FAMIGLIA CRISTIANA O FAMIGLIA BORGHESE? UN DISCORSO INEDITO
DI P. BALDUCCI *
Svelare le mistificazioni e le menzogne
A mio modo di vedere, è bene affrontare il referendum traendone tutti i vantaggi possibili, una volta che una certa parte ne ha messo in moto la macchina e nonostante che esso, con tutta evidenza, voglia coprire una manovra con obiettivi reazionari.
Credo che il primo vantaggio sia proprio quello di convocare le masse ed in specie le comunità cristiane, come qui, stasera, ad affrontare in modo critico questo come altri problemi in cui rimane inceppata, per mancanza di consapevolezza, la nostra crescita sociale. Affrontare questi problemi, per svelare tutte le mistificazioni, le menzogne, concretizzate e dissimulate all’interno di certi principi suggestivi.
Parlando da cristiano a gente che in gran parte si ritiene tale, ci tengo a dire che il momento che stiamo vivendo è proprio il momento in cui dobbiamo abbattere (noi ne siamo i primi responsabili) quella che chiamerei l’ideologia cattolica, come ideologia di copertura del mondo borghese, il quale mondo borghese trova vantaggio nel coprire i suoi obiettivi di conservazione sociale con dei valori cosiddetti cristiani che hanno ancora una grandissima forza di suggestione nelle coscienze.
La difesa della famiglia cristiana è un aspetto dell’ideologia cattolica che, molto di più di quanto potremmo pensare, nasconde la volontà di conservare un certo tipo di società e un certo tipo di sistema di rapporti di proprietà. Alzare quindi questo velo è in un sol momento recuperare la possibilità di un rapporto più vivace, più liberatorio col Vangelo e smascherare le reali intenzioni della classe dominante.
Così, quando i nostri vescovi hanno creduto di dover convocare i cattolici a una battaglia, la battaglia della indissolubilità giuridica del matrimonio in Italia, hanno fatto riferimento a un modello cristiano della famiglia, e certo un tale riferimento non può non avere risonanza nella coscienza di una larga parte del popolo italiano, anche di quella che politicamente ha fatto delle scelte dissenzienti nei confronti della Chiesa.
Non esiste un modello cristiano di famiglia
Che cosa si nasconde, però, dietro questo cosiddetto modello cristiano della famiglia? È lecito attribuire al messaggio cristiano un modello di famiglia quale quello che abbiamo ereditato dal passato e che ancora sopravvive? Ecco, la risposta è subito no. Si tratta appunto di una menzogna, non di quelle architettate da chi sa quale mal intenzionato, ma di quelle menzogne che nascono per una specie di escrescenza storica progressiva, sulla spinta di altre ragioni che non sono di tipo ideale, ma pratico.
Non esiste la “famiglia cristiana”, essa è appunto un falso valore. Io vorrei mostrarvi come liberandoci da questa falsificazione, ricercando anche le ragioni per cui essa è nata e si è fatta valere e riferendoci con coscienza liberata alle esigenze evangeliche, noi ci mettiamo in movimento tra le forze che mirano a far crescere la nostra società e liberarla anche da altre schiavitù.
Che cosa intendiamo quando si parla di modello cristiano della famiglia? Noi possiamo riferirci o al particolare ordinamento giuridico della famiglia, quello che è stato elaborato lungo i secoli dalla Chiesa cattolica, oppure ad un particolare concetto etico, morale della famiglia, che, anche indipendentemente dall’ordinamento giuridico-canonico, si è fatto valere da parte della società ita¬liana. Per cui si dice che la famiglia tipica italiana è una famiglia di formazione cristiana.
Ora, spieghiamoci su questo punto. Intanto sta di fat¬to che quando noi parliamo della famiglia secondo l’ordi¬namento canonico, quello che per adesso rimane in pri¬ma gestione della Sacra Rota e dei Tribunali diocesani, noi non dobbiamo affatto ritenere che si tratti della traduzione giuridica di un ideale evangelico. Si tratta invece di una creazione storica, precisamente databile, di cui è responsabile la Chiesa cattolica.
