Habermas respingeva qualsiasi idea tradizionale di nazione come «una comunità del destino plasmata da una comune eredità, una lingua e una storia comuni», e dichiarava di concepire piuttosto le nostre nazioni moderne come comunità di cittadini [...] Rifacendosi all’idea illuministica degli Stati moderni come formazioni storiche fondate su un contratto costituzionale, procedure democratiche, condivisione d’interessi economici, valori culturali, interpretazioni del passato e sviluppo di una «sfera pubblica», Habermas concepisce l’Europa come una comunità specifica di cittadini (citoyen) caratterizzata dalla presenza condivisa di valori [...]
[...] Nella ricerca delle memorie condivise, De Rougemont mette in campo le tre città-simbolo della grande tradizione: Atene, Gerusalemme, Roma, e poi numerose culture: l’Oriente, la Grecia, il Cristianesimo, i Celti, i Germani, gli Arabi, gli Scandinavi, gli Slavi.
Un’eredità plurale
L’attaccamento alle radici comporta inevitabili conflitti. Anziché affannarsi a cercare dubbie identità, è più utile rifarsi alle lezioni di Jürgen Habermas e di Denis de Rougemont che da prospettive differenti prefigurano comunità caratterizzate da valori di inclusione e solidarietà.
di Remo Ceserani (il manifesto, 23 febbraio 2011)
Tutti si affannano, in questi giorni, e riempiono le pagine dei giornali, dei siti web, dei blog, e delle trasmissioni televisive, per discutere di identità: l’identità italiana, le radici cristiane dell’Italia o dell’Europa, l’identità padana (del tutto immaginaria e composita), e così via.
La parola «identità», usata a proposito e a sproposito, compare sempre più spesso nei discorsi degli storici e dei giornalisti italiani, con insistito riferimento, in questi ultimi tempi, all’identità italiana (un’identità, come è noto, abbastanza incerta e traballante e prodotta con qualche fatica attraverso le vicende del Risorgimento, del Fascismo e della Resistenza).
Tutti sappiamo che l’idea di una identità forte, sia delle singole persone (gli imprenditori, i costruttori del proprio destino, i protagonisti della propria vita), sia delle singole comunità (i gruppi sociali, le classi, le nazioni) sono un prodotto tipico della modernità, basato su forti investimenti ideologici e su vere e proprie costruzioni di sé con tutti gli strumenti offerti dalla mitologia (le origini, le radici) e dall’immaginario (la storia, la bandiera, gli inni, le date fatidiche, sia delle vittorie sia persino in certi casi, delle sconfitte, come è avvenuto per l’identità serba in seguito alla vittoria turca nella Piana dei Merli, nel Kosovo, il 15 giugno 1389, giorno di San Vito).
Individui in movimento
Forse è il caso di dirci, sommessamente, che si corrono grossi rischi, e si cade in troppe rigidità ideologiche, quando si parla di identità. L’attaccamento alle radici, siano esse etniche, culturali o, peggio ancora, religiose, comporta un’inevitabile conseguenza di conflitti. La difesa della propria identità prevede un confronto, e spesso un contrasto (anche violento) con le identità altrui. Il panorama mondiale è ancor oggi pieno di conflitti che nascono proprio dalla rivendicazione delle proprie radici e dallo scontro fra identità diverse. E la storia offre esempi infiniti di guerre tribali, interetniche, civili, nazionali, mondiali, nate da simili rivendicazioni.
Oggi in teoria saremmo in un mondo, quello della globalizzazione o della modernità liquida, in cui gli individui si muovono sempre più rapidamente e attraversano molti confini: sono immigrati che lasciano i paesi poveri o i regimi polizieschi per andare a vivere in società più aperte e più ricche di opportunità di lavoro. Sono giovani che hanno ottenuto una formazione nelle università e in centri di ricerca del proprio paese e, per sfuggire a strutture chiuse e corporative, o per semplice desiderio di ampliare conoscenze ed esperienze, vanno a operare nei centri di ricerca o nei laboratori di altri paesi. Sono persone che si trapiantano per necessità o per gusto della novità e dell’avventura. Sono i protagonisti della mobilità sociale. Sono coppie che si formano dopo l’incontro fra individui (uomini o donne) appartenenti a culture diverse, che vanno a vivere presso uno di loro oppure si spostano entrambi in un paese terzo.
