MATTUTINO,
il razzismo
di G. Ravasi (Avvenire 13 Luglio 2007)
Il pregiudizio razziale troverà sempre un fertile terreno in quella piccola e debole cosa che è il cervello umano.
Amo viaggiare anche in città sui mezzi pubblici. L’altra notte, rientrando da un viaggio, ho preso al volo una delle ultime corse della metropolitana milanese dalla Stazione Centrale al Duomo. Ho guardato i miei compagni di viaggio all’interno di quel vagone. Io ero l’unico bianco. Mi è sembrato di aver davanti una parabola del nostro futuro, quando la miscela dei popoli sarà così densa da rendere comune una simile esperienza. Capisco, però, che tutto questo avverrà con fatica: le paure reciproche sono costantemente in agguato e possono esplodere con veemenza. E uno dei primi fuochi devastanti è quello del razzismo, come dice la frase che ho sopra proposto e che non a caso è di uno scrittore afro-americano, James Baldwin (1924-1987), un autore fortemente impegnato nella sua patria sul tema dei diritti civili e dell’integrazione.
Il razzismo pacchiano e isterico del nazismo, quello un po’ ridicolo e fanfarone del fascismo, la xenofobia che ancor oggi serpeggia sotto apparenti forme di autodifesa nasce appunto dalla paura dell’altro e del diverso.
Certo, la coesistenza delle differenze è spesso ardua ed esige un lavoro paziente di dialogo e di rispetto da entrambe le parti. Tuttavia la brutalità del rigetto razzista, oltre a non risolvere i problemi, anzi a renderli più tesi, non libera dai timori e rende la vita piena di fiele e di acrimonia.
«Dio creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitassero sulla faccia della terra», dice s. Paolo ad Atene (Atti 17, 26). Cerchiamo di tirar fuori da noi e dagli altri l’Adamo, cioè l’umanità che tutti ci accomuna.
Gianfranco Ravasi
L’abbé Grégoire, precursore della lotta contro il razzismo
dii Edoardo Castagna (Avvenire, 13.07.2007)
Non siamo ancora riusciti a sbarazzarci dell’idea di razza. Ancora oggi, è senso comune ripartire l’umanità in gruppi, più o meno chiusi, secondo l’idea che le differenze fisiche tra gli uomini siano indice di appartenenza a un determinato sottoinsieme della grande famiglia umana. Criterio principe di questa catalogazione, il colore della pelle. A nulla sono valsi, finora, i richiami di chi di queste cose se ne intende - genetisti in primis: la razza umana è una sola, fatta di tanti individui dalle infinite variabilità. A nulla è valso rilevare come certe caratteristiche fisiche siano, sì, più concentrate in alcune aree del globo, ma che da questo a tracciare linee di confine nette ne passa.
Per questo è particolarmente utile rileggersi il brillante pamphlet scritto nel lontano 1826 da Henri Grégoire, il poliedrico vescovo della Rivoluzione francese, ardente repubblicano e oppositore della prima ora di Napoleone, nonché precursore di ogni battaglia contro il razzismo. La nobiltà della pelle non è infatti soltanto un classico del pensiero abolizionista sulla schiavitù, ma anche una delle prime indagini sul retroterra, culturale e politico, del razzismo. Grégoire affronta con taglio schietto e diretto, la più generale questione del pregiudizio e del suo ruolo storico e politico, per poi soffermarsi su quello legato ai diversi colori della pelle. «Avvilire gli uomini - scrive Grégoire - è lo strumento per renderli vili»: ed ecco la severa denuncia morale dell’atteggiamento dei negrieri e degli schiavisti, che condannano le loro vittime a un contesto fatto soltanto di vizio, di ignoranza della religione, di sfruttamento come bestie da soma.
L’abbé Grégoire passa poi al contrattacco: «Solo il delirio potrebbe supporre che l’affetto e l’odio, la stima e il disprezzo formino delle scale applicabili proporzionalmente ai colori puri e alle tonalità intermedie della specie umana». Soprattutto quando è l’esperienza a mostrare che, «dal bianco al nero, su cento volti se ne vedevano a stento due che fossero dello stesso colore». E si appoggia sia sui principi universalisti laici della Rivoluzione francese, sia su quelli, altrettanto universali ma sorretti dalla fede, della Chiesa cattolica che «ha ripudiato questo pregiudizio» e ha fatto prassi, da millenni, che «nel suo seno non v’è alcuna distinzione di colore nella ripartizione dei beni spirituali».
Il pamphlet, seppur breve, è tuttavia completo; non manca l’indicazione dei mezzi pratici per il superamento del pregiudizio, mettendo in prima fila la responsabilità dei legislatori e degli uomini di Chiesa. E, a mo’ di conclusione, anche quello degli intellettuali.