I primi cattolici non avevano un ordinamento giuridico proprio della famiglia. Essi vivevano la vita di famiglia, ed anche diremmo istitutivi, secondo il costume del tempo. Non c’era, per dir così, il matrimonio in chiesa; non c’era una anagrafe o un tribunale ecclesiastico per i matrimoni, non c’era il prete, al matrimonio. I cattolici si sposavano come tutti gli altri. Non sentivano alcun bisogno di dare al loro matrimonio un ordinamento giuridico particolare all’interno del generale ordinamento giuridico della società in cui vivevano, specialmente in quella romana.
Ad esempio, là dove erano le famiglie a stabilire il matrimonio dei figli, i primi cristiani facevano come gli altri: il padre di famiglia destinava alla figlia un dato marito, d’accordo con la famiglia del promesso sposo, senza che i due interessati potessero aggiungere nulla, perché questo era il costume.
Inutile quindi andare a cercare nei primi cristiani un modello di “famiglia cristiana”. Così, per quanto riguarda il modello etico della famiglia, non esiste un concetto etico specificamente cristiano, nei primi secoli. C’è una visione, se vogliamo, di fede, teologale, cioè legata al riferimento a Cristo.
Non esiste però un ideale di famiglia con particolari contenuti morali. La prassi familiare si modellava sul costume morale del tempo. Anche se è chiaro che il cristianesimo impose un rigore morale, un rifiuto di certe forme di depravazione, una condanna di certe degenerazioni; però non disse cose diverse da quelle che poteva dire l’etica degli stoici o dei pitagorici. Quindi il cristianesimo non si presenta con una sua etica familiare formulata nei primi tempi.
Come nasce il modello cristiano della famiglia
Solo quando la Chiesa, dopo Costantino, e precisamente con Giustiniano, acquista una responsabilità di tipo sociale, per cui tutti i momenti della vita sociale vengono gestiti dal clero, incomincia a formarsi un ordinamento matrimoniale cristiano che, come vedremo, si è poi accresciuto, si è arricchito, si è accreditato in ogni modo fino a trovare il suo sigillo nel Concilio di Trento e a diventare anche un modello di ispirazione per molti ordinamenti giuridici civili. Il codice napoleonico fu in gran parte tributario di questa tradizione giuridica della Chiesa medioevale.
Tuttavia ci domandiamo se il matrimonio cosiddetto cristiano ha veramente obbedito alle esigenze evangeliche o non piuttosto alle esigenze della società del tempo. La risposta è chiara: la cosiddetta famiglia cristiana, con tutti i connotati giuridici ritrovabili nel codice canonico, con tutti i connotati etici ritrovabili nel costume esemplare, è un prodotto storico e, come tale, relativo.
Per cui io non riesco a capire, proprio dal punto di vista diremo dell’individuazione culturale, che significhi difendere in una società pluralistica un modello cristiano di famiglia, perché non so quale dia questo modello, perché non si dà un modello proprio del cristiano.
La famiglia cristiana, se noi la conserviamo come prodotto storico ereditario, nasconde invece in sé particolari pregiudizi, particolari difformazioni, particolari rapporti sociali legati allo sfruttamento che sono tutti da rifiutare.
Caratteristiche superate della famiglia cristiana
Quali sono queste caratteristiche storiche da considerare superate? Innanzitutto è chiaro che l’unità della famiglia cristiana usufruiva di un dato economico, era l’unità patrimoniale. Il padre di famiglia era l’unico responsabile del patrimonio familiare, era lui l’unica figura economica della famiglia.
E quindi l’unità della famiglia, anziché essere il prodotto della scelta cosciente dei coniugi, era un portato fatale dell’indivisibile unità patrimoniale. Che cosa avrebbe potuto fare una buona donna cristiana, si fa per dire, di ceto povero, se avesse avuto mille motivi per lasciare il marito: andare a morire di fame o essere rifiutata dalla società abbiente come donna deplorevole, di cattivi costumi, ecc. La donna era legata a questo giogo dell’indissolubile monarchia economica del padre di famiglia.
A reggere l’indissolubilità della famiglia, oltre a questa ragione economica, esisteva un ambiente cosiddetto monoculturale, cioè a cultura unica, per cui tutti gli elementi culturali dell’ambiente spingevano a ricercare la propria identità nella famiglia di appartenenza.