Nel segno dell’illuminismo
Se esaminiamo questo problema dal punto di vista della teoria sociale, non possiamo che contrapporre all’idea di «identità» (ossia l’attaccamento più o meno volontario alle proprie radici e alla propria comunità di origine, la disponibilità a rafforzarla e difenderla fino al sacrificio - «pro patria mori»), l’idea di «appartenenza», ossia la libera scelta della comunità in cui vivere e disponibilità a rafforzarla e difenderla, con juicio e possibilmente con armi pacifiche. È stato chiarissimo in proposito il filosofo tedesco Jürgen Habermas, che ne ha parlato al tempo della discussione sulla costituzione europea e dello scontro con chi insisteva - fra questi non solo i prelatidel Vaticano ma anche Fini, se ben ricordate - sulla necessità di inserire nel testo la rivendicazione dell’identità cristiana dell’Europa.
Habermas respingeva qualsiasi idea tradizionale di nazione come «una comunità del destino plasmata da una comune eredità, una lingua e una storia comuni», e dichiarava di concepire piuttosto le nostre nazioni moderne come comunità di cittadini: «una comunità civica, anziché etnica», la cui identità collettiva «non esiste indipendentemente o antecedentemente al processo democratico da cui scaturisce» (Tempo di passaggi, Milano, Feltrinelli, 2004, ma vedi anche Ach Europa!. Kleine politische Schriften XI, Frankfurt, Suhrkamp).
Rifacendosi all’idea illuministica degli Stati moderni come formazioni storiche fondate su un contratto costituzionale, procedure democratiche, condivisione d’interessi economici, valori culturali, interpretazioni del passato e sviluppo di una «sfera pubblica», Habermas concepisce l’Europa come una comunità specifica di cittadini (citoyen) caratterizzata dalla presenza condivisa di valori come la solidarietà, l’orientamento verso il sociale, l’inclusione politica ed economica.
Questo passaggio del discorso di Habermas mi sembra di grande importanza: sarebbe bene che chi può scegliere la comunità alla quale aderire, ammesso che la possibilità di scelta sia reale (e temo che, pur con tutta la mobilità sociale del mondo globalizzato, quelli che possono scegliere non siano molti), preferisse una comunità caratterizzata da valori condivisi come «la solidarietà, l’orientamento verso il sociale, l’inclusione politica ed economica». Per fare qualche esempio dal mondo occidentale dopo la grande crisi: molti paesi europei sembrano poco inclini all’inclusione politica ed economica degli immigrati; l’Inghilterra e gli Stati Uniti, che tendono a cancellare il welfare, sembrano poco orientati verso la solidarietà e il sociale.
Il federalista Gioberti
Se poi esaminiamo il problema dal punto di vista della storia (di gran moda ai nostri giorni, in cui abbiamo delegato al bravissimo Benigni di tentare la ricostruzione, con l’aiuto di Aldo Cazzullo, delle vicende del Risorgimento - ma forse avrebbe fatto meglio a chiedere l’aiuto anche di Alberto Mario Banti), credo doveroso riconoscere che il problema dell’identità italiana sia un vero ginepraio. Tutti noi, nati nell’una o nell’altra regione italiana, abbiamo problemi non piccoli a risalire all’indietro nella storia e a identificare le nostre origini e identità. Cosa sono io, nato in Lombardia? Di eredità celtica, o germanico-longobarda, o villanoviana, etrusca, latina, romana? O addirittura pelasgica, come voleva Gioberti, uno dei padri della patria di cui si parla poco in questi giorni, il quale nel 1846 si fece sostenitore di un’Italia unificata con il consenso papale e nel 1848 si proclamò federalista?
