Giovanni Bollea
"Non distruggete la mia casa per i bambini"
L’ultimo appello del maestro della neuropsichiatria infantile, oggi gravemente malato, perché non venga smantellato il suo Istituto
di Leonetta Bentivoglio (la Repubblica, 19.01.11)
Narrava qualche tempo fa il padre della Neuropsichiatria Infantile italiana Giovanni Bollea: «Ho incontrato un albero grande e grosso. Ci siamo guardati e lui mi ha detto: siamo entrambi alla fine». Ora che sul bilico della fine c’è davvero, Bollea, 97 anni compiuti in dicembre, sfida la morte con un’energia miracolosa. E dalla sua agonia lancia un appello per la salvaguardia e l’indipendenza dell’Istituto neuropsichiatrico romano da lui fondato: è questa la sua ultima, importante battaglia.
Colpito da un’ischemia cerebrale, l’autore di Le madri non sbagliano mai, libro-bibbia della "nuova educazione" (è appena stato tradotto e pubblicato in Spagna, dove lo stanno celebrando recensioni entusiastiche), scivolò il 12 agosto in un coma di quaranta giorni. Poi, prodigiosamente, riemerse in settembre, e da allora è ricoverato al Policlinico Gemelli di Roma, dimostrando una resistenza «che ha sconvolto tutte le previsioni e le statistiche dei medici», riferisce la moglie Marika.
Trascorre muto questi giorni estremi, nutrito artificialmente e catturato spesso da uno stato soporifero. Però vuole comprendere e reagire. A volte si commuove per l’abbraccio di un parente. A tratti replica ai visitatori con piccole pressioni sulla mano, di volta in volta traducibili in un sì o in un no. E anche così, invaso dalle cannule e col volto pallido e scavato, ha una luce speciale.
Una folta famiglia lo circonda. Con Marika ci sono i sei figli: Ernesto, Mariarosa e Daniele, avuti da Bollea nel primo matrimonio con Renata Jesi; e Barbara, Arturo e Marco, nati da Marika e dal suo primo marito, ma cresciuti con Bollea. Lo psichiatra che ha salvato dal disagio tanti bambini («a queste guarigioni devo i miei giorni più felici») ha oggi sette nipoti e tredici bisnipoti.
Ciò che più lo angustiava, prima di slittare nella condizione attuale, era il destino della Facoltà di Neuropsichiatria Infantile dell’Università "La Sapienza", col relativo Istituto di Via dei Sabelli a lui intitolato. «Giovanni ha diffuso in modo profondo e capillare una neuropsichiatria specifica per bambini e adolescenti: prima erano i pediatri a occuparsi dei problemi neuropsichici infantili», spiega la signora Bollea. «Creò una cattedra all’Università di Roma ed è a lui che si deve la nascita dell’Istituto che ha curato la più alta percentuale al mondo di bambini e ragazzi Down e neurolesi».
Si è parlato di una possibile annessione dell’Istituto "Bollea" a Pediatria: un clamoroso passo indietro. Per questo, già un anno fa, Giovanni scrisse a Frati, Rettore della Sapienza, una lettera in cui gli chiedeva di proteggere la struttura da un accorpamento.
«Grazie al lavoro di Bollea, l’Italia conta su numerosi centri di Neuropsichiatria Infantile. Sarebbe terribile togliere autonomia al cuore di questa mappa, cioè all’istituto romano che porta il suo nome», protesta Marika. Incombono nel frattempo i tagli della Regione Lazio che potrebbero comprometterne il funzionamento: il piano regionale, per l’Istituto di Via dei Sabelli, prevede una drastica riduzione di posti letto.
Vi racconto
Come nasce il sorriso
Pubblichiamo un testo inedito di scritto l’anno scorso e dedicato al sorriso dei bambini
di Giovanni Bollea (la Repubblica, 19.01.2011)
È vero che il sorriso è una capacità innata dei bambini? Sì, dopo il primo pianto, appena uscito dall’utero, vediamo il sorriso del bambino legato a quello della madre che lo guarda a sua volta negli occhi. E, subito dopo, il piccolo afferra teneramente la mammella della madre, seguito dal sorriso felice di quando lei la lascia.
Il sorriso che nasce non dalla vista del volto della madre, ma dal suo profumo, rimarrà nella sua memoria per sempre. E così al primo dentino, al primo passo, all’entrata della Scuola Materna.
In questo modo il sorriso dei primi anni si prolunga anche durante le esperienze iniziali all’interno delle difficoltà scolastiche, che si manifestano già nell’asilo nido, dove i primi collegamenti con l’altro da sé sono ritmati dagli episodi di pianto, che è il loro modo di colloquiare. Ma il dramma nasce quando il bambino non è ascoltato né seguito, o quando la madre ritarda nel riprendere il bambino alla Scuola materna. Al loro incontro, perciò, ci sarà di nuovo "quel" sorriso d’intesa. Quel famoso sorriso del dopo scuola che non sarà mai più lo stesso durante tutto il suo cammino di adulto.
Ricordiamoci che anche nella gioia di aiutare la mamma nei piccoli lavori di casa il bambino manifesterà la preferenza della madre nei suoi confronti, che così lo fa sentire sempre più importante.
Il sorriso è lo stare con la madre, il ridere è la manifestazione dell’orgoglio e della soddisfazione di eseguire e conquistare qualcosa insegnatogli da lei, dalla quale gli giunge un segno di allegra approvazione. Il sorriso è quindi amore, il ridere è. .. "obbedire". Nelle persone adulte c’è sempre un ricordo perenne della prima infanzia fino ai 10 anni per le tante cose fatte insieme: regali dei genitori, gioco e bicicletta col padre. Se poi c’è l’amore della madre con i nonni anche la loro gentilezza ha una sua funzione rassicurante.
Coinvolgerli in modo positivo nelle realtà quotidiane: ecco che l’elemento formativo darà felicità al bambino, se non lo avrete mai fatto sentire come un ordine. Il significato di comando non deve mai essere trasmesso infatti come un invito obbligatorio prima dei 4-5 anni. Sembrerà semplicistico e forse ovvio ma pochissimi invece capiscono l’importanza di farsi accompagnare e far partecipare il bambino alle commissioni, commentando a voce alta le cose che vedono. Questo sia con i genitori che con i nonni. L’infanzia sorridente in questo periodo storico non è purtroppo la normalità ma l’amore, lo slancio impegnato e caricato di generosa attenzione quotidiana formerà un adulto più o meno maturo.
