Dionigi e la via dell’invisibile
Esce una raccolta con tutte le opere di un autore anonimo del V-VI secolo che nei suoi scritti usò lo pseudonimo di Areopagita come il giudice ateniese convertito alla fede cristiana dopo aver ascoltato i discorsi di Paolo di Tarso Un corpus di testi profondi che unisce la spiritualità ellenica alla verità del Cristianesimo. E propone una mistica aperta, come cammino dell’anima verso Dio, che si rivela quanto mai attuale nel dialogo con le teologie asiatiche
di FRANCESCO TOMATIS (Avvenire, 19.09.2009)
Malgrado i dubbi sollevati da umanisti come Lorenzo Valla e Erasmo da Rotterdam, occorrerà attendere il XIX secolo perché i filologi si convincano dell’impossibilità d’attribuire al Dionigi di cui narrano gli Atti degli Apostoli (XVII 16-34), giudice ateniese convertito alla fede cristiana da San Paolo in seguito al suo discorso nell’Areopago, lo straordinario corpus di scritti in lingua greca che va sotto il suo nome. Dopo una traduzione siriaca e gli scoli di Giovanni di Scitopoli (530), i commentari di Massimo il Confessore ( VII secolo) ne diffusero la conoscenza fra i teologi bizantini, da Giovanni Damasceno a Gregorio Palamas.
Nel IX secolo, con Giovanni Scoto Eriugena, le opere di Dionigi Areopagita iniziarono a esser largamente studiate in Occidente. Seguirono i maestri vittorini, scolastici come Roberto Grossatesta, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Bonaventura da Bagnoregio, la mistica speculativa da Guglielmo di Saint-Thierry, Meister Eckhart e Johannes Tauler a Jean Gerson e Juan de la Cruz, per giungere sino a Nicola Cusano, Marsilio Ficino, Schelling. La stessa Divina Commedia di Dante Alighieri ne è fortemente debitrice.
Non mancano teologi contemporanei che vi si siano ispirati: Edith Stein, Vladimir Lossky, Hans Urs von Balthasar, Bruno Forte e Joseph Ratzinger.
Benedetto XVI ha dedicato il proprio discorso dell’udienza generale del 14 maggio 2008 interamente a Dionigi Areopagita * [vedi sotto. fls], sottolineando che il suo pensiero teologico come ha saputo valorizzare il neoplatonismo di Proclo in ottica cristiana, attraverso la comprensione che parlare di Dio è sempre un cantare le lodi di Dio assieme a tutte le sue creature (e ciò ben compresero Francesco d’Assisi e il suo discepolo Bonaventura da Bagnoregio), unendo quindi spiritualità ellenica e verità cristiana, così può essere attualissimo oggigiorno nel dialogo fra cristianesimo e teologie mistiche asiatiche, poiché la sua mistica intesa come cammino dell’anima verso Dio, luce inaccessibile, può unire ogni credente che umilmente sappia di poter dire Dio solo in negativo, non certo fissandolo idolatricamente, sino all’accoglimento per grazia del suo gratuito farsi dono (infatti la via a Dio infine è Dio stesso), come in Gesù Cristo s’è rivelato.
Benché sia stato collocato fra il V e il VI secolo, quindi successivamente a Proclo (412-485), di cui risulta un preciso influsso, s’ignora la personalità storica a cui attribuire il corpus dionisiano, composto, oltre che da dieci Lettere indirizzate a ipotetici personaggi dell’età apostolica, da quattro importantissimi trattati: Gerarchia celeste, Gerarchia ecclesiastica, Nomi divini, Teologia mistica.
Ciascuno di essi ha avuto un’incisività su ampi ambiti della teologia e non solo, tanto da risultare essenziali per la comprensione di iconologia, storia dell’arte, liturgia, mistica e letteratura dei secoli successivi. Un evento sia per gli specialisti sia per un più ampio pubblico è dunque l’edizione italiana, nella collana Il pensiero occidentale Bompiani, di Tutte le opere di Dionigi Areopagita, con testo originale a fronte e apparati critici, curata da Piero Scazzoso, Enzo Bellini e Ilaria Ramelli, accompagnata da illuminanti saggi di Giovanni Reale e Carlo Mario Mazzucchi.