Henri Grégoire
La nobiltà della pelle
Medusa. Pagine 78. Euro 11,00
In Olanda si sopprimono bambini con iniezioni letali: la magistratura olandese ha autorizzato la clinica universitaria della città di Groningen (Azg) a praticare l’eutanasia su bambini sotto i 12 anni di età, inclusi i neonati: «si tratta dell’uccisione volontaria di un essere umano che non si può pronunciare. Uccisione volontaria di un essere umano che non può dire che cosa pensa» (Gonzalo Miranda). In realtà, dietro questa decisione, c’è il riemergere della mentalità del razzismo eugenetico. «Questa mentalità eugenetica è già applicata con la pratica dell’aborto. Se ci fosse stata una diagnosi che avesse scoperto la malattia durante la gravidanza, probabilmente il bambino non sarebbe mai nato. Siccome è sfuggito a quel controllo allora si fa l’eutanasia dopo la nascita. Si tratta di una pratica con cui vengono eliminati gli esseri umani considerati "non validi". Esattamente una pratica eugenetica di eliminazione di quello che alcuni valutano come "difettoso"» (Gonzalo Miranda).
L’ideologia del razzismo eugenetico nasce con la Rivoluzione francese: nel settembre del 1792 i carnefici della Comune attuano la liquidazione eugenetica non solo dei sacerdoti ma dei ritardati mentali, dei disadattati, delle ragazze chiuse in riformatorio. Il Ministero degli interni giudica i massacri «molto utili per la felicità futura della specie umana». Gli uomini - filosoficamente puri - della Comune ordinano l’annientamento di tutti coloro che sono considerati "intellettualmente impuri": i malati, gli idioti, gli stolti, in breve tutti coloro che possono rappresentare un insulto al Contratto Sociale ideale del maestro dei sanculotti, Jean-Jeacques Rousseau.
L’ignominia del massacro eugenetico di settembre è il MODELLO dell’operazione T4 nazionalsocialista.
Il programma di eutanasia di Hitler era rigorosamente riservato ai tedeschi, e solo più tardi venne esteso alle altre etnie considerate razzialmente "difettose". Il programma nazista era finalizzato ai bambini nati con malattie che, secondo il loro punto di vista, ne minacciavano l’integrità fisica. Il primo caso di eutanasia, in Germania, fu praticato su un bambino che aveva il labbro leporino. Avvenne su richiesta dei genitori, i quali, temendo che avrebbe avuto una vita infelice, chiesero aiuto ai dottori del regime hitleriano, che consigliarono l’Eutanasia. Hitler, fin dal 1929, a Norimberga, aveva affermato: «Sparta deve essere un modello per la Germania perché stermina i suoi figli più deboli. In questo modo rinasce la forza». Anche Rousseau affermava che «Tutta la Grecia era corrotta ma vi era ancora virtù a Sparta».
Attraverso l’aborto, l’eutanasia, la selezione embrionale si introduce il principio razzista secondo cui l’essere umano "difettoso" può essere eliminato da quello non difettoso: il più forte ha il diritto di eliminare il più debole.
(Bruto Maria Bruti, 13 settembre 2004)
Tra Ratzinger e il diavolo
di GIAN ENRICO RUSCONI (LA Stampa, 17/7/2007)
Nel suo «discorso pubblico» un cardinale afferma che la Chiesa è rimasta l’unica istituzione in Italia in grado di difendere la famiglia. Raccoglie l’applauso del pubblico.
Applaudono in prima fila anche quelli che la Conferenza episcopale italiana certifica come i «veri laici», includendovi pure gli agnostici che di Dio, di Cristo o della storia della Chiesa non sanno quasi nulla, ma stanno dalla parte della Chiesa contro la (presunta) deriva lassista e illuministica della società contemporanea e contro l’islamismo strisciante.
In effetti, oggi il consenso alla Chiesa può fare a meno di qualunque informazione e competenza teologica. L’età post-secolare si presenta anche come l’età dell’impoverimento del quadro teologico, quantomeno nell’ambito del discorso pubblico che sta a cuore alla Chiesa di oggi. Conosco le seccate obiezioni di quanti mi accusano di essere disinformato non solo del fervore delle nicchie teologiche specializzate, ma anche dei libri che ogni anno escono in Italia e che sono esposti nelle vetrine delle grandi librerie laiche. In realtà si tratta per lo più di opere di dottrina morale o di esegesi biblico-evangelica, dove i riferimenti teologici sono soltanto di supporto e funzionali alle raccomandazioni morali. Si confonde la letteratura religiosa edificante con la riflessione teologica. Un sintomo grottesco è stato quello di uno zelante cardinale che in occasione della festa di Natale (evento fondante della teologia dell’incarnazione) non ha trovato di meglio - nel clima dell’offensiva contro «le coppie di fatto» - che parlare della grotta di Betlemme come del luogo in cui c’era la «vera famiglia».