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
PSICOANALISI, ANTROPOLOGIA, E FILOLOGIA: COME JUNG DIVENNE JUNG: LA ROTTURA TEORICA CON FREUD (1912), "I SIMBOLI DELLA TRASFORMAZIONE" (SULLA "STRADA DI DAMASCO"), E IL PROBLEMA DI "NICODEMO O DELLA NASCITA" (ENZO PACI: "COME NASCONO I BAMBINI"). *
"SÀPERE AUDE!" (KANT, 1784). Un omaggio a Romeo Pulsoni: una nota a margine del suo "Il coraggio di trasformarsi" ("Insula Europea", 12 Gennaio 2025):
"[...] arduo e forse impossibile per me commentare “i simboli della trasformazione" in C. G. Jung, e nello stesso tempo cercare di demarcare quello che a mio parere è fondamentale per discernere il culturale dal terapeutico e dallo spirituale e cioè la differenza tra il cambiamento tra la trasformazione e la trasfigurazione.
Jung intende il processo di auto-realizzazione come un continuo cammino di trasformazione. La meta del processo di trasformazione consiste nell’unificazione degli opposti, nell’autorealizzazione dell’uomo. [...] Il contrasto di fondo in cui si trova l’uomo è la tensione tra spirito e istinto. [...] La trasformazione degli istinti avviene dunque, secondo Jung, a causa dell’attivazione dell’archetipo: ma gli archetipi vengono attivati tramite riti e simboli, e portati alla conoscenza. Jung chiama i simboli “trasformatori”. Come una centrale di energia idrica trasforma la pressione dell’acqua in energia elettrica, così i simboli trasformano l’energia biologica in energia spirituale. [...]
Per il cristiano il più importante simbolo della trasformazione è l’eucarestia. Jung chiama la Santa Messa “rito del processo di individuazione (...) il suo compito è quello di trasformare l’anima dell’uomo empirico, che è solo una parte di esso, nella sua totalità, che si esprime in Cristo” (volume XI, p. 262: Il simbolo della trasformazione nella messa). [...]
La trasformazione dell’uomo inizia nel suo subconscio. Spesso è una situazione difficile a costringerlo a occuparsi del subconscio; sovente sono archetipi che di colpo appaiono nei suoi sogni o che incontra nei riti della sua fede o nella lettura. [...]
La caduta da cavallo sulla via di Damasco provoca il cambiamento, il percorso successivo lungo dolce e soave sono la trasformazione, l’unione del subconscio al conscio. [....]
La grande aspirazione degli uomini è la trasformazione dell’umano nel divino, del mortale nell’immortale. La via della trasformazione consiste in varie iniziazioni o riti che cambiano sempre più la figura interiore degli iniziati, anche se, come nel caso di Nicodemo, sono domandati sconti. [...]" (Romeo Pulsoni, op. cit.).
* http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4365#forum3185426.
L’uomo che parlava ai bambini
Bollea avrebbe cento anni, è stato il padre della psichiatria infantile italiana
Ma soprattutto un grande italiano
Ma oggi il suo Istituto sta per essere chiuso
di Ferruccio Sansa (il Fatto, 14.07.2014)
"Il bambino è il padre dell’uomo”. Chissà se Giovanni Bollea aveva letto il verso del poeta inglese William Wordsworth. Eppure sembra scritto da lui, dal padre italiano della neuropsichiatria infantile. Bollea che ci ha insegnato a non vedere i bambini come versione incompleta dell’adulto. E che da loro, dai travagli e dalle felicità che contribuiranno a formarli, prenderà forma l’uomo.
Ci sono momenti che racchiudono la vita di una persona. Per Giovanni Bollea erano gli istanti in cui incontrava per la prima volta i piccoli pazienti. Chi c’era, chi vi ha assistito stenta a trovare le parole per descriverli. La stanza del medico scompare, i genitori finiscono sullo sfondo. Restano soltanto lui, con il suo camice bianco, e il bambino: “Bollea rimase zitto, allungò le sue mani grandi sulla scrivania finché non toccarono quelle di mio figlio. Ma senza prendergliele, senza afferrarlo. Poi lo guardò fisso negli occhi, per uno, cinque, dieci minuti, a me parve un tempo interminabile. C’era qualcosa di accogliente, non di aggressivo in quello sguardo. Finché mio figlio a sua volta lo guardò fisso. Come non aveva mai guardato nessuno. Come se quei due, il medico e il bambino, riuscissero a vedersi oltre le pupille, nel fondo della persona. Allora Attilio cominciò a parlare, quasi fosse la prima volta”. Così la mamma di uno dei bambini di Bollea racconta quell’istante.
Il grande medico lo descrisse così: “Quando mi portano un bambino, anche dopo che i genitori mi hanno spiegato ciò che ha o ciò che non ha, io non so mai qual è la prima domanda che gli farò. Lo guardo, lo saluto, magari gli faccio fare un momento di ginnastica e poi mi viene in mente la prima domanda; scendo così al suo livello di comunicazione, con umiltà, cercando di comprendere chi ho di fronte; mi ‘destrutturalizzo’, mentre in me c’è uno sdoppiamento: un io che osserva e un io che conversa. È proprio in questa maniera che riesco ad entrare nell’altro ed a capire quel che devo fare”.
All’alba a lavorare poi a scuola
In quegli istanti il bambino lasciava emergere se stesso. Ma anche Bollea abbandonava ogni schermo. Il suo sguardo rivelava l’esperienza, la scienza, ma soprattutto una lunga vita. Tutt’altro che semplice. Oggi noi lo ricordiamo con espressioni che nella loro solennità finiscono per essere riduttive: “il padre italiano della neuropsichiatria”. Ma Bollea è stato prima di tutto un grande uomo.
Un grande italiano.
Era tutto scritto in quei suoi sguardi, come nella foto che lo ritrae mentre un bambino gli tira un’enorme palla, simbolo del gioco, ma anche del peso che i piccoli spesso portano con sé. E che Bollea cercava di afferrare.
Davvero il bambino è padre dell’uomo, perché, senza quei primi anni nella Torino di inizio secolo, Bollea (che era nato il 5 dicembre 1913 e oggi avrebbe cento anni) non sarebbe diventato l’uomo che ha aiutato tante persone a liberarsi dalla sofferenza mentale. Perché fu l’infanzia vissuta con dignità, ma sul limite della miseria, a insegnargli il rigore che fu suo tratto fondamentale. Da quei giorni in cui si alzava all’alba per aiutare i genitori nel loro panificio, prima di andare a scuola. Dove era sempre il primo.
Chissà, forse tendendo le mani ai suoi pazienti, guardandoli negli occhi, il medico ricordava se stesso, la madre Rosa, il padre Gelsomino “un idealista e ribelle per natura - così lo descrisse - insofferente verso ogni forma di ingiustizia sociale”. Idealista come Giovanni. Bollea li perse presto, Rosa e Gelsomino, quei genitori dai nomi di fiore.