Se l’attribuzione di tali opere a Dionigi Areopagita, discepolo diretto di san Paolo, ha contribuito decisivamente alla diffusione e attenta lettura, tuttavia rimane una loro unicissima importanza anche in seguito alla postdatazione.
In esse abbiamo infatti una straordinaria fusione di teologia biblica e filosofia greca neoplatonica, di metodo conoscitivo e teurgico, sapienziale e esperienziale, teologico e mistico per avvicinarsi a Dio, sino all’unificazione. Ciò malgrado una scarsa presenza delle questioni dogmatiche dei primi concili cristiani, forse al fine di tenersi lontano dalle accese dispute ecclesiali, mirando più direttamente alla verità che non alla confutazione di differenti tesi.
Una duplice operazione in uno effettua lo pseudo Dionigi Areopagita: ellenizzazione del cristianesimo e cristianizzazione del neoplatonismo. Nella Gerarchia celeste e nella Gerarchia ecclesiastica troviamo una sistematizzazione dell’angelologia e della liturgia cristiana, assieme a una vera e propria teologia simbolica. A terne superiori angeliche, composte in gerarchie di Serafini, Cherubini e Troni, Dominazioni, Virtù e Potestà, Principati, Arcangeli e Angeli, corrispondono quelle inferiori di sacramenti, iniziatori e iniziati, che ordinano discensivamente i gradi ecclesiastici in battesimo, eucaristia e consacrazione del sacro unguento, vescovi, presbiteri e diaconi, monaci, popolo santo e purificati (grado suppletivo la sepoltura).
Attraverso simboli sensibili e intellegibili è possibile l’avvicinamento dell’uomo a Dio. Teurgia e teologia, operazione divina per mezzo dei simboli sacramentali della liturgia e rivelazione divina attraverso le sacre scritture, permettono all’uomo di elevarsi a Dio, sino al punto in cui solo la grazia divina può soccorrere: perché Dio sta al di là di ogni conoscere e fare umani, oltre persino le purissime intelligenze angeliche. Sono le argomentazioni degli altri due trattati, Nomi divini e Teologia mistica, con la celebre distinzione delle vie teologiche in affermativa e negativa, catafatica e apofatica.
I nomi di Dio dicono finitamente, umanamente, simbolicamente anche ciò che propriamente non è possibile attribuire a Dio: superiore, precedente, più grande di qualsiasi seppur positiva qualificazione se ne possa dare. Eppure essi servono a guidarci verso la sua purissima e invisibile luce onnipotente e eterna. Dio è Bene, Bellezza, Luce, Essere, Vita, Sapienza, Potenza, Pace, Eternità, Perfezione, Causa, Uno... Amore: nomi riconducibili sia a espressioni bibliche, sia alla raffinata teologia proposta da grandi filosofi greci: Platone, Plotino, Proclo.
Tuttavia tali nomi di Dio servono soltanto a condurre la nostra intelligenza verso l’assimilazione a Dio, di fatto né dicibile né intellegibile, l’unificazione dell’uomo con il quale non può avvenire che per suo dono, per grazia, generosa partecipazione. Dio stesso ama di un amore estatico, secondo Dionigi, che lo fa uscire fuori di sé, pur non mutando né esaurendo se stesso, per andare incontro alle creature.
L’amore trinitario che è Dio, dunque, non può essere attinto se non percorrendo, assieme alla via teologica positiva dell’ascesa a lui attraverso i suoi più eccelsi nomi, sempre e solo simbolici, anche la via teologica negativa, che abbandoni le finitezze, sensibili e persino intellegibili, elimini ogni attributo di Dio, trascendendo tutto in un’estasi verso Dio che è piena ignoranza da un punto di vista umanamente conoscitivo. Nella caligine divina, tenebrosa per eccesso di lucore, l’ascesi mistica dell’uomo si compie in un estremo, estatico scioglimento da tutto. Colà, per grazia divina, l’ignoranza umana può esser trasformata in conoscenza di colui che eccede ogni conoscenza: Dio uno e trino, eterna fonte amorevole di ogni creatura e nome al di là di tutti i nomi, il quale attraverso la filantropia di Gesù Cristo permette di comprendere ciascun simbolo e nome, enigma e parabola che ne descriva la presenza nel tempo del mondo creaturale.