Nell’attuale ritorno del classico tema «ragione e fede», che rimette in circolazione i non meno classici motivi contrapposti, chi esce perdente è la ragionevolezza. È sconfitto cioè chi non vuol «vincere», chi non intende imporre le sue convinzioni ma vuole creare una comunità di cittadini che si parlano seriamente, partendo dalla constatazione che su alcune «verità» importanti non c’è possibilità di convergenza tra differenti convinzioni. Eppure è necessario creare un ragionevole modo di vivere insieme. Solo la ragionevolezza (che viene diffamata come relativismo) può costruire una società di cittadini maturi.
In questo contesto va collocato anche uno dei motivi-guida del pensiero di Papa Ratzinger: la razionalità della fede. La strategia ratzingeriana conferma e insieme tenta di controbattere l’impoverimento teologico nella comunicazione pubblica della Chiesa, di cui parlavo sopra. Quello della razionalità della fede è il tema centrale nella complessa attività espressiva del Pontefice, che pure spazia negli ambiti più diversi. Oggi polarizza l’opinione pubblica soprattutto attorno al recupero delle forme della traditio cristiana. Ma anche la reinvenzione della tradizione (tale è la Messa in latino) rientra nello sforzo di trovare attraverso le antiche radici greco-latine la ratio cristiana. Questa tematica lascia con discrezione sullo sfondo i grandi temi teologici della redenzione, della colpa originale, della salvezza o della dottrina trinitaria, che sono diventati troppo ostici e difficili da spiegare a un pubblico religiosamente deculturalizzato come l’attuale. Si concentra su argomenti apparentemente più accessibili e universali come la «natura /natura umana» e appunto «la razionalità».
Parte decisiva dell’operazione ratzingeriana che declina il discorso religioso con le categorie del logos e della ragione, è il richiamo all’originaria ellenizzazione del cristianesimo. Con questo concetto si intende l’operazione culturale con la quale, tra il II e il IV secolo, gli esponenti più qualificati della Chiesa in formazione hanno strutturato, tramite categorie prese dalla tradizione platonica, i dogmi originari del cristianesimo - non senza profondi traumi e laceranti conflitti. Ma Ratzinger non si cura di quei conflitti: a lui preme presentare l’ellenizzazione come riuscito e insuperabile modello del rapporto tra ragione e fede.
Il tema dell’ellenizzazione / disellenizzazione del messaggio cristiano - fortemente sviluppato nella lezione di Ratisbona - ha colto di sorpresa e impreparati i commentatori cattolici nostrani. Ha provocato invece una vivace reazione polemica nel mondo protestante tedesco e americano e, in generale, là dove esiste ancora una cultura storica e religiosa degna di questo nome.
Da noi invece i commentatori del discorso papale continuano a elogiare soltanto l’argomento (certamente centrale) che l’autentica ragione religiosa è nemica della violenza, non solo della violenza maldestramente attribuita all’Islam con l’infelice citazione dell’imperatore bizantino poi chiarita, ma anche della violenza del nichilismo contemporaneo e dello scientismo, da cui discenderebbe il disprezzo dei valori dell’uomo.
Ma se si esamina attentamente l’argomentazione di Ratzinger si arriva presto alla conclusione che il suo bersaglio non è lo scientismo, bensì la razionalità scientifica stessa, vista come riduzione dell’orizzonte della vera ragione che si proietta verso il trascendente. Insomma la vera ragione per il Papa è «la ragione della fede», quella «che s’interroga su Dio».
A questo punto viene il dubbio se Ratzinger, nonostante la sua dichiarata ammirazione per la conoscenza scientifica, non ne disconosca di fatto l’essenziale. Che la ragione sia limitata lo sappiamo da sempre, in modo sistematico nell’età moderna a partire da Kant, verso il quale Ratzinger invece formula un giudizio sorprendentemente negativo. Ma se Ratzinger accetta l’autonomia della logica e della ricerca scientifica soltanto in una logica di subalternità alla ragione religiosa, se nega alla scienza la capacità autonoma di conoscenza sull’uomo e sulla natura, nega di fatto l’essenza stessa della ragione moderna.
Non sono io a dirlo, ma Jürgen Habermas, che i cattolici additano volentieri come il partner laico ideale del discorso religioso, fraintendendo e trasfigurando il suo colloquio con l’allora cardinale Ratzinger (in realtà si è trattato di un dialogo finto, dettato da reciproca cortesia intellettuale). Ebbene il Pontefice - ha scritto Habermas - «ha dato al vecchio dibattito sulla ellenizzazione e disellenizzazione del cristianesimo una svolta inattesa nel senso di una critica alla modernità.
Con questo, ha fornito anche una risposta negativa alla domanda se la teologia cristiana deve tenere conto delle sfide della ragione moderna, post-metafisica». Ogni possibilità di dialogo viene annientato alla radice.