Una donna non aveva un suo mondo culturale. I figli non avevano un mondo culturale autonomo. Non c’erano spazi diversi per l’esperienza di vita. La famiglia rappresentava il luogo normale e continuativo dell’esperienza culturale. L’unità quindi si manteneva perché mancavano forze centrifughe, aperture di orizzonti diversi per i componenti della famiglia. Pensate, ad esempio, al legame quasi fatale fra il lavoro del padre e del figlio.
In terzo luogo c’era la subordinazione della donna all’autorità maritale, che era una norma assoluta. L’attività pastorale della Chiesa ha in questo una specifica responsabilità, perché il modello che si forniva alla donna era un modello di subordinazione al marito. La “donna cristiana” è quella che dice sempre di sì al marito, che non ha in nessun campo iniziativa propria, le cui virtù sono tutte una garanzia alla tirannide maschile e i cui compensi mistificanti sono l’essere l’angelo del focolare.
Perfino san Paolo porta riflessi della condizione sociale della donna dei suoi tempi, quando dice che la donna deve essere sottoposta al marito, o deve coprirsi il capo quando entra in assemblea perché il capo della donna è l’uomo. San Paolo non rivela niente che abbia rapporto con la liberazione portata da Gesù Cristo.
Assume norme di comportamento proprie della società ebraica. Ma noi dobbiamo sapere che la fedeltà alla parola di Dio non è fedeltà ai modelli sociologici del comportamento, legati ad una certa fase dello sviluppo storico. La parola di Dio non assolutizza, non rende normativi quei modi di comportamento, ci esorta anzi a liberarcene.
E alla fine c’era il pessimismo sessuale, che svuotava la famiglia di ogni significato positivo di comunione spontanea a tutti i livelli e relegava la vita sessuale a una funzione di servizio in rapporto all’azione.
Il matrimonio è per i figli. In realtà, pensate che nel passato, anche in quel passato che certi nostalgici rimpiangono, il consenso libero della donna al matrimonio era una circostanza neanche presa in considerazione. La donna aveva così radicalmente accettato il modello impostole dalla società e dalla Chiesa che aveva perfino vergogna a dire che desiderava prender marito; magari lo desiderava con tutta se stessa, ma tale desiderio rimaneva inibito. Doveva esser lei, la donna cercata. Doveva essere senza iniziative e con un’etica del comportamento femminile che voi conoscete bene.
La stessa definizione della donna era di tipo biologico. La donna si definiva in rapporto alla sua biologia: era vergine o madre. Non persona, come l’uomo, capace di decidere della propria vita indipendentemente dalla condizione biologica; ma legata strettamente a questa, con delle sfere di mortificazione terribili, come la donna che non ha sposato, la zitella, considerata una donna fallita.
Oggi ci troviamo nella situazione in cui lo sviluppo della società ha messo in crisi le componenti di struttura che sorreggevano un certo tipo di famiglia cosiddetta cristiana. Abbiamo una crisi della famiglia che per molti è la crisi della famiglia cristiana, ma che invece è la crisi della famiglia tradizionale e niente altro.
Allora, un credente, quali doveri ha in questo momento? Non di stringersi, di far quadrato attorno a un modello di famiglia che non ha più nessuna ragione storica di continuare, ma rifarsi all’esigenza evangelica, interrogarsi di fronte ai Vangelo.
Ora, secondo me, il Vangelo, non ci dà nessun esem¬pio di famiglia precisa. Anche la sacra famiglia è un invenzione posteriore, borghese, perché la famiglia di Nazareth, non è un modello di famiglia, per il semplice fatto che, almeno nelle convinzioni di fede, Maria e Giuseppe non erano autenticamente marito e moglie. Quindi, presentare come modello di famiglia un modello in cui proprio l’aspetto principale non era integro, significa fare una mistificazione.
Indicazioni evangeliche
Occorre domandarsi piuttosto in che senso il Vangelo si apre a questa esperienza particolare della vita che è l’amore nella famiglia, nella linea della liberazione, cioè nella crescita secondo il disegno di Dio.