Dionigi Areopagita
TUTTE LE OPERE
Bompiani. Pagine 832. Euro 26,50
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UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 14 maggio 2008
Pseudo-Dionigi Areopagita
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei, nel corso delle catechesi sui Padri della Chiesa, parlare di una figura assai misteriosa: un teologo del sesto secolo, il cui nome è sconosciuto, che ha scritto sotto lo pseudonimo di Dionigi Areopagita. Con questo pseudonimo egli alludeva al passo della Scrittura che abbiamo adesso ascoltato, cioè alla vicenda raccontata da San Luca nel XVII capitolo degli Atti degli Apostoli, dove viene riferito che Paolo predicò in Atene sull’Areopago, per una élite del grande mondo intellettuale greco, ma alla fine la maggior parte degli ascoltatori si dimostrò disinteressata, e si allontanò deridendolo; tuttavia alcuni, pochi ci dice San Luca, si avvicinarono a Paolo aprendosi alla fede. L’evangelista ci dona due nomi: Dionigi, membro dell’Areopago, e una certa donna, Damaris.
Se l’autore di questi libri ha scelto cinque secoli dopo lo pseudonimo di Dionigi Areopagita vuol dire che sua intenzione era di mettere la saggezza greca al servizio del Vangelo, aiutare l’incontro tra la cultura e l’intelligenza greca e l’annuncio di Cristo; voleva fare quanto intendeva questo Dionigi, che cioè il pensiero greco si incontrasse con l’annuncio di San Paolo; essendo greco, farsi discepolo di San Paolo e così discepolo di Cristo.
Perché egli nascose il suo nome e scelse questo pseudonimo? Una parte di risposta è già stata data: voleva proprio esprimere questa intenzione fondamentale del suo pensiero. Ma ci sono due ipotesi circa questo anonimato coperto da uno pseudonimo. Una prima ipotesi dice: era una voluta falsificazione, con la quale, ridatando le sue opere al primo secolo, al tempo di San Paolo, egli voleva dare alla sua produzione letteraria un’autorità quasi apostolica. Ma migliore di questa ipotesi - che mi sembra poco credibile - è l’altra: che cioè egli volesse proprio fare un atto di umiltà. Non dare gloria al proprio nome, non creare un monumento per se stesso con le sue opere, ma realmente servire il Vangelo, creare una teologia ecclesiale, non individuale, basata su se stesso. In realtà riuscì a costruire una teologia che, certo, possiamo datare al sesto secolo, ma non attribuire a una delle figure di quel tempo: è una teologia un po’ disindividualizzata, cioè una teologia che esprime un pensiero comune in un linguaggio comune. Era un tempo di acerrime polemiche dopo il Concilio di Calcedonia; lui invece, nella sua settima Epistola, dice: «Non vorrei fare delle polemiche; parlo semplicemente della verità, cerco la verità». E la luce della verità da se stessa fa cadere gli errori e fa splendere quanto è buono. Con questo principio egli purificò il pensiero greco e lo mise in sintonia con il Vangelo. Questo principio, che egli rivela nella sua settima Epistola, è anche espressione di un vero spirito di dialogo: cercare non le cose che separano, cercare la verità nella Verità stessa; essa poi riluce e fa cadere gli errori.