Sentite cosa scriveva nel Primato: «Il genio proprio degli Italiani nelle cose civili risulta da due componenti, l’uno dei quali è naturale, antico, pelasgico, dorico, etrusco, latino, romano, e s’attiene alla stirpe e alle abitudini primitive di essa; l’altro è sovrannaturale, moderno cristiano, cattolico, guelfo, e proviene dalle credenze e instituzioni radicate, mediante un uso di ben quindici secoli e tornate in seconda natura agli abitanti della penisola. Questi due elementi, che sono entrambi nostrani, ma il primo dei quali è specialmente civile e laicale, il secondo religioso e ieratico, insieme armonizzano, giacché essendo logicamente simultanei e cronologicamente successivi, ma con assidua vicenda, l’uno compie l’altro, e corrispondono ai due grandi periodi della nostra istoria prima e dopo di Cristo, e alle due instituzioni italiane più forti e mirabili (alle quali credo che niun’altra si possa paragonare) cioè all’imperio latino nato dalla civiltà etrusco pelasgica, e alla dittatura civile del Papa nel medio evo, procreata dal Cristianesimo».
Tre città-simbolo
Vorrei, a tutti quanti si tormentano sulla questione dell’identità italiana, e ancor più su quella dell’identità europea, ricordare le parole di un grande intellettuale ginevrino, Denis De Rougemont, calviniano, figlio di un pastore, ma anche spirito libero e coraggiosamente radicale, che negli ultimi anni della sua vita, dopo la formazione parigina (il cui frutto fu un libro curioso e controverso: L’amore e l’occidente, 1939) e un lungo soggiorno americano, da Ginevra si spese con grande energia in favore dell’Europa, proponendo uno Stato federale basato sul modello della Svizzera (Écrits sur l’Europe, a cura di Christophe Calame, Parigi 1994). De Rougemont insiste sullediversità delle tante componenti che formano l’Europa e sul loro ruolo fecondo (lo stesso, a maggior ragione, dovremmo dire dell’Italia): «la diversità delle tradizioni, delle lingue, dei partiti, delle nazioni e persino delle religioni, è una condizione fondamentale della creatività e dello spirito d’invenzione» propri dell’Europa.
Nella ricerca delle memorie condivise, De Rougemont mette in campo le tre città-simbolo della grande tradizione: Atene, Gerusalemme, Roma, e poi numerose culture: l’Oriente, la Grecia, il Cristianesimo, i Celti, i Germani, gli Arabi, gli Scandinavi, gli Slavi. Egli ricorda per esempio l’apporto celtico del gusto per l’avventura, per la dismisura e per la potenzialità trasfigurante del sacrificio e della sconfitta, oppure l’apporto germanico e celtico dell’ideologia cavalleresca e della fedeltà di appartenenza al clan e al ceto nobiliare, oppure ancora l’apporto occitanico della concezione cortese della vita e dell’amore, arricchita di elementi della gnosi e dell’erotismo arabo.
Ma ricorda anche altri elementi, che spiegano l’insieme complesso e pieno di contraddizioni delle identità europee: 1) la molteplicità delle lingue ma anche le loro profonde e nascoste affinità, dovute all’eredità indoeuropea, che accomuna quasi tutte le lingue antiche e moderne del continente (ricorda per esempio la presenza in molti paesi dei derivati dei termini dubron e dour che in celtico e in brettone armoricano significavano «acqua», come dimostrano i nomi dei fiumi Douro in Spagna, Drance e Thur in Svizzera, Dordogne, Durance, Drôme e Dore in Francia, le due Dore in Italia, la Dordrecht in Olanda e venti altri fiumi europei); 2) la lunga tradizione di organizzazioni statali e burocratiche forti, ereditate dall’opera di romanizzazione, che ha portato gli Europei a costruire stati-nazione molto accentrati e autoreferenziali e, sottolinea De Rougemont, a non saper concepire Dio o la vita spirituale al di fuori dei quadri istituzionali delle Chiese; 3) la concezione della persona umana fortemente autonoma e impegnata a seguire una propria vocazione indipendente, ma capace di contribuire alla fondazione di valori condivisi della comunità (eredità greco-cristiana colorata di valori germanici e celtici); 4) lo spirito critico e la propensione a liberarsi dall’impalcatura del sacro e dal culto dei morti, dai miti tribali, dalle credenze religiose nate dalla paura (che De Rougemont considera una eredità propriamente evangelica); 5) la tendenza, purtroppo molto diffusa, a lasciarsi condizionare dai legami pesanti con la materialità (e quindi a essere meno distaccati e liberi rispetto, per esempio, ai popoli influenzati dall’induismo o dal buddismo); 6) la tendenza, inoltre, a lasciarsi attrarre dall’astrazione (e quindi essere meno capaci di comunicare con le proprie forze vitali dei popoli africani influenzati dall’animismo).