E le ingiustizie decise di combatterle soprattutto con la sua scienza, facendo il medico, nella Torino travagliata, ma straordinaria degli anni Trenta di Carlo Levi, Primo Levi, Luigi Einaudi. Così come nella vita di ogni giorno. Era di sinistra - dal Pci al Pd, negli ultimi anni - ma lo si vedeva soprattutto dalle azioni. Storie dimenticate in cui, per un gioco del destino, Bollea si ritrovò probabilmente a portare un premio Nobel all’Italia.
Non per sé, però. Per quel compagno di studi che si chiamava Renato Dulbecco (morto due anni fa, anche lui quasi centenario): già, capitò che i due si trovarono di fronte per conquistare un posto all’università. Lo ottenne Dulbecco, ma Renato, figlio di famiglia benestante, ritenendo forse di meritarlo meno dell’amico, glielo lasciò. E Giovanni non dimenticò mai. Fino a quel giorno durante la ritirata di Russia. Un inferno difficile perfino da immaginare: Bollea, medico delle truppe, procede a piedi, con una gamba rotta, con il cuore che gli sta cedendo. Ma resiste. Finché su un carro che trasporta cadaveri congelati riconosce il volto di Dulbecco. È ancora vivo. In quel momento passa il camion per gli ufficiali. La salvezza. Bollea potrebbe salire, ma lascia il posto all’amico ferito. E continua a piedi.
Questo era l’idealismo di Bollea: che ignora le leggi razziali e si innamora di Renata Jesi, la ragazza ebrea romana conosciuta a un ballo. La sposa nel 1938, quando il fascismo ha già il suo volto più terribile. Giovanni affronta le prove di quegli anni: è sul fronte in Slovenia e in Russia, ma sempre come medico. Intanto cerca in ogni modo di proteggere il figlio Ernesto, la piccola Maria Rosa nata in clandestinità. Riesce a salvarli tutti, anche i suoceri. Per lui, anti-fascista, vicino al comunismo e ai Partigiani, è questa la Resistenza: curare i feriti al fronte, tornare a Roma per salvare la famiglia.
Terrore, sofferenza. Anche da qui nasce la determinazione di curare finalmente i bambini affetti da disturbi psichici, prima confinati nei reparti di pediatria o peggio negli istituti. Un desiderio coltivato da quando, a sette anni, aveva visitato il Cottolengo di Torino: “Questi bambini disgraziati saranno i primi a entrare in paradiso”, gli aveva detto la suora. E lui, d’istinto: “Perché invece non provate a curarli?”.
Ecco allora nel Dopoguerra gli studi a Losanna e poi, al ritorno in Italia, il lavoro incessante per realizzare a Roma il Centro Medico Psicopedagogico e la Scuola Italiana di Neuropsichiatria Infantile.
La ricerca, la cura sul campo, la vita, questo era Bollea. Parlano le oltre duecento pubblicazioni. Ma soprattutto le testimonianze di uomini e donne come la madre di Attilio. E i racconti della figlia Maria Rosa: “Papà stava sempre con i pazienti, ma non ha mai saltato un pranzo e una cena con noi. Voleva che quei momenti fossero salvi, che ognuno parlasse della sua giornata, di quello che succedeva nel mondo. Poi di nuovo si chiudeva nello studio per leggere o fare telefonate interminabili con i colleghi”.
A sentir raccontare la vita di Giovanni Bollea non si trova un confine tra esistenza quotidiana e teoria. Le parole che ricorrono, in chi lo ha conosciuto, sono “coerenza”, “rigore” e “morale”. Ma non “severità”. Anzi. Ecco la poesia che gli ha dedicato il figlio Daniele: “Bambino che ancora non sei nato/ che Dio ti mandi un padre come il mio,/ nato col sogno di far felice il mondo/ Quando mi prendeva per mano/ c’eravamo solo io e lui/ Liberi dalla paura che risuona/ tra ciò che è stato e ciò che sarà”.
Quell’uomo che ti dava sicurezza
Un uomo che dava sicurezza. Racconta la seconda moglie Marika nel libro di Giovanna Lo Sapio (Armando Editore): “Madri e padri uscivano dal suo Istituto entusiasti e gratificati . Per questo, Giovanni dava l’impressione di forza e di potenza straordinarie, un misto di perfezione e di emozione profonda. Aveva un peso, una presenza. Il ritmo dei suoi movimenti, a volte, sembrava partire da un bilanciamento orizzontale e verticale, alternativi al suo pensiero”.
No, non un uomo distaccato. Il contrario: “Dietro un’apparente calma nascondeva le sue tensioni”, ma non le faceva gravare sugli altri, le risolveva dentro di sé, come dice Marika. Un professore che ti metteva soggezione, ma poi trovavi con i piccoli pazienti sdraiato sotto un tavolo a giocare. Un lavoro continuo, sugli altri e su se stesso: “Era affascinato - racconta Marika - dai caratteri in formazione; anche e perché considerava se stesso in continuo avanzamento e lievitazione dei propri ideali. Cercava la semplicità attraverso la maturazione e la purificazione dei suoi pensieri; calma che gli si leggeva sulla fronte dove le rughe apparivano, scomparivano o si attenuavano, ogni giorno diverse”.
Il suo difetto? “Non essersi voluto arricchire”, finge di criticarlo il figlio Ernesto. E Maria Rosa: “Ha sempre trascurato la libera professione, la più redditizia. Curava tutti, benestanti e povera gente che lo pagava con un paio d’uova”. A tutti i piccoli pazienti dedicava lo stesso tempo, uguali attenzioni.
Certo, poi c’erano state le amicizie importanti con Carlo Levi, Ennio Flaiano, Renato Guttuso. C’era la stima di grandi della politica come Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. Ma Bollea era soprattutto altro: “L’uomo grande in tutte le cose che si faceva piccolissimo nelle cose che desiderava per sé, per vivere una vita semplice che a lui piaceva”. L’uomo - come racconta Marco Carniti, figlio di Marika, regista di un’opera intensa sulla vita di Bollea in scena il 15 dicembre all’Argentina di Roma - “che aveva un naturale senso dell’eleganza per le cose non materiali, ma che dovevi fermare ogni volta che usciva con cravatte e maglioni tutti sbagliati”.
La costruzione di se stessi, tra malattie, cadute e scompensi, ecco la grande fatica della vita che Bollea studiava. E rispettava: “Con lui - è ancora Marika a dircelo - ho capito che se non si costruisce l’Io, come valore fondamentale e imprescindibile, non ci può essere né libertà, né democrazia e che la scienza di introspezione che aveva scelto gli imponeva quella carica di rabbiosa vitalità che travolgeva le sue giornate”.