Quindi, pur essendo la teologia di questo autore, per così dire “soprapersonale”, realmente ecclesiale, noi possiamo collocarla nel VI secolo. Perché? Lo spirito greco, che egli mise al servizio del Vangelo, lo incontrò nei libri di un certo Proclo, morto nel 485 ad Atene: questo autore apparteneva al tardo platonismo, una corrente di pensiero che aveva trasformato la filosofia di Platone in una sorte religione filosofica, il cui scopo alla fine era di creare una grande apologia del politeisimo greco e ritornare, dopo il successo del cristianesimo, all’antica religione greca. Voleva dimostrare che, in realtà, le divinità erano le forze operanti nel cosmo. La conseguenza era che doveva ritenersi più vero il politeismo che il monoteismo, con un unico Dio creatore. Era un grande sistema cosmico di divinità, di forze misteriose, quello che mostrava Proclo, per il quale in questo cosmo deificato l’uomo poteva trovare l’accesso alla divinità. Egli però distingueva le strade per i semplici, i quali non erano in grado di elevarsi ai vertici della verità - per loro certi riti anche superstiziosi potevano essere sufficienti - e le strade per i saggi, che invece dovevano purificarsi per arrivare alla pura luce.
Questo pensiero, come si vede, è profondamente anticristiano. È una reazione tarda contro la vittoria del cristianesimo. Un uso anticristiano di Platone, mentre era già in corso un uso cristiano del grande filosofo. È interessante che questo Pseudo-Dionigi abbia osato servirsi proprio di questo pensiero per mostrare la verità di Cristo; trasformare questo universo politeistico in un cosmo creato da Dio - nell’armonia del cosmo di Dio dove tutte le forze sono lode di Dio - e mostrare questa grande armonia, questa sinfonia del cosmo che va dai serafini agli angeli e agli arcangeli, all’uomo e a tutte le creature che insieme riflettono la bellezza di Dio e rendono lode a Dio. Trasformava così l’immagine politeista in un elogio del Creatore e della sua creatura.
Possiamo in questo modo scoprire le caratteristiche essenziali del suo pensiero: esso è innanzitutto una lode cosmica. Tutta la creazione parla di Dio ed è un elogio di Dio. Essendo la creatura una lode di Dio, la teologia dello Pseudo-Dionigi diventa una teologia liturgica: Dio si trova soprattutto lodandolo, non solo riflettendo; e la liturgia non è qualcosa di costruito da noi, qualcosa di inventato per fare un’esperienza religiosa durante un certo periodo di tempo; essa è il cantare con il coro delle creature e l’entrare nella realtà cosmica stessa. E proprio così la liturgia, apparentemente solo ecclesiastica, diventa larga e grande, diventa nostra unione con il linguaggio di tutte le creature. Egli dice: non si può parlare di Dio in modo astratto; parlare di Dio è sempre un hymnèin - un cantare per Dio con il grande canto delle creature, che si riflette e concretizza nella lode liturgica.
Tuttavia, pur essendo la sua teologia cosmica, ecclesiale e liturgica, essa è anche profondamente personale. Egli creò la prima grande teologia mistica. Anzi la parola “mistica” acquisisce con lui un nuovo significato. Fino a quel tempo per i cristiani tale parola era equivalente alla parola “sacramentale”, cioè quanto appartiene al mystèrion, al sacramento. Con lui la parola “mistica” diventa più personale, più intima: esprime il cammino dell’anima verso Dio.
E come trovare Dio? Qui osserviamo di nuovo un elemento importante nel suo dialogo tra filosofia greca e cristianesimo, tra pensiero pagano e fede biblica. Apparentemente quanto dice Platone e quanto dice la grande filosofia su Dio è molto più alto, è molto più “vero”; la Bibbia appare abbastanza “barbara”, semplice, precritica si direbbe oggi; ma lui osserva che proprio questo è necessario, perché così possiamo capire che i più alti concetti su Dio non arrivano mai fino alla sua vera grandezza; sono sempre impropri. Le immagini bibliche ci fanno, in realtà, capire che Dio è sopra tutti i concetti; nella loro semplicità noi troviamo, più che nei grandi concetti, il volto di Dio e ci rendiamo conto della nostra incapacità di esprimere realmente che cosa Egli è. Si parla così - è lo stesso Pseudo-Dionigi a farlo - di una “teologia negativa”.
Possiamo più facilmente dire che cosa Dio non è, che non esprimere che cosa Egli è veramente. Solo tramite queste immagini possiamo indovinare il suo vero volto che, d’altra parte, è molto concreto: è Gesù Cristo. E benché Dionigi ci mostri, seguendo Proclo, l’armonia dei cori celesti, in cui sembra che tutti dipendano da tutti, il nostro cammino verso Dio, però, rimarrebbe molto lontano da Lui, egli sottolinea che, alla fine, la strada verso Dio è Dio stesso, il Quale si è fatto vicino a noi in Gesù Cristo.