A me pare che ci siano dei punti fermi, questa volta autenticamente fermi, a cui fare riferimento in questo tentativo di recupero del significato evangelico che può avere la vita nell’amore, la vita familiare. Innanzi tutto, è sicuramente un’affermazione di fondo del Vangelo che dinanzi a Cristo non c’è nessuna differenza fra l’uomo e la donna, dinanzi a Cristo non c’è né maschio né femmina.
Quelle discriminazione desunte dalla realtà sociologica, che hanno un riflesso nella sacra scrittura, devono essere subordinate a questa che è l’autentica rivelazione in rapporto alla resurrezione: in Gesù Cristo la disparità tra l’uomo e la donna è abolita.
Certo noi sappiamo che la parola del Vangelo non si presta a diventare - guai se lo facessimo - un fondamento per nuovi ordinamenti giuridici; perché la parola del Vangelo, come si suol dire, è parola profetica, cioè una parola che indica certe linee di crescita, le quali sboccano in una totale liberazione cristiana.
In secondo luogo, secondo il Vangelo, la fedeltà non è il risultato di una legge esterna che costringe, ma è un’espressione dell’amore. Un’altra esigenza interna allo spirito evangelico è il rifiuto della strumentalizzazione, del rendere l’altro uno strumento di sé.
Espressioni bibliche quali “la persona umana è fatta a immagine di Dio”, “amate i vostri mariti come la Chiesa ama Cristo”, “amate le vostre mogli come Cristo ama la Chiesa”, per un credente sono un invito decisivo a rifiutare di fare dell’altra persona uno strumento di sé, si tratti dei rapporti fra coniugi, si tratti di rapporti familiari.
Questo rispetto della persona significa garanzia del rapporto veramente comunitario, perché tra rapporto comunitario e rapporto di società stabilito dalla legge c’è una differenza di qualità: il rapporto comunitario in tanto è, in tanto vive, in quanto trova la sua sorgente nel libero consenso e nel rispetto spontaneo della coscienza verso l’altro; i rapporti societari invece sono quelli che si stabili¬scono per forza di legge.
La famiglia, istituzione legata alle condizioni storiche
Siamo all’ultimo punto: non dobbiamo cadere in un così ingenuo evangelismo da credere che la famiglia non interessi la società, che debba essere riferita soltanto all’esperienza spirituale.
Ogni espressione dell’uomo, ma la famiglia in particolar modo, in quanto si innesta nei rapporti sociali generali, ha bisogno di istituzionalizzarsi. La istituzionalizzazione è un momento di serietà umana, il momento in cui si traduce in norma esterna la responsabilità di fronte alla società intera.
Però, non è con questo momento istituzionale che si definisce la famiglia. Il momento istituzionale è quello in cui l’esperienza della famiglia assume rapporti e responsabilità con l’insieme della realtà sociale. E la società, come tale, ha bisogno di tutelare la famiglia, di farsene garante in qualche modo, di proteggerne e favorirne lo sviluppo. Ma questo momento, lo ripeto, è del tutto legato alle condizioni storiche e varia a seconda del mutare delle condizioni storiche; perciò oggi c’è bisogno di una nuova istituzionalizzazione della famiglia.
La famiglia è una creazione continua. Nella Bibbia c’è la poligamia, poi si è acquisito il concetto della famiglia monogamica, che forse è un concetto irrinunciabile. Però non si deve dire che è la natura che l’ha voluto, perché questo significa attribuire alla natura astratta delle conquiste storiche che sono invece relative anch’esse.
Forse la famiglia dovrà cambiare ancora forma, dovrà cambiare struttura. Il concetto del diritto naturale è un concetto dell’immobilismo borghese, con cui si sono voluti rendere eterni e immutabili alcuni rapporti che erano funzionali alla società borghese. E qual è il criterio con cui la famiglia deve cambiare struttura? E’ quel di più di libertà che l’uomo deve avere. Quando diciamo libertà non parliamo della libertà soggettivistica identica al libero arbitrio, ma di una libertà in cui veramente l’esistenza dell’uno sia garanzia e condizione della libertà di tutti gli altri.