Ecco i capolavori di Bollea, più dei libri, delle ricerche: “L’equilibrio tra affetti intimi e dovere sociale”. Il frutto non è la perfezione, ma una versione molto più umana: la coerenza. Un messaggio che ci ha lasciato e va ben oltre la disciplina dei suoi studi. E forse ancora più l’essere arrivato alla fine, dopo aver attraversato tanti dolori, sempre “con il sogno di far felice il mondo”. Lui che non credeva in un’altra vita, ma continuava a sperare in questa.
Il ricordo
Saper vivere con gli ideali di un ragazzo
di Antonio Padellaro (il Fatto, 14.07.2014)
Se c’è un difetto che rimprovero a Giovanni Bollea è quello di avere vissuto una vita così luminosa da far risaltare maggiormente la mediocrità della vita degli altri, in questo caso la mia. È la sensazione che ho provato la sera del 23 giugno scorso quando, a Milano, sul glorioso palcoscenico del Piccolo Teatro l’esistenza di questo italiano generoso scorreva limpida nel centenario della nascita, attraverso le testimonianze soprattutto di quei bimbi che aveva guarito e che diventati adulti erano venuti a dirgli semplicemente grazie.
Il mondo è pieno di gente di buone intenzioni su ciò che sarebbe bello fare per migliorare le cose. Poi ci sono quelli, pochi purtroppo, che quelle cose le fanno realmente. Come Bollea che nell’Italia del dopoguerra spiegò che l’infanzia non è una fase della crescita bensì la pietra angolare su cui si poggia l’uomo che verrà. Che se i disturbi dell’età evolutiva non saranno curati in tempo quella pietra tenderà a sbriciolarsi e a produrre infelicità.
Come Bollea che fondò l’associazione per la tutela degli alberi (Alvi) e che descriveva i bambini quando entrano nel bosco e subito il loro sguardo si allarga verso la cima delle piante perché, diceva, l’albero è un segno di vita che porta in sé il concetto di crescita.
Con Giovanni parlavamo spesso di politica. Ne aveva un sommo rispetto e molto si dispiaceva del discredito da cui ultimamente veniva mortificata. Era un piemontese educato nell’utopia della sinistra umanitaria, dedita a sollevare la condizione dei più deboli e intrisa di rigore azionista.
Un giorno mi disse: “Ho sempre cercato di restare fedele agli ideali della mia giovinezza”. Tre parole che sembrano giungere da un mondo scomparso, abitato da espressioni desuete come dignità e rispetto. Molti anni dopo leggendo il Berlinguer di Walter Veltroni scoprirò che era la stessa frase che il leader del Pci aveva una volta confidato ad Aldo Tortorella. Mi parlava di sé per parlarmi di me. Degli strappi dolorosi che la vita ti costringe a compiere se non vuoi perderti nella depressione dei rassegnati. Amava l’”Unità” ma era contento che ci fosse il “Fatto”. O almeno gli piaceva farmelo sapere. Nella foto più bella seduto sulla riva del mare osserva le vele bianche all’orizzonte. Trasmette un senso di pace interiore, di riposo meritato dopo tanto cammino.
Ieri il "funerale" dell’Istituto di neuropsichiatria
I bambini più soli senza “Casa Bollea”
Il centro fondato nel ’46 e per anni all’avanguardia in Europa, ora è in grave crisi
di Luciana Sica (la Repubblica, 28.02.2012)
C’era una volta l’Istituto di neuropsichiatria infantile fondato da Giovanni Bollea nel ’46, un centro di eccellenza all’avanguardia in Europa dove sono stati curati bambini e adolescenti gravissimi di tutto il centro-Sud. Anche questo gioiello professionale e culturale, oggi sembra perduto. Tanto che ieri sera - in via dei Sabelli, a Roma, nel quartiere di San Lorenzo - è andato in scena il suo "funerale", una singolare protesta degli operatori contro il rischio della chiusura (con politici, attori, musicisti).
Difensore del "suo" Istituto fino allo stremo delle forze, non c’è più Bollea, scomparso un anno fa. In quell’occasione si sono alzate molte voci, anche quella del presidente Napolitano, a favore della storica clinica universitaria dove sulla porta d’entrata si legge ancora il nome del fondatore e nel corso degli anni i migliori neuropsichiatri infantili hanno lavorato in équipe con psicoanalisti e terapeuti di gruppo. Èqui che Marco Lombardo Radice ha vissuto la sua stagione "rivoluzionaria", un’esperienza quasi romanzesca che ha ispirato nel ’93 Il grande cocomero dell’Archibugi. E qui ha lavorato Adriano Giannotti - tra i grandi studiosi di psicoanalisi infantile, anche a livello internazionale, sulla scia delle conoscenze kleiniane e delle ricerche innovative di Donald Winnicott e Bruno Bettelheim.
Oggi non è la qualità a scarseggiare, ma non c’è una personalità carismatica e neppure ha giocato a favore la surreale convivenza con la pediatria nella stessa "macroarea". Di fatto è già dal luglio del 2010 che "l’Istituto" non esiste più, da quando è confluito nel nuovo dipartimento, dove si curano le coliche gassose dei neonati e gli esordi psicotici in età evolutiva.
Sempre più stentata anche la collaborazione con una scuola prestigiosa come l’Istituto Winnicott, diretta da Vincenzo Bonaminio, didatta della Società psicoanalitica italiana e professore aggregato presso il dipartimento. Èlui a dire: «Da vent’anni abbiamo contribuito, sul piano scientifico e clinico, a valorizzare questo centro. Formalmente è ancora così, ma ormai solo una decina di bambini all’anno può contare su una psicoterapia che non dura mai più di dieci mesi...». Il centro legato al nome di Bollea è stato un fiore all’occhiello del servizio pubblico italiano, che non andrebbe strappato con una politica indiscriminata dei tagli. I tempi d’oro sono alle spalle, ma il coro funebre di oggi non può cancellare la speranza che anche questa sia una favola a lieto fine.
Morto Giovanni Bollea. Scrisse
"Le madri non sbagliano mai"
È morto oggi a Roma Giovanni Bollea, considerato il fondatore della moderna neuropsichiatria italiana. Si è spento al Policlinico Gemelli di Roma dopo un lungo ricovero alle 18 di oggi. La camera ardente sarà allestita in Campidoglio, nella Sala della Protomoteca, martedì 8 febbraio, a partire dalle ore 10. Era nato nel 1914 a Cigliano Vercellese.
Fondatore e direttore dell’Istituto di neuropsichiatria infantile di via dei Sabelli nel quartiere di San Lorenzo a Roma, Bollea è stato il primo presidente della Società italiana di neuropsichiatria infantile, nonché promotore di innumerevoli iniziative per l’infanzia.
