica che la distingue e la qualifica nel vasto panorama delle culture del mondo». Se è vero infatti, continua Benedetto XVI, che nel nostro continente è stato formulato per la prima volta il concetto di diritti umani va anche riconosciuto che il diritto fondamentale, presupposto di ogni altro, è il diritto alla vita. Lo dice senza alzare la voce, con aria mite e logica ferrea. Non lancia anatemi, non crea nuovi dogmi. Parla come avvocato della causa umana e non per difendere «un interesse specificamente ecclesiale». Sull’aborto fa una notazione interessante che desume dalla legislazione austriaca dove l’interruzione volontaria della gravidanza viene permessa, ma al tempo stesso definita illecita e ingiusta. Insomma, è un reato, sia pur depenalizzato, e non un diritto come richiedono femministe e radicali. Mantenere questo carattere di profonda ingiustizia sign ifica non lasciar cadere la contraddizione che lacera la patria del diritto.
Il messaggio è chiaro: per rendere abitabile e gradevole «la casa Europa» occorre trasformarla nella casa della vita. Il che implica tra l’altro che l’accompagnamento alla morte venga fatto «con un’attenzione amorevole e non come un attivo aiuto a morire». Contro l’aborto, l’eutanasia e il crollo demografico il Papa chiama tutti i responsabili politici, siano essi credenti o non credenti. Torna qui un leit-motiv di questo pontificato, «l’allargamento della ragione» che trova nella fede un sostegno decisivo. «Non c’è alternativa all’universalismo egualitario ereditato dal cristianesimo », afferma citando Habermas, il filosofo tedesco con cui ha dialogato l’allora cardinale Ratzinger. Solo un’Europa cosciente di questo, e quindi rispettosa delle proprie radici cristiane, può diventare un modello e reggere la grande sfida della globalizzazione.
Nel suo discorso a Vienna, il Papa ha toccato tutti i punti caldi del dibattito europeo, dal processo di unificazione che valuta positivamente (anche se non risparmia un’annotazione critica nei riguardi di «qualche istituzione comunitaria») fino alla responsabilità, definita «unica», nell’impegno per la pace e nella lotta alla povertà. È questa l’Europa di Benedetto, per dirla col titolo di un libro scritto qualche anno fa da Ratzinger. Un’Europa che sa fare autocritica.
L’IO-INDIVIDUO, L’IO-PERSONA, E IL "PADRE NOSTRO".
Una lettera-riflessione di Aldo [don Antonelli] *
Domenica scorsa, in parrocchia, si sono festeggiati i santi patroni (e non i santi padroni!). Al momento del Padre Nostro mi sono permesso di osservare che la nostra preghiera è il contrario di quella insegnataci da Gesù (Mt 6, 9-13). Noi, infatti, chiediamo quasi sempre che sia fatta la nostra volontà. E non ci interessa molto sapere qual è invece la sua. I cui contenuti, la preghiera del Padre nostro, ce li rivela nella seconda parte: che ci sia pane per tutti, condiviso, che ci si dia reciprocamente il perdono, che non si soccomba nel tempo della prova, che si sia liberati da ogni male. Tutto, rigorosamente, al plurale. Per ricordarci che l’egoismo, materiale e spirituale (il pane, i beni, la salute, il lavoro, ma anche la grazia, la santità, la salvezza, per me e non per tutti), è già e sempre peccato. Vivere come figli dell’unico Padre, solidali fino in fondo: questa, e non altra, è la Sua volontà, in questo consiste il Suo regno, così il suo Nome è dichiarato santo. Diversamente siamo figli del diavolo. Ora, pregare, più che invocare qualcosa come dono dall’alto, è, dovrebbe essere, un ripeterci costante il desiderio di Dio (per questo Gesù dice che bisogna pregare senza sosta), e assumerlo, farlo nostro, viverlo, lottare per attuarlo.
Concludevo che per un cristiano, di fronte a Dio, non esiste il singolare (io, l’individuo), ma il plurale (noi, la comunità).
Apriti cielo!
Dopo la Messa un amico ha lamentato il mio "essere comunista" che si infiltra anche nella celebrazione della Messa! (sic!). A questo amico, che mi legge assieme a voi, vorrei ricordare la fondamentale distinzione che corre tra "INDIVIDUO" e "PERSONA". E lo faccio col citarvi Raimond Panikkar di cui sto leggendo sul numero 5 di InterCulture dello scorso anno un ottimo studio.
Scrive Panikkar:
"La persona deve essere distinta dall’individuo. L’individuo non è altro che una semplice astrazione, cioè la selezione, a scopi pratici, di alcuni aspetti della persona. La mia persona, invece, si trova anche nei ’miei’ genitori, nei ’miei’ figli, nei ’miei’ amici, nei ’miei’ nemici, nei ’miei’ antenati e nei ’miei’ discepoli. La mia persona si trova anche nelle ’mie’ idee, nei ’miei’ sentimenti e nei ’miei’ averi... Un individuo è un nodo isolato; una persona è tutto il tessuto che sta intorno a quel nodo, frammento del tessuto totale che costituisce il reale.E’ innegabile che il tessuto, senza i nodi, si disferebbe; ma i nodi, senza il tessuto, non esisterebbero neppure. Una difesa troppo accanita dei miei diritti ndividuali, ad esempio, può comportare ripercussioni negative, cioè ingiuste, su altri e forse anche su me stesso".
Questo per oggi.
Un abbraccio
Aldo [don Antonelli]