Appartenenza e egoismo
Mi pare un quadro straordinariamente efficace delle nostre tante diversità e un programma convincente in favore di un’Italia, e di un’Europa, non delle identità, ma delle differenze e delle appartenenze. De Rougemont aveva in mente la Svizzera: un paese in cui convivono tre religioni e quattro lingue, orgoglioso della sua indipendenza, delle sue istituzioni politiche, unito non da ragioni di identità etnica, linguistica o religiosa, ma da peculiari, rispettabilissime, tradizioni storiche (ma anche, si deve aggiungere, da non poche ragioni di convenienza e interessi economicomateriali, e da una solidarietà un po’ chiusa su di sé e corretta da un qualche egoismo - come dimostra il recente affacciarsi sulla scena politica di un movimento xenofobo come il Ppd di Christof Blocher).
Tutto considerato, mi pare che la lezione di De Rougemont, così come quella di Habermas, potrebbe essere estremamente salutare in un’Italia come è quella in cui viviamo, estremamente confusa e distratta.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Le scommesse perdute dello stato. Crack istituzionale
Due recenti libri sulla crisi della democrazia rappresentativa. Il primo è di Maria Rosaria Ferrarese che affronta, ne La governance tra politica e diritto, le soluzioni che stanno emergendo nei sistemi politici occidentali incapaci di fronteggiare la globalizzazione. Gaetano Azzariti, ne Diritto e conflitti, analizza invece le contraddizioni del costituzionalismo nel registrare la natura dei conflitti sociali, culturali e di classe della contemporaneità
di Giuseppe Allegri (il manifesto, 24 febbraio 2011)
Come e perché ripensare la democrazia? È questa la principale domanda che pervade due volumi da poco in libreria. Quasi identica a quella che il filosofo d’origine tunisina Yves Charles Zarka pone in apertura al libro collettivo Repenser la démocratie (Armand Colin) a un nutrito gruppo di filosofi, giuristi, storici, sociologi. Nel nostro caso ci troviamo dinanzi a una sociologa del diritto, Maria Rosaria Ferrarese, autrice di La governance tra politica e diritto (Il Mulino, pp. 218, euro 18); e a un costituzionalista, Gaetano Azzariti, Diritto e conflitti. Lezioni di diritto costituzionale (Laterza, pp. 418, euro 35), un nome che i lettori de il manifesto conoscono assai bene per i suoi commenti e contributi sui duraturi «conflitti istituzionali» del nostro paese. Sin dai titoli si comprende che entrambi i lavori partono da un’analisi critica delle esperienze giuridiche, fortemente orientata a indagare i nessi istituzionali, politici e sociali dei modi di produzione del diritto, nella crisi delle categorie fondanti la modernità giuridica: statualità, democrazia rappresentativa, supremazia della legge, centralità del parlamento.