Nel 2003 ha ricevuto la laurea honoris causa in Scienze dell’Educazione (Università di Urbino) e nel 2004, il premio alla carriera al Congresso mondiale di Psichiatria e psicologia infantile di Berlino. Membro del Comitato d’onore del «Premio Unicef - dalla parte dei bambini» dalla sua istituzione nel 1999, ha pubblicato più di 250 lavori, tra cui il compendio di neuropsichiatria e il bestseller «Le madri non sbagliano mai» (Feltrinelli).
* l’Unità, 6 febbraio 2011
Bollea, tutta la vita dalla parte dei bambini
Morto a 97 anni il padre della neuropsichiatria infantile in Italia Una vocazione nata da piccolo, durante una visita al Cottolengo
di Piero Bianucci (La Stampa, 07.02.2011
LA SOFFERENZA PSICHICA Per curarla non basta la pediatria, serve una scienza che si occupi dell’anima" LA TERAPIA Una rete che oltre ai medici includa genitori, insegnanti, psicologi, assistenti sociali
Se n’è andato ieri Giovanni Bollea, fondatore della neuropsichiatria infantile in Italia, grande vecchio che tanto ha fatto per i più piccoli e indifesi: bambini Down, bambini con lesioni cerebrali, bambini e adolescenti senza malanni fisici ma traumatizzati nell’anima da famiglie divise, abbandoni, violenze.
Nato a Cigliano Vercellese, aveva compiuto 97 anni il 5 dicembre in un letto del Policlinico Gemelli di Roma. Dal 12 agosto, quando una ischemia cerebrale lo trascinò nel buio del coma, lottava per strappare ancora qualche giorno, qualche mese, e quasi aveva vinto, perché dal coma era uscito, aveva ripreso a comunicare con il mondo - la moglie Marika, i sei figli - sia pure debolmente.
Sapeva di avere una missione da compiere: mettere al sicuro la disciplina scientifica che aveva fondato e portato a dignità accademica nel nostro paese. Perché oggi la neuropsichiatria infantile rischia di scomparire dal panorama medico italiano, travolta nell’alluvione di tagli più o meno indiscriminati all’Università. Sotto il governo Berlusconi, e con il cambio di colore politico alla Regione Lazio, si è fatto strada il progetto di riassorbirla nella pediatria. Mentre Giovanni Bollea ha dedicato la sua esistenza proprio a staccarla dalla medicina pediatrica, convinto com’era che la sofferenza psichica non sempre, e mai del tutto, è riconducibile a una base organica. Se la pediatria si occupa dell’organismo del bambino, pensava, altrettanto necessaria è una scienza che si occupi della sua mente e dei suoi malfunzionamenti. Perché sono malfunzionamenti che in alcuni casi hanno origini fisiologiche, genetiche, traumatiche, ma in altri casi affondano invece le radici in problemi di relazioni umane, e le relazioni umane non sono materia per il medico ma, appunto, per un neuropsichiatra che, come Bollea, abbia sviluppato una sensibilità diversa verso la mente dei bambini, conosca la psicoanalisi infantile, e quindi Anna Freud, che ne fu pioniera. Ma neppure questo è sufficiente: intorno al bambino con disagio psichico Bollea voleva tessere una rete che oltre ai medici specializzati includesse genitori, familiari, insegnanti, pedagogisti, psicologi, assistenti sociali.
Gli ultimi mesi della vita di Bollea sono stati segnati da un appello per tutelare l’indipendenza, e prima ancora il ruolo, della facoltà di Neuropsichiatria infantile dell’Università La Sapienza di Roma e del relativo Istituto neuropsichiatrico in via dei Sabelli che lui aveva fatto nascere. «Non distruggete la mia casa dei bambini», è stato il suo ultimo grido.
Bollea si era laureato in medicina nel 1938 a Torino e si era specializzato in malattie mentali. Constatando come nel nostro Paese fosse scarsa l’attenzione al disagio psichico nei bambini e negli adolescenti, era andato a specializzarsi in psichiatria infantile a Losanna, in Svizzera, costeggiando anche l’ambiente pedagogico di Piaget. Con quel bagaglio torna in Italia e negli Anni 50 rivoluziona la neuropsichiatria infantile introducendo per la prima volta nel nostro Paese la psicoanalisi e - soprattutto - la psicoterapia di gruppo: lo guidava l’idea che sono le relazioni umane a curare e ad aver bisogno di essere curate, anche quando la malattia ha un substrato organico o genetico. Erano tempi nei quali i Down avevano una limitatissima aspettativa di vita ed erano chiusi in un ghetto sociale. Bollea fece maturare il processo che li ha inseriti nella società e nel lavoro, triplicando nel contempo la loro esistenza.
Duecentocinquanta pubblicazioni scientifiche, un trattato di neuropsichiatria infantile e molti libri rivolti anche ai non addetti ai lavori sono l’eredità di Bollea, con un bestseller edito da Feltrinelli dal titolo provocatorio Le madri non sbagliano mai . Tanti riconoscimenti (laurea honoris causa in Scienze dell’Educazione all’Università di Urbino, Premio Unicef, Premio alla carriera al Congresso mondiale di psichiatria e psicologia infantile che si tenne a Berlino nel 2004). Ma non erano queste le cose che gli interessavano. «La più grande mia gioia nella vita è ridare il sorriso ai bambini e ai ragazzi che l’avevano perduto», diceva. Ed è emblematico che abbia fondato anche l’Alvi, «Alberi per la vita», associazione privata per il rimboschimento dell’Italia. Intorno aveva una famiglia da patriarca: sei figli (Ernesto, Mariarosa e Daniele avuti nel primo matrimonio con Renata Jesi; Barbara, Arturo e Marco nati dalla seconda moglie Marika e dal suo primo marito ma cresciuti con lui), sette nipoti, tredici bisnipoti.
Raccontava di aver sentito la sua vocazione all’età di sette anni visitando il Cottolengo a Torino. Una suora gli disse: «Questi bambini disgraziati saranno i primi a entrare in paradiso», e lui, con la voce dell’innocenza: «Perché invece non provate a curarli?». Vicino al Cottolengo, nel popolare quartiere di Porta Palazzo, era cresciuto: una concentrazione di miseria e svantaggio fisico e sociale. Poi il liceo frequentato lavorando nel pastificio ereditato dalla bisnonna in via Po, il matrimonio con l’ebrea Renata Jesi e le conseguenti persecuzioni razziali, la campagna di Russia, durante la quale era costretto a operare i compagni feriti senza anestesia. Infine l’Istituto creato a Roma, che diventa subito un riferimento scientifico e «politico» per tutta l’Europa. Negli ultimi tempi la sua attenzione aveva colto fenomeni nuovi: l’esposizione dei ragazzi alla violenza sugli schermi televisivi, l’onnipresenza alienante dei videogiochi, l’oscillare dei genitori tra lassismo e costrizione. Scuola, famiglia e società in crisi, mentre per Bollea solo la loro cooperazione può darci un mondo migliore.