E così una teologia grande e misteriosa diventa anche molto concreta sia nell’interpretazione della liturgia sia nel discorso su Gesù Cristo: con tutto ciò, questo Dionigi Areopagita ebbe un grande influsso su tutta la teologia medievale, su tutta la teologia mistica sia dell’Oriente sia dell’Occidente, fu quasi riscoperto nel tredicesimo secolo soprattutto da San Bonaventura, il grande teologo francescano che in questa teologia mistica trovò lo strumento concettuale per interpretare l’eredità così semplice e così profonda di San Francesco: Bonaventura con Dionigi ci dice alla fine, che l’amore vede più che la ragione. Dov’è la luce dell’amore non hanno più accesso le tenebre della ragione; l’amore vede, l’amore è occhio e l’esperienza ci dà più che la riflessione. Che cosa sia questa esperienza, Bonaventura lo vide in San Francesco: è l’esperienza di un cammino molto umile, molto realistico, giorno per giorno, è questo andare con Cristo, accettando la sua croce. In questa povertà e in questa umiltà - nell’umiltà che si vive anche nella ecclesialità - c’è un’esperienza di Dio che è più alta di quella che si raggiunge mediante la riflessione: in essa tocchiamo realmente il cuore di Dio.
Oggi esiste una nuova attualità di Dionigi Areopagita: egli appare come un grande mediatore nel dialogo moderno tra il cristianesimo e le teologie mistiche dell’Asia, la cui nota caratteristica sta nella convinzione che non si può dire chi sia Dio; di Lui si può parlare solo in forme negative; di Dio si può parlare solo col “non”, e solo entrando in questa esperienza del “non” Lo si raggiunge. E qui si vede una vicinanza tra il pensiero dell’Areopagita e quello delle religioni asiatiche: egli può essere oggi un mediatore come lo fu tra lo spirito greco e il Vangelo.
Si vede così che il dialogo non accetta la superficialità. Proprio quando uno entra nella profondità dell’incontro con Cristo si apre anche lo spazio vasto per il dialogo. Quando uno incontra la luce della verità, si accorge che è una luce per tutti; scompaiono le polemiche e diventa possibile capirsi l’un l’altro o almeno parlare l’uno con l’altro, avvicinarsi.
Il cammino del dialogo è proprio l’essere vicini in Cristo a Dio nella profondità dell’incontro con Lui, nell’esperienza della verità che ci apre alla luce e ci aiuta ad andare incontro agli altri: la luce della verità, la luce dell’amore. E in fin dei conti ci dice: prendete la strada dell’esperienza, dell’esperienza umile della fede, ogni giorno. Il cuore diventa allora grande e può vedere e illuminare anche la ragione perché veda la bellezza di Dio. Preghiamo il Signore perché ci aiuti anche oggi a mettere al servizio del Vangelo la saggezza dei nostri tempi, scoprendo di nuovo la bellezza della fede, l’incontro con Dio in Cristo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL LIBRO
Ma questi angeli come volano basso...
Il filosofo Agamben cura una ponderosa antologia su cherubini & C. nei tre grandi monoteismi. Peccato che, per la fede cristiana, la descrizione dei poveri messaggeri alati risulti quanto meno sconcertante: essi sarebbero snob, burocrati, mercenari, incapaci di pentimenti e persino tristi... Del resto, secondo l’autore sono i nunzi della secolarizzazione.
di Roberto Beretta (Avvenire, 27 Novembre 2009)
Altro che «puri spiriti»... Gli angeli sono «esseri politici». Anzi, si può sostenere che ogni governo li abbia presi a modello per la sua organizzazione: non per niente alcune schiere celesti portano nomi inequivocabilmente "governativi": «Troni», Dominazioni», «Potestà», «Principati». E poi gli angeli sono chiamati a ricoprire «uffici» e a compiere «missioni» tal quale un terrestre ambasciatore o un sottosegretario ministeriale... Insomma, dacché lo pseudo-Dionigi l’Areopagita intitolò De coelesti hierarchia l’opera che alle superne essenze volle dedicare, la scala del potere deve agli angeli un riferimento fondamentale.