Questa crescita della famiglia presuppone un nuovo diritto familiare in cui dovrà essere anche previsto il caso nel quale la fedeltà reciproca di indissolubilità non è più possibile. Cioè la clausola del divorzio come verifica di un fallimento dell’esperienza e come legittima dei due, che hanno portato a termine un esperienza fallita, di crearsi una esistenza coniugale. Questo la legge lo può fare; a rigore, lo deve fare.
Però il diritto di famiglia non è questo. Ecco perché dovremo, una volta superata la battaglia sul referendum, considerarci continuamente mobilitati per favorire in Italia una modificazione profonda del diritto di famiglia, perché esistono già ormai le condizioni di coscienza generali e perché certe norme giuridiche della tradizione siano abolite e superate.
E naturalmente, quando si fa questa battaglia per un nuovo tipo di famiglia, si deve fare anche una battaglia per un nuovo tipo di società, perché se i rapporti economici rimangono quelli che sono poco vale il modificare i rapporti giuridici. Al più avremmo un aggiornamento neo-capitalistico della famiglia.
In ogni caso, una battaglia per la famiglia che si apre con il referendum, non si chiude con il referendum. Però dobbiamo dirci che noi, in quanto cristiani, non abbiamo niente, nessun modello nostro da difendere. Noi dobbiamo ricercare con gli altri un modello giuridico ed etico di famiglia, perché non abbiamo privilegi di nessuna sorta come credenti.
Come credenti ci compete l’onere e il privilegio, se volete, di essere fedeli alle ispirazioni evangeliche fondamentali; ma queste ispirazioni non sono da tradurre come modello etico-giuridico, poiché sono una spinta continuamente trasformante della realtà storica, disponibili a sempre nuove forme di ordinamento familiare.
LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
Le parole sbagliate di Saviano.
Non si sconfigge la mafia calunniando la famiglia
di Maurizio Patriciello (Avvenire, mercoledì 11 agosto 2021)
Maria Licciardi, chi è costei? Roberto Saviano, in un articolo apparso sul ’Corriere della Sera’, la fa conoscere anche a chi di malavita organizzata non s’interessa troppo. Licciardi, infatti, è una boss della camorra napoletana. Una criminale «più pericolosa di Matteo Messina Denaro», la descrive Giuseppe Misso, collaboratore di giustizia.
Una donna intelligente, scaltra, sanguinaria, che insieme ai fratelli ha sparso terrore e sangue. Arrestata, scarcerata, latitante, riacciuffata pochi giorni fa. Una storia squallida la sua, come quella di tutti gli affiliati. Una vita passata ad arraffare e accumulare illecitamente tanto denaro di cui mai potrà goderne. Giornate vissute tra rabbia, odi, ipocrisie, menzogne, incubi di finire al 41bis o di essere ammazzata. Una vita sprecata, quella di Maria. Saviano scende nei dettagli e di lei ci fa conoscere parentele, amicizie, inimicizie, alleanze e tante altre noiosissime cose. Dico noiosissime perché, in fondo, le dinamiche della camorra sono sempre le stesse. Si fanno accordi, si litiga, si tradisce, ci si ’scinde’, si uccide, si viene uccisi.
Le alleanze si disfano, gli amici diventano nemici, i capi invecchiano, i giovani come puledri scalciano. E iniziano le guerre. Guerre intestine che sovente sono note solo agli adepti e agli inquirenti; altre volte, invece, esplodono all’esterno e coinvolgono tutto e tutti. Un uragano. Sono quelli i momenti in cui la camorra si fa più violenta ma anche più stupida e fragile. Alla base di tutto ci sono la bramosia per il denaro e per il potere. I camorristi ne vanno pazzi. Li cercano, li vogliono, li bramano. E quando li hanno ottenuti precipitano in quel delirio di onnipotenza che si rivelerà il loro tallone di Achille. Denaro e potere, come due vecchi compari ubriachi, si tengono per mano, barcollano, si abbracciano, si sorreggono. Stanno o cadono insieme. L’uno è causa ed effetto dell’altro. Le mafie sono uno dei cancri - non il solo - della nostra società.