L’intento esplicitato da Ferrarese è quello di studiare la «governance come sfida alla, o come aggiustamento della democrazia»; o come interrogazione critica della «tradizionale geografia istituzionale costruita dallo stato moderno». Si parte da un dialogo/conflitto serrato tra «le sfide della governance» e le «presunzioni della democrazia rappresentativa», dapprima ponendo l’accento sulla «crisi della legislazione», l’insufficienza del clivage diritto pubblico/diritto privato e l’impossibile, reale divisione dei poteri. Siamo al centro della polarità tra costituzionalismo delle garanzie, limitazione dei poteri e governance prodotta da quella soft law che non pensa più il diritto come «formulazione normativa», ma piuttosto come «funzione, come risultato, come effettività». Sono le «impossibilità della rappresentanza» dinanzi alle «possibilità del costituzionalismo»: il deperimento «dell’ingegneria della delega» ai rappresentanti del popolo, lo sconfinamento territoriale oltre le frontiere perimetrate dalla democrazia istituzionale, il radicale mutamento delle società dopo l’«impoverimento» causato dalla crisi economica delle classi medie, massificate e individualizzate al contempo, pericolosamente sospese tra populismo, spettacolarizzazione delle pulsioni e «gestione professionale delle percezioni collettive». Si profila quindi la rivendicazione di nuove forme di partecipazione politica, la centralità della tutela delle minoranze, la riscrittura di nuove agende sociali e l’affermazione di inedite forme di produzione giuridica.
Ferrarese indaga da tempo il rapporto tra common e civil law nell’epoca globale, tra la tendenziale americanisation du droit e la necessaria, ma incompiuta, capacità di autotrasformazione della tradizione giuridica continentale, anche a fronte di un diritto comunitario spesso autoreferenziale.
Le fabbriche della legge
In questo oramai quarantennale cantiere si afferma la governance, come «esercizio del potere e produzione di norme giuridiche» attraverso strumenti e procedure che «legano soggetti, gruppi, comunità ai centri di potere»; ma anche come «modalità istituzionale» aperta, flessibile, a «geometria variabile», in un «panorama giuridico privo di centro e affidato a meccanismi di conflitto tra norme e di competizione tra ordinamenti». Nei due capitoli centrali della sua ricostruzione, Ferrarese indaga la «governance giudiziaria» e quella «contrattuale». Da una parte riprendendo «il precedente americano» della garanzia giurisprudenziale nella democrazia maggioritaria e il «dialogo tra Corti» nel diritto europeo dell’ultimo cinquantennio. Dall’altro esplorando la governance of contract, a partire dall’antropologia dell’homo oeconomicus, nell’esperienza del New Public Contracting thatcheriano, nel diritto globale della lex mercatoria, delle law firms e delle altre «istituzioni della globalizzazione» economica e finanziaria.
In questo quadro la governance diviene «succursale della democrazia»: approfitta delle incapacità della rappresentanza politica per instaurarsi al centro di una «competizione tra gli interessi», rispetto alla quale le istituzioni finiscono per divenire strumento della gouvernementalité foucaultiana, quasi riproducendo la «concezione cristiana del governo pastorale»; mentre in altri momenti si torna a una sorta di postmoderno medioevo della regolazione giuridica.
Eppure è possibile intravedere nelle procedure di governance una «tendenza al decentramento», alla frammentazione dei poteri, alle possibilità del controllo diffuso da parte di un’opinione pubblica attiva, dotata di accesso libero alla rete, alla «sperimentazione dal basso di meccanismi di partecipazione», oltre la dimensione contrattuale e giurisprudenziale della governance tradizionale. È lo spazio post-democratico dei soggetti invisibili alle istituzioni centralistiche dello Stato nazione, così come alla disseminazione immateriale della globalizzazione tardo-capitalista: la scommessa è quella di immaginare forme del conflitto all’altezza del mutamento di paradigma avvenuto nei sistemi istituzionali e di produzione normativa.
La dinamica costituzionale
E proprio di Diritto e conflitti si occupa Gaetano Azzariti, in un volume che ha il notevole pregio di essere sia un itinerario di lezioni di diritto costituzionale, che una proposta di ripensamento dei fondamenti teorici e istituzionali del costituzionalismo moderno e contemporaneo, alla luce della «dinamica dei conflitti»: un lavoro che necessita di un confronto ben più approfondito, che può essere solo suggerito e accennato in questa occasione.