Certo, l’ultima cosa a cui penseremmo davanti a un ministro moderno è che abbia delle ali di scorta nell’auto blu. All’opposto, ci sembrerebbe di far torto a cherubini e serafini paragonandoli a un pubblico amministratore. Eppure non la pensa così il filosofo Giorgio Agamben, curando insieme con Emanuele Coccia per Neri Pozza la monumentale antologia Angeli (pp. 2012, euro 70), che proclama di occuparsi di Michele e soci dal punto di vista interreligioso di «ebraismo, cristianesimo, islam».
Infatti fin dall’introduzione Agamben traccia il suggestivo legame tra angelologia e politica: «Angeli e burocrati tendono a confondersi», azzarda per esempio il teorico veneziano. E sostiene che sotto le penne dei cittadini paradisiaci si cela una duplicità funzionale e teorica basilare: azione e contemplazione, lode (di Dio) e governo (del mondo), appunto. Gli angeli sarebbero il trait-d’union tra la visione gnostica di un Onnipotente che ha orrore della materia e quella aristotelica del Padreterno motore di infiniti ingranaggi storici; persino il male - impossibile a Dio! - viene risolto con un intervento angelico: di Lucifero, il decaduto.
Teoria suggestiva e intellettualmente stimolante, in una materia spesso adagiata su un devozionalismo banale. Ma quanto davvero gli angeli di Agamben siano «cattolici», è tutt’altra faccenda. In effetti, e considerando del volumone solo la parte centrale dedicata appunto al cristianesimo (per giudicare il lavoro sulle altre due fedi manca la competenza), gli angeli che svolazzano in quei paraggi sembrano parecchio - diciamo così - «alternativi».
Anzitutto Emanuele Coccia, il docente di filosofia medievale che cura la sezione, li dipinge come esseri assolutamente non personali: «Non parlano mai in prima persona», non prendono posizioni e non hanno opinioni, «il tempo scivola su di loro», non hanno nemmeno nomi perché quelli che li definiscono sono «soprannomi» che definiscono la loro funzione...
«Non sono mai ciò che sembrano, la prima e più evidente proprietà è un’irriducibile ambiguità... Nelle loro azioni non esprimono nulla di ciò che davvero sono... Creature integralmente "senza qualità"». Così Coccia, e si capisce che siamo lontani dal catechismo. «L’angelo è incapace di dire autenticamente "io"», continua il professore: e potrebbe essere bellissimo, perché ciò indica un ente talmente immerso nella realtà che lo invia, da identificarsi con essa e "dimenticare" se stesso; trattandosi poi di un ambasciatore, si potrebbe sostenere - capovolgendo McLuhan - che qui è «il messaggio a diventare il mezzo».
Gabriele come rovesciamento della Tv, dunque? L’Annunciazione quale contraltare dell’etere? Sottigliezze intellettuali accattivanti, magari anche misticamente appetibili: ma che allontanano ancor più la realtà angelica dalla terra, la rendono più impalpabile delle piume di cui li ha rivestiti la decorazione barocca delle chiese. E che ce ne importa, a noi, di angeli così? Si capisce perché - son sempre parole di Coccia - «una nota di insopprimibile malinconia colora tutti i loro sforzi»; e poi, collegandosi ad Agamben: «L’angelo mostra la necessaria e paradossale tristezza connessa all’esercizio del potere... costretto sempre e solo a occuparsi del benessere altrui»: ma se proprio questo, nel cristianesimo, conduce alla massima felicità!