A Saviano va la nostra riconoscenza per il lavoro svolto in questo campo. Un articolo, dunque, su Maria Licciardi e la sua famiglia di sangue e di violenza. Ma, ecco che, con un inaspettato colpo di coda, lo scrittore smette i panni del giornalista e indossa quelli dell’ideologo:
Si rimane basiti. È partito dall’arresto di una nota criminale per sferrare un attacco alla famiglia? È proprio vero, la lingua batte dove il dente duole. Converrebbe ricordare, tra l’altro, che se le mafie si sono arricchite a dismisura con il traffico di droghe e di donne destinate al mercato della prostituzione è perché milioni di persone ’perbene’ fanno uso delle une e delle altre. Se non si riesce a estirpare il cancro maledetto delle mafie è perché l’asfissiante abbraccio mortale con i colletti bianchi e i danarosi moralmente miseri non è mai venuto meno. Certo, tutto si può regolamentare. Potremmo esporre in vetrine le prostitute come in Paesi definiti ’più avanzati’ e rendere legali le droghe, ma non avremmo risolto il problema.
Ben altra chiusura meritava quell’articolo. Meglio, a riguardo, rifarsi ai libri di Isaia Sales e di tanti altri scrittori che hanno affrontato la questione. Conoscendo, purtroppo, la simpatia di Saviano per l’utero in affitto - obbrobrio tra i più odiosi che si consuma, ancora una volta, soprattutto sulla pelle delle donne povere e dei bambini venduti e comprati come merce - mi domando se alludesse a questo lo scrittore quando parla di «nuove dinamiche in cui crescere vite».
Ci vuole davvero una grande dose d’ingenuità - ingenuità che chi ha imparato a conoscere il cuore dell’uomo non possiede - per credere che con il lucroso commercio delle industrie dei bambini ’fabbricati’, e offerti a facoltosi acquirenti, le mafie sarebbero sconfitte. Per illudersi che la bramosia per il denaro e per il potere sarebbero spente. Per pensare che i cuori degli uomini sarebbero purificati come per incanto.
A supporto della sua tesi, Saviano, chiama Andrè Gide: «Famiglie! Focolari chiusi; porte serrate; geloso possesso della felicità, vi detesto». Che dire? Gide e Saviano detestano la famiglia. Lo abbiamo capito e ce ne dispiace. Fatti loro, verrebbe da dire. A ognuno le sue esperienze, i suoi affetti, le sue idee. A nessuno però è concesso di calunniare la famiglia - le nostre famiglie! - che nonostante i limiti di ogni realtà umana, resta la prima fonte di vita, di relazioni, di crescita umana e spirituale per ogni essere umano.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
DIO: GESU’ E MARIA. E GIUSEPPE, DOV’E’?!! L’inutile strage (Benedetto XV, 1917) ... e il ’vicolo cieco’ del cattolicesimo-romano del 2006 d. C !!! Caro Benedetto XVI ... Pirandello (1918) aspetta ancora una risposta!!!
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
La voglia di normalità delle famiglie arcobaleno
di Marco Belpoliti (La Stampa, 24.01.2016)
Chissà se il movimento gay, lesbiche e trans quando ha scelto la bandiera arcobaleno quale proprio emblema ha pensato alla canzone che canta Dorothy nel “Mago di Oz”: Over the Rainbow? Probabilmente no.
Questa bandiera del resto ha già una sua lunga storia; dal movimento hippy californiano degli Anni Sessanta alle manifestazioni popolari contro la guerra e per la pace degli Anni Ottanta, sono diversi i gruppi e le aggregazioni che hanno issato questa sequenza di colori come proprio stendardo. L’hanno fatto per ricordare che l’arcobaleno è un fenomeno fisico che appare là dove cessano le implacabili piogge, com’era accaduto allo stesso Noè nel momento in cui, dopo il Diluvio universale, cercava di toccare la terra ferma per ricominciare la vita sulla faccia della Terra invasa dalle acque con il suo vascello di creature a coppie.
Le famiglie arcobaleno, che sono scese in piazza per manifestare a favore delle unione civili hanno molta voglia di andare al di là di questo simbolo, come canta Dorothy, Noè compreso, e di entrare in una vita quotidiana fatta di una sicurezza garantita dalla legge, qualcosa di molto normale, dove la parola ha un significato letterale: vivere in una norma sancita e uguale per tutti.