La prima parte del libro ricostruisce il «diritto come norma sociale, regola di condotta» della convivenza, in cui «l’oggetto della scienza giuridica» si apre «alla società e alla complessità della realtà sociale» e l’ordinamento giuridico è inteso come «istituzione normativa e sociale». Rimane senza risposta la domanda sulla «costruzione del consenso sociale, che è sempre artificiale, ma può anche essere fortemente manipolata, nonché vacuamente spettacolare». È questo il punto di partenza dell’analisi critica proposta nella seconda, assai più ampia parte del volume: il rapporto tra «ordinamenti e conflitti» alla luce di una loro «composizione autoritativa», piuttosto che di una «soluzione procedurale», ipotesi alle quali viene preferita la «legittimazione dei conflitti» nella transizione dal «potere del demos alla sovranità della Costituzione».
È un’ampia e suggestiva cavalcata nel pensiero politico e giuridico della tradizione occidentale, che prende le mosse da una radicale e inappellabile critica della «composizione autoritativa dei conflitti», cui consegue il rifiuto della logica capitalistica dietro al «funzionalismo scettico di matrice nichilista», che può essere combattuto anche «in forza di un illuminismo disincantato e critico» e non necessariamente «contrapponendo una visione dogmatica e determinista»: «oltre al nulla del nichilismo, il costituzionalismo e la storia». In questo senso il «paradigma procedurale» di soluzione dei conflitti e il «normativismo» di matrice kantiana e kelseniana si mostrano insufficienti dinanzi alla portata innovativa di «conflitti irriducibili».
Qui si parte dalle figure tragiche di Antigone e Socrate, passando per la «resistenza passiva» di Tommaso e giungendo alla potenza razionalizzatrice della «gigantesca macchina dell’obbedienza» hobbesiana, capace di influenzare tanto il pensiero liberale del «costituzionalismo moderno di Locke», quanto «quello radicale e democratico» di Rousseau. Quel Rousseau che per Azzariti diviene il viatico alla «sovranità della costituzione»: l’affermazione post-rivoluzionaria del «nuovo patto sociale», che limita e divide i poteri, garantendo anche i «diritti fondamentali» dell’individuo; è l’avvio del lungo percorso che porta alla «democrazia pluralista o costituzionale». Affascinanti e coinvolgenti sono le pagine sul Rousseau «fomentatore del cambiamento», «critico dell’ideologia», promotore di un «radicalismo eversivo». Affascianti e coinvolgenti perché evidenziano la possibilità di intraprendere un percorso eterodosso verso una radicale trasformazione dell’esistente, anche tra le maglie oscure e a volte insondabili della governance postmoderna.
La democrazia del tumulto
L’ipotesi di contrastare la corrotta finanziarizzazione dell’economia ipercapitalista e «la crisi del modello politico incentrato sullo stato» (Ferrarese), a partire, piuttosto che dalla previsione di leggi intese come «limitazioni dell’azione», dalla creazione di «nuove istituzioni», post-rappresentative e non statali, che siano, usando una frase del Gilles Deleuze studioso di Hume, «modello positivo di azione». La sensazione che la centralità dei conflitti nel maturo capitalismo globale si dispieghi dalla necessaria lotta per la condivisione e trasmissione del sapere, inteso come bene comune, che già Condorcet definiva istruzione pubblica (contro la giacobina educazione nazionale), antagonistica tanto alla dimensione privata, che a quella statuale. E che intorno all’eccedenza della conoscenza si stia giocando tanto il massacro, prima generazionale e ora anche sociale, dell’ultimo trentennio in Europa, quanto le attuali, irriducibili rivolte sulla sponda meridionale del Mediterraneo.
È questo un sottile, ma duraturo filo rosso che lascia però del tutto aperta la dimensione creativa delle nuove forme di regolazione giuridica, sicuramente oltre le «buone pratiche» di una good governance. Se dovessimo elencare «buoni esempi» e modi per produrre il diritto, verrebbe da pensare alla democrazia del tumulto del Machiavelli dei Discorsi, che avremmo voluto trovare ricordata nel lavoro di Azzariti: «perché i buoni esempi nascono dalla buona educazione, la buona educazione dalle buone leggi, e le buone leggi da que’ tumulti che molti inconsideratamente dannano».
La supplente rispedita in Sicilia
Così ha voluto la Lega Nord
Una leggina toglie a molti insegnanti la cattedra nelle scuole delle regioni settentrionali.