Insomma, il filosofo ha preso la scia degli esseri alati e vola sopra Berlino come si addice al più eccelso degli idealisti. Le prove non mancano davvero: anche se talvolta non si risolvono affatto in lode dei poveri cherubini... Gli angeli sono degli snob: sì, perché talvolta sembrano invidiosi degli uomini, e questo li conduce o alla ribellione o al servilismo. Gli angeli sono gregari, «a tal punto da non saper far altro che imitarsi reciprocamente». Gli angeli vivono in «una società chiusa, totalitaria, interamente composta di funzionari». Peggio: gli angeli «sono mercenari al soldo del loro stesso creatore. Ogni angelo è moralmente spaventoso» in quanto incapace «di qualsiasi forma di pentimento o rimorso». E ancora «l’angelo è ciò che impedisce all’umanità di costituirsi da sola: finché vi saranno angeli, un dio continuerà a disturbare i sogni di ogni uomo».
A questo punto ci si arresta piuttosto perplessi, pensando a certi bonari angioletti tizianeschi che guardano giù dalle nubi come puttini tutt’altro che «spaventosi». Ma è solo dopo 80 serrate pagine che Coccia assesta il colpo finale, come sempre acuto e laicissimo: «Un angelo è colui che parla al posto di Dio, opera al posto di Dio. È curioso notare come l’esistenza angelica riassuma perfettamente il progetto in cui si è compendiato lo spirito della modernità: mettere l’uomo al posto di Dio... È l’angelo l’operatore per eccellenza della secolarizzazione, nel senso letterale della parola: è lui a trascinare la divinità nel secolo, a renderla umana». Il gioco di prestigio intellettuale è compiuto: ciò che prima era fin troppo etereo, adesso è addirittura materialista. Affascinante, forse. Ma che gli angeli del cristianesimo siano proprio questi, non ci scommetteremmo affatto.
Roberto Beretta
EMERGENZA EDUCATIVA: TRADIMENTO DEGLI INTELLETTUALI.
Educazione e media: Ruini rilancia il modello-egemonia
L’ex presidente della Cei propone un nuovo patto e trova sponde nel ministro Gelmini. Che ha fornito ampie assicurazioni, dall’ora di religione ai crocifissi nelle classi
di Roberto Monteforte (l’Unità, 23.09.2009)
Una società sempre più lacerata, che ha abdicato al suo compito di indicare modelli e sistemi di valore, in particolare ai giovani, viene meno ad un suo preciso dovere. Un futuro incerto, segnato dalla precarietà: questa è la dura prospettiva per le nuove generazioni. Con questo, con l’emergenza educativa, occorre misurarsi. La Chiesa lancia la sua sfida-provocazione rivolta al mondo cattolico, ma soprattutto a quello laico.
Se ne fa portavoce il cardinale Camillo Ruini, presidente emerito dei vescovi italiani e responsabile del Progetto culturale della Cei che ieri ha presentato il volume «La sfida educativa» edito da Laterza che raccoglie approfondimenti e proposte sulle agenzie educative classiche: scuola, famiglia, comunità cristiana, ma anche sul lavoro, l’impresa, i mass media, lo spettacolo, il tempo libero, lo sport. Tutte realtà che concorrono alla formazione della persona. «L’educazione è una urgenza, o meglio, è una emergenza» scandisce Ruini. «L’educazione per sua natura impone sfide a lungo termine spiegaattorno all’educazione deve trovarsi una convergenza che superi il variare delle persone, delle idee, degli interessi. Il nostro rapporto vuole essere un invito aggiunge a muoverci nella direzione di una alleanza educativa di lungo termine».
Così la Chiesa si propone come luogo di confronto per una società divisa e lacerata, riproponendo una sua centralità. È la strategia che ha segnato l’«era Ruini» e che ieri ha trovato sponde robuste. Ha colto a volo l’occasione il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini per rilanciare il tema dell’identità culturale del nostro paese, contraddistinta dai valori cattolici, con cui devono rapportarsi i giovani figli di immigrati. È da lì che passa l’integrazione per il ministro che ha rassicurato: nulla cambierà sull’ora di religione e sul crocifisso nelle aule. Le sollecitazioni sulla funzione formativa ed educativa dei media contenute nella proposta della Cei sono state raccolte dal presidente della Rai, Paolo Galimberti, che ha riconosciuto la difficoltà a proporre una televisione di qualità. Al confronto ha partecipato anche la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia. ❖