Quello che appare oggi in gioco nella estremizzazione del problema delle «unioni civili» è il tema della identità là dove, ci ricordano gli antropologi, l’identità è sempre una costruzione culturale. Appena una società intende costruire una propria identità intorno a un valore - in questo caso «la famiglia» - immediatamente s’imbatte in un problema di alterità. L’identità si costruisce a scapito della alterità, combattendo l’alterità, riducendo quelle che sono le possibili potenzialità alternative, ha scritto Francesco Remotti in un libro che andrebbe letto e meditato: Contro l’identità (Laterza).
Per quanto l’identità respinga, l’alterità risorge in modo prepotente e invincibile. Non c’è dubbio che le famiglie arcobaleno costituiscono un’alterità rispetto a quella che è l’identità famigliare dominante nella nostra società. Ricordando quanto ha scritto un’altra antropologa, Mary Douglas, ogni tentativo di purificazione reca con sé l’idea di impurità, di sporco. Non esiste l’impuro di per sé, ma solo in rapporto a un ordine che lo istituisce come tale, per opposizione. Nello scontro in corso intorno alle unioni omosessuali la coppia puro/impuro è una sorta di non detto, dal momento che c’è la tendenza a stabilire la norma e contemporaneamente l’anormalità, la purezza cui corrisponderebbe l’impurità. Tutto questo è una costruzione sociale. Non esiste un’identità umana unica e incontrovertibile, una norma stabilita una volta per tutte.
In un suo articolo di qualche anno fa, che oggi si legge in un libro recente, Siamo tutti cannibali (il Mulino), Claude Lévi-Strauss ha mostrato come non sia affatto la consanguineità a fondare la famiglia. Il grande etnologo francese fa l’esempio di società in cui la famiglia è composta di un fratello e di una sorella e nessun padre: tutti i figli avuti dalla donna sono stati concepiti con partner diversi, ma ne fanno integralmente parte e sono allevati dai fratelli; in un’altra una donna sterile può essere considerata un uomo e sposare un’altra donna e allevare con lei i figli. Altre ancora hanno abolito la categoria del marito e si sono fondate su forme di struttura famigliare che esclude quella biologica puntando piuttosto sul legame sociale.
Le famiglie arcobaleno rappresentano una diversità e una ricchezza che gli antropologi si guarderebbero bene di respingere. Non sono la maggioranza nella nostra società, non costituiscono a loro volta una norma, ma appunto una diversità, quella di cui abbiamo bisogno per costruire la nostra stessa identità prevalente. I colori con cui hanno sfilato nelle città italiane sono il segno di una pluralità rispetto ai vessilli monocromatici che dominano il nostro Occidente. Non delle aberrazioni, bensì alterità. Over the Rainbow, canta Dorothy. Proviamo ad andare davvero oltre.
Il Papa: non confondere la famiglia voluta da Dio e altre unioni. Ma quale famiglia, quale Dio?:
Il Papa: non confondere la famiglia voluta da Dio e altre unioni
Francesco alla Rota romana: «La Chiesa continua a proporre il matrimonio, nei suoi elementi essenziali non come un ideale per pochi ma come una realtà che, nella grazia di Cristo, può essere vissuta da tutti i fedeli battezzati». Serve una maggiore preparazione, un «nuovo catecumenato»
di ANDREA TORNIELLI (La Stampa, 22/01/2016)
CITTÀ DEL VATICANO
Nel percorso sinodale sul tema della famiglia, la Chiesa ha «indicato al mondo che non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione». Lo ha detto Papa Francesco ricevendo nella Sala Clementina giudici, officiali e avvocati della Rota romana, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario.
Bergoglio ha ricordato che la Rota «è il tribunale della famiglia» ma anche «il tribunale della verità del vincolo sacro», due aspetti «complementari» perché la Chiesa mostra l’«amore misericordioso di Dio» verso le famiglie, «in particolare quelle ferite dal peccato e dalle prove della vita», e allo stesso tempo proclama «l’irrinunciabile verità del matrimonio secondo il disegno di Dio».