“In principio è il sorriso”
Pubblichiamo una riflessione di Giovanni Bollea, invitato a parlare del sorriso come capacità innata del bambino.
di Giovanni Bollea (La Stampa, 07.02.2011)
Dopo il primo pianto, appena uscito dall’utero, vediamo il sorriso del bambino legato a quello della madre che lo guarda a sua volta negli occhi. Il sorriso che nasce non dalla vista del volto della madre, ma dal suo profumo, rimarrà nella sua memoria per sempre. E così al primo dentino, al primo passo, all’entrata della scuola materna.
In questo modo il sorriso dei primi anni si prolunga anche durante le esperienze iniziali all’interno delle difficoltà scolastiche, che si manifestano già nell’asilo nido, dove i primi collegamenti con l’altro da sé sono ritmati dagli episodi di pianto, che è il suo modo di colloquiare. Ma il dramma nasce quando il bambino non è ascoltato né seguito, o quando la madre ritarda nel riprendere il bambino alla scuola materna. Al loro incontro, perciò, ci sarà di nuovo «quel» sorriso d’intesa. Quel famoso sorriso del dopo scuola che non sarà mai più lo stesso durante tutto il suo cammino di adulto.
Ricordiamoci che anche nella gioia di aiutare la mamma nei piccoli lavori di casa il bambino manifesterà la preferenza della madre nei suoi confronti, che così lo fa sentire sempre più importante.
Il sorriso è lo stare con la madre, il ridere è la manifestazione dell’orgoglio e della soddisfazione di eseguire e conquistare qualcosa insegnatogli da lei, dalla quale gli giunge un segno di allegra approvazione. Il sorriso è quindi amore, il ridere è... «obbedire». [...]
Coinvolgerlo in modo positivo nelle realtà quotidiane: ecco che l’elemento formativo darà felicità al bambino, se non lo avrete mai fatto sentire come un ordine. Il significato di comando, infatti, non deve mai essere trasmesso come un invito obbligatorio prima dei quattro-cinque anni. Sembrerà semplicistico e forse ovvio, ma pochissimi invece capiscono l’importanza di farsi accompagnare e far partecipare il bambino alle commissioni, commentando a voce alta le cose che vedono. Questo sia con i genitori sia con i nonni.
L’infanzia sorridente in questo periodo storico non è purtroppo la normalità, ma l’amore, lo slancio impegnato e caricato di generosa attenzione quotidiana formerà un adulto più o meno maturo.
È scomparso a 97 anni il pioniere degli studi dell’infanzia in Italia
Si era formato all’estero, poi rientrato a Roma aveva costruito il suo istituto d’avanguardia
Aveva grande rispetto per le madri e ne ha difeso l’immagine positiva
di Luciana Sica (la Repubblica, 07.02.2011)
«Per favore, niente retorica sulla mia persona». Aveva ragione a chiedere maggiore sobrietà sul suo conto, Giovanni Bollea, il celebre studioso dell’infanzia scomparso ieri a Roma a 97 anni (la camera ardente sarà allestita domani in Campidoglio, dalle 10). Aveva ragione di temerla, la retorica, perché correva il rischio di essere ingabbiato in una serie di cliché giornalistici, inevitabilmente facili: dal "vecchio saggio" al "professore appassionato", all’"irriducibile idealista". Definizioni anche gratificanti, ma semplificatorie e riduttive di un’esperienza umana e professionale di prim’ordine.
Che Bollea fosse saggio, appassionato e idealista è fuori di dubbio, ma più importante è stato il suo ruolo nell’affermazione di una disciplina - la neuropsichiatria infantile - prima molto osteggiata, poi considerata negli ambienti accademici con qualche sussiego, infine anche un po’ enfatizzata, come del resto negli ultimi anni sono stati enfatizzati i bambini. Sempre più si tecnicizza e si idealizza la loro presunta felicità: un modo sofisticato per dissimulare l’ambivalenza dei sentimenti in un Paese dove i bambini non si fanno.
Bollea, invece, ha sempre avuto una profonda fiducia nei più piccoli, nella loro diversa modalità di guardare il mondo. Era convinto che sarebbero stati proprio loro - i bambini - a distruggere l’individualismo e il consumismo della nostra epoca. Ma, di Bollea, affascinava anche la considerazione e il rispetto che aveva per le madri, secondo una lezione umana e scientifica nel segno dei grandi innovatori negli studi sull’infanzia come Donald Winnicott e John Bowlby. Una lezione che si può sintentizzare così: la mamma sa come comportarsi con il suo bambino, e in quel suo sapere naturale deve confidare pienamente.
Tutt’altro che un’ovvietà, perché la madre oggi viene considerata, e quindi si considera, la maggiore incompetente in fatto di figli, mentre una quantità di esperti le indica perentoriamente il modo di partorire, di allattare, di fare le pappe, di cambiare i pannolini, di vestire, di sorridere, di vietare, di divertire il proprio bambino. Qualcuno - i soliti psichiatri americani - ha addirittura ipotizzato che la mamma sia facilmente sostituibile. Una specie di optional, visto che i bambini sarebbero in grado di raggiungere uno sviluppo psicologico normale con qualsiasi altra figura femminile significativa.
Pacatamente ironica l’obiezione di Bollea, in un’intervista a Repubblica per i suoi novant’anni: «Non capisco proprio - disse - perché si voglia attaccare la mistica della madre, quando l’etologia ha dimostrato che questa è una mistica delle specie viventi. Penso che le ricerche più recenti hanno fatto un enorme regalo alle donne, forse il più grande. Noi sappiamo che soltanto la madre naturale è in grado di captare i segnali del bambino e di dargli significato. È lei che inizia il neonato alle sue capacità cognitive. È dunque la donna che crea la mente dell’uomo».
Le madri non sbagliano mai (1995) e Genitori grandi maestri di felicità (2005), usciti da Feltrinelli, sono tra gli ultimi libri di Bollea - di taglio divulgativo e di gran successo (assai meno recenti i suoi saggi a carattere decisamente universitario sulla Psichiatria dell’età evolutiva, usciti da Bulzoni).