La norma voluta da un senatore del partito di Bossi è nascosta nel decreto "Milleproroghe"
di SALVO INTRAVAIA *
La Lega rispedisce a casa Adriana e i suoi colleghi "terroni". Dal prossimo anno scolastico, moltissimi supplenti siciliani non potranno più lavorare nelle scuole del Nord: una leggina li costringerà a rifare le valigie e a tornare a casa. Un dramma che investe, tra mille altri, anche Adriana, insegnante palermitana in servizio in un piccolo centro della Toscana. "Ormai la mia vita è qui - racconta - Nonostante i disagi di un clima difficile, mi piace molto lavorare nella mia scuola in mezzo al bosco".
Dopo anni alla ricerca di una sistemazione, a 45 anni decide di fare le valigie per andare al Nord. In Sicilia non era stata certo con le mani in mano. Una decina d’anni fa aveva messo su una ditta di commercio all’ingrosso di supporti informatici, computer e materiale di cancelleria. "All’inizio le cose andavano bene. Fino a quando la grande distribuzione e la crisi non ci hanno messo in ginocchio, costringendoci a chiudere".
Lei però non si scoraggia. Ricorda di avere l’abilitazione all’insegnamento e nella primavera del 2009 fa domanda di inserimento in graduatoria: a Palermo per quella "a esaurimento" e in provincia di Massa Carrara per le "code" e le graduatorie d’istituto. Passano pochi mesi e arriva la prima telefonata. "L’anno scorso ho lavorato da dicembre a giugno in una pluriclasse di scuola elementare - racconta - Quest’anno mi hanno nominato a settembre su sostegno e lavorerò fino a fine anno".
In Lunigiana si trova bene. "Mettere su casa in un paesino di duecento abitanti - racconta - è stato naturale. Mi trovo bene con tutti: bambini, colleghe e gente del posto". Di siciliani, nelle scuole del Nord, ce ne sono tanti. "Non sono andata via da Palermo perché la mia terra non mi piace, ma solo per trovare il lavoro. Ed essere costretta a tornare da una norma discriminatoria mi sembra una follia". Dopo diversi anni, Adriana pensava di avere finalmente trovato un equilibrio. "Ho potuto fare questo colpo di testa - spiega - perché non sono sposata e non ho figli, ma non è stato facile lasciare a 45 anni gli affetti e le amicizie. Ma cos’altro potevo fare?".
E adesso? "Preferisco non pensarci: mi si prospetta il baratro". Il meccanismo che la riporterà probabilmente a casa è complesso. Nel 2009 il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, riapre le graduatorie provinciali dei supplenti, ma solo per l’aggiornamento del punteggio: non è possibile spostarsi da una provincia all’altra. L’unica chance è di inserirsi, oltre che nella propria graduatoria, anche in altre tre province, ma solo "in coda" e non "a pettine", cioè col proprio punteggio. Per le graduatorie d’istituto, utilizzate per le supplenze brevi, c’è invece libertà di movimento su tutto il territorio nazionale. Per queste ultime, Adriana sceglie la Toscana e le va bene. Ma pochi giorni fa la Consulta dichiara illegittime le "code" perché violano il principio di uguaglianza tra i cittadini.
Il governo non sa che pesci prendere, ma al Senato nel frattempo è in discussione il decreto "Milleproroghe". E un senatore della Lega, Mario Pittoni, non si fa sfuggire l’occasione. Propone un emendamento, approvato a Palazzo Madama con il voto di fiducia e ora in discussione alla Camera, che prevede il congelamento delle attuali graduatorie "a esaurimento" fino al 31 agosto 2012 e l’inserimento "a decorrere dall’anno scolastico 2011-2012" nelle graduatorie di dieci-venti istituti, ma solo nella stessa provincia in cui ci si trova inseriti nelle liste "ad esaurimento". Un combinato micidiale, che per Adriana e per migliaia di supplenti "emigrati" significa ritorno a casa e fine di tutti i sogni legati a un lavoro duraturo.
* la Repubblica, 23 febbraio 2011