Ma dove saranno mai queste mamme perfette? Quel titolo paradossale somiglia a una dichiarazione di principio, difende l’immagine della madre positiva, «felice sintesi di istinto-tradizione-cultura». Bollea cita Bion, psicoanalista molto letterario, oltre che di genio («La madre riuscirà a trasformare con successo la fame in soddisfazione, il dolore in piacere, la solitudine in compagnia, la paura di morire in tranquillità»). E quando poi scrive che di donne imperfette e sapienti ne ha incontrate moltissime, si coglie un’ammirazione tutta speciale. Bollea era però un uomo sobrio, meglio: un piemontese austero (di Cigliano Vercellese), che non amava dire di sé più di tanto. Si appassionava invece a rievocare gli anni in cui - giovanissimo e allievo prediletto di Ugo Ciarletti - si lanciò nell’avventura della neuropsichiatria infantile con il piglio del pioniere entusiasta. Nel ’46 venne scelto - gli italiani erano sei in tutto - per frequentare un corso di psichiatria a Losanna, e più tardi fu assistente a Parigi, facoltà di Medicina, cattedra di psichiatria infantile. Al ritorno in Italia, Bollea costruì dal niente quello che oggi è considerato un Istituto di neuropsichiatria infantile all’avanguardia in Europa: in via dei Sabelli, a Roma, nel quartiere di San Lorenzo. Un "centro" ora a rischio di tagli, che lui ha difeso fino allo stremo delle forze.
Anche in anni recenti Bollea ha continuato a lavorare, privatamente, e a farci sentire la sua voce, indignata e lucida, le tante volte che i bambini diventavano protagonisti di storie terribili. Ma era sempre infastidito che la normalità fosse tanto bistrattata, che non facesse notizia: implacabile il suo "j’accuse" ai media, soprattutto alla televisione, per quella che definiva «l’insana passione di rappresentare le atrocità del mondo». E l’ultima associazione - di cui è stato fondatore e presidente - ha voluto chiamarla, per ogni chiarezza, "Alberi per la vita". Era convinto che battersi contro i guasti alla natura e occuparsi del benessere dei bambini fossero attività molto simili.
Si può dire, senza retorica, che la vita di Bollea sia stata segnata da un incrollabile ottimismo - a dispetto dell’orrore che denunciava con un senso forte dell’impegno civile. «Ci ritroviamo immersi - diceva - in un’epoca piena di paure. Ma io credo che l’uomo possa ritrovare se stesso. La famiglia e la scuola costituiranno i due formidabili baluardi di una nuova rivoluzione». Si aspettava molto dal futuro, Giovanni Bollea, con quella sua aria giocosa da folletto saggio: senza nessuna simpatia per una certa arida intellettualità e i suoi narcisistici pessimismi di maniera.
TEMPI MODERNI/IL GIORNO DELLA MEMORIA
I protagonisti / Il viaggio della morte
Janusz Korczak e suoi piccoli orfani
di Amadigi di Gaula
"Dite: è faticoso frequentare i bambini. Avete ragione. Poi aggiungete: perché bisogna mettersi al loro livello, abbassarsi, inclinarsi, curvarsi, farsi piccoli. Ora avete torto. Non è questo che più stanca. E` piuttosto il fatto di essere obbligati a innalzarsi fino all`altezza dei loro sentimenti. Tirarsi, allungarsi, alzarsi sulla punta dei piedi. Per non ferirli”. (Janusz Korczak)
Janusz Korczak, il cui vero nome era Henrryk Golddszmit, era nato a Varsavia il 22 luglio 1878 da una famiglia ebraica. Medico ed educatore, si era impegnato, fin dal 1911, ad assistere i bambini orfani (ebrei e non ebrei), legando a tale attività il senso della sua esistenza. Divenuto a Varsavia direttore dell’orfanatrofio di via Krochmalna, nel 1940 fu costretto a trasferirsi con i suoi piccoli assistiti entro il recinto del ghetto della capitale polacca.
Qui, mai dimentico di trasmettere ai piccoli allievi i più alti valori umanistici nei quali credeva, a cominciare dal senso di responsabilità e dal rispetto della dignità umana, si troverà ad affrontare difficoltà estreme, quali quelle di sfamare i suoi assistiti, di tutelarli dalle malattie, di difenderli dall’inedia e dalla denutrizione.
Quando, il 6 agosto 1942, giunse l’ordine di evacuazione con destinazione Treblinka, Korczak e la sua assistente Stephania Wilczynska rimasero fino all’ultimo fedeli al loro modello di vita: “vestirono i bambini con i loro abiti migliori, diedero a ognuno un sacchetto e dissero che avrebbero fatto un viaggio. Confluirono così nel piazzale della Umschlagplatz: Korczak, con un bimbo in braccio, diresse il canto dei bambini, mentre questi, procedendo in fila ordinata, si ricongiungevano con gli altri ebrei” (Dizionario dell’olocausto, Einaudi, Torino 2004).
A gettare un po’ di luce su questo straordinario episodio di dignità estrema ci soccorre la testimonianza di Emmanuel Ringelblum, il celebre resistente del ghetto, il quale a sua volta scrive: “L’eroismo del dottor Korczak, di Koninski, di Janowski, che non hanno voluto abbandonare i piccoli dei loro ospizi. Korczak ha diffuso il principio morale secondo cui all’Umschlag dovevano andare tutti insieme [i piccoli insieme ai direttori degli ospizi]. Ci sono stati direttori di ospizio i quali sapevano benissimo che cosa li attendesse all’Umschlagplatz, ma hanno sostenuto che in un momento così cruciale avevano il dovere di non lasciar partire i bambini da soli, bensì di andare alla morte con loro” (I sepolti di Varsavia, Il Saggiatore, Milano 1965). Una informazione ancor più circostanziata ci offre la testimone oculare Mary Berg, la quale, nel suo diario, così descrive l’episodio: “Pochi giorni fa [6 agosto 1942, n.d.r.], affacciati alle finestre della Pawiak, abbiamo visto i tedeschi circondare la casa. File di bambini che si tenevano per mano sono cominciati ad uscire. C’erano tra loro creaturine di due o tre anni; i più grandi arrivavano forse a tredici. Ognuno portava in mano un fagotto e indossava un grembiule bianco.
Camminavano a due a due, calmi, sorridendo, senza sospettare nemmeno lontanamente la loro sorte. Il corteo era chiuso dal dottor Korczak che badava a mantenere i bambini sulla carreggiata. Ogni tanto, carezzando paternamente un bambino sulla testa o sul braccio, raddrizzava la fila. Portava alti stivaloni, una giacca d’alpagas e un berretto blu della marina, il cosiddetto berretto Maciejowka. Camminava con passo fermo, accompagnato da uno dei dottori dell’asilo in camice bianco. La triste processione è sparita all’angolo delle vie Dzielna e Smocza, dirigendosi verso via Gęsia, dove si trova il cimitero. Al cimitero tutti i bambini sono stati fucilati. I nostri informatori ci hanno anche detto che il dottor Korczak è stato costretto ad assistere alle esecuzioni e che lo hanno fucilato per ultimo” (Il ghetto di Varsavia, Einaudi, Torino 1991).
A parziale rettifica di questa testimonianza, il curatore del libro della Berg, Frediano Sessi, in una nota a piè di pagina cita un passo tratto dall’articolo di Marek Rudnicki, L’ultima strada di Janusz Korczak, apparso sul “Tigodnik Powszechny”, Settimanale Universale, il 6 novembre 1988. In esso è scritto: “Il 6 agosto 1942, alle ore dieci, Janusz Korczak è visto in via Dzielna 16, con i suoi bambini e alcuni collaboratori - fra cui Stefania Wilczynska, la sua più stretta assistente -, pronto al-l’‘ultimo viaggio’. Il mesto corteo cammina lentamente, i bambini sono in fila per quattro, e raggiunge via Dzielna 31 sede dell’orfanatrofio comunale che il dottor Korczak visitava più volte la settimana. Sono i bambini di questo orfanotrofio, e non quelli della Casa degli Orfani, che Mary Berg vede dalle finestre sul retro della Pawiak. Dopo il passaggio in via Dzielna 31, i bambini sono circa duecento. Alle ore dodici, il corteo giunge nella Umschlagplatz. Qui un funzionario della Judenrat tenta inutilmente di impedire la deportazione del gruppo di Korczak (N. Remba). Alle ore sedici salirono sul convoglio diretto a Treblinka. I bambini e gli adulti che non morirono durante il percorso, vi saranno fucilati, per ordine di Christian Wirth, il 7 agosto. Secondo la testimonianza che riferiamo, Korczak stesso morì in treno di dolore”.
* Articolo 33 n. 1-2/2011 - Edizioni Conoscenza: http://www.edizioniconoscenza.it/rivista.asp?id=145
L’UNIVERSITÀ DI NOTRE DAME Lo studio è un’impietosa critica alla moderna famiglia americana
I SUGGERIMENTI «Dall’allattamento al seno al dormire nel lettone: torniamo alla naturalezza»
Il genitore perfetto? Si ispiri a Neanderthal
La provocazione di una psicologa: “I nostri antenati allevavano bimbi forti e sereni”
di Roselina Salemi (La Stampa, 28.03.2011)
Pensavamo di esserci molto evoluti, con il nostro armamentario di carrozzine, passeggini, seggiolini omologati per l’auto, pappe pronte sottovuoto, costose babysitter. Pensavamo fosse giusto. Invece uno studio dell’Università di Notre Dame, nell’Indiana, severa scuola cattolica (nota per gli studi di diritto, e per aver dato alla patria una sfilza di campioni di pallacanestro) ci dice che non è così. E ci riporta a 100mila anni fa, prima dell’agricoltura e della scrittura, al tempo dei cacciatori-coglitori, antichi gruppi convenzionalmente noti come neanderthaliani.
Che forse, come genitori, erano molto più bravi di noi. L’atto d’accusa di Darcia Narvaez, docente di Psicologia a Notre Dame, parte da un’analisi spietata della società americana, già scossa dal saggio di Amy Chua, professoressa di Legge alla Law School dell’Università di Yale, che sostiene al superiorità delle mamme cinesi, più severe, su quelle occidentali. Secondo Darcia Narvaez, solo il 15 per cento delle madri Usa allatta il bambino al seno (e al massimo per 12 mesi), «lo tocca pochissimo, lo passa da una carrozzina a un passeggino, le famiglie sono frammentate e il gioco in libertà è diminuito drasticamente dagli anni ’70 in poi. Questo comportamento produce generazioni fragili, con forti disagi emotivi, e un gran numero depressi, egocentrici, violenti».
Quello dei «cacciatori-coglitori» sembra un modello migliore: gruppi con una forte solidarietà sociale e una grande empatia. Le madri allattavano i figli sino a 5 anni, (soltanto a 6 il sistema immunitario è perfettamente formato). Il parto naturale permetteva alla donna di produrre gli ormoni necessari ad affrontare la cura del figlio, coccolato e tenuto in braccio. Il piccolo dormiva accanto ai genitori, per nulla sfiorati dall’ idea di viziarlo. Beh, erano anche altri tempi, parecchi bambini non superavano l’undicesimo anno di età, c’erano predatori tremendi e un clima micidiale. Non era il caso di aggiungerci altro. Nessun ricercatore ha a disposizione dati su antiche famiglie di cacciatori-coglitori per compararli con le nostre, ma il sistema di vita, praticato in luoghi spersi del mondo dove non sono arrivati né la Coca Cola, né il Grande Fratello, al massimo qualche antropologo, è ancora documentabile. E l’analisi si aggiunge ai molti studi sulla distanza emotiva che oggi separa i genitori dai figli. Yehudi Gordon, del St. John & St. Elizabeth Hospital di North London pioniere del parto in acqua in Gran Bretagna, invita le donne a essere più madri e meno lavoratrici, a restare accanto ai figli per un paio d’anni, ad allattare ed evitare, salvo in casi di vera necessità, il cesareo (che però è comodo e programmabile).
In Italia, Silvia Vegetti Finzi, docente di Psicologia Dinamica all’Università di Pavia, ha messo in guardia i genitori dai rischi di una delega precoce: babysitter, nidi («così socializza») e una valanga di attività sportive e creative riducono lo spazio di comunicazione tra genitori e figli. Anche il gioco è programmato e spesso, solitario, davanti a un computer. Certo, il discorso si fa complicato e delicato, perché le donne non hanno voglia di tornare a occuparsi soltanto di pappe e pannolini e non è che siamo commosse dalla bellezza della famiglia neanderthaliana, ma certe volte, l’evoluzione, con i suoi complicati slalom riesce a recuperare l’eredità del passato.
Una forte corrente di pensiero sostiene l’allattamento al seno, il parto naturale, il congedo (anche di paternità) e nuovi orari di lavoro per le mamme. Eve Ensler, autrice dei leggendari «Monologhi della Vagina» e di «Io sono emozione» (appena uscito da Piemme) anticipa in forma poetica, la tendenza all’ascolto di sé: «Io sono una creatura emotiva/ Io sono ciò che resta della tua memoria/ ti metto in comunicazione con la tua origine/Nulla è stato annacquato/ Nulla si è perso/ Io posso riportati indietro». Giovanni Bollea, padre della moderna neuropsichiatria infantile, scomparso lo scorso febbraio, l’ha detto in un altro modo nel bestseller «Le madri non sbagliano mai»: «Una madre in genere sa cosa è meglio per il bimbo, lo sente, lo avverte, lo percepisce, lo intuisce e, se cultura e società non la disorientano, fa la cosa giusta». Dal tempo dei cacciatori-coglitori ai giorni nostri.