Dopo aver sottolineato come il Sinodo abbia ribadito che «non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione», Francesco ha detto che la Chiesa, tramite il servizio della Rota, «si propone di dichiarare la verità sul matrimonio nel caso concreto, per il bene dei fedeli» e «al tempo stesso tiene sempre presente che quanti, per libera scelta o per infelici circostanze della vita, vivono in uno stato oggettivo di errore, continuano ad essere oggetto dell’amore misericordioso di Cristo e perciò della Chiesa stessa».
«La famiglia, fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo, appartiene al “sogno” di Dio e della sua Chiesa per la salvezza dell’umanità», ha spiegato Francesco, ricordando che «Dio ha voluto rendere partecipi gli sposi del suo amore: dell’amore personale che Egli ha per ciascuno di essi e per il quale li chiama ad aiutarsi e a donarsi vicendevolmente per raggiungere la pienezza della loro vita personale; e dell’amore che Egli porta all’umanità e a tutti i suoi figli, e per il quale desidera moltiplicare i figli degli uomini per renderli partecipi della sua vita e della sua felicità eterna».
La famiglia, ha aggiunto, è «chiesa domestica» e «lo “spirito famigliare” è una carta costituzionale per la Chiesa: così il cristianesimo deve apparire, e così deve essere». E la Chiesa sa che tra i cristiani, «alcuni hanno una fede forte, formata dalla carità, rafforzata dalla buona catechesi e nutrita dalla preghiera e dalla vita sacramentale, mentre altri hanno una fede debole, trascurata, non formata, poco educata, o dimenticata».
A proposito del peso della fede personale circa la validità del matrimonio, Papa Bergoglio ha ribadito «con chiarezza che la qualità della fede non è condizione essenziale del consenso matrimoniale, che, secondo la dottrina di sempre, può essere minato solo a livello naturale». Infatti, il dono ricevuto nel battesimo «continua ad avere influsso misterioso nell’anima, anche quando la fede non è stata sviluppata e psicologicamente sembra essere assente». Non è raro che gli sposi nel momento della celebrazione abbiano «una coscienza limitata della pienezza del progetto di Dio, e solamente dopo, nella vita di famiglia, scoprano tutto ciò che Dio Creatore e Redentore ha stabilito per loro».
«Le mancanze della formazione nella fede e anche l’errore circa l’unità, l’indissolubilità e la dignità sacramentale del matrimonio viziano il consenso matrimoniale soltanto se determinano la volontà», precisa il Pontefice. «Proprio per questo gli errori che riguardano la sacramentalità del matrimonio devono essere valutati molto attentamente».
«La Chiesa - ha concluso Francesco - con rinnovato senso di responsabilità continua a proporre il matrimonio, nei suoi elementi essenziali - prole, bene dei coniugi, unità, indissolubilità, sacramentalità -, non come un ideale per pochi, nonostante i moderni modelli centrati sull’effimero e sul transitorio, ma come una realtà che, nella grazia di Cristo, può essere vissuta da tutti i fedeli battezzati». Proprio per questo è urgente, dal punto di vista pastorale, coinvolgere tutte la Chiesa nella preparazione adeguata degli sposi al matrimonio «in una sorta di nuovo catecumenato, tanto auspicato da alcuni padri sinodali».
LA NECESSITA’ E LA GRAZIA
di Ernesto Balducci *
Appunto questo è il tema che volevo con voi meditare: l’aspetto gratuito della salvezza. Noi stiamo scontando - a mio giudizio - sia a livello della coscienza individuale sia a livello ecclesiale, una lunga stagione in cui avevamo cercato di inserire la nostra fede e la nostra presenza dentro i meccanismi della necessità. Parlo della necessità del senso razionale. La ragione ama argomenti che abbiano un carattere necessario, siano tra loco legati dal principio della coerenza.
E noi abbiamo dato l’immagine di un Dio necessario come architetto del mondo, come fine delle cose, come sanzione ultima del bene e del male. Questo Dio biblico, pieno di gesti imprevedibili, pieno di iniziative amorose, lo abbiamo ir-rigidito nel principio metafisico dell’Essere supremo, meta ultima dentro il meccanismo delle necessità reali e di quelle razionali. Abbiamo creduto, così, di armare la nostra attività pastorale di argomenti invincibili per persuadere gli atei che Dio c’è.
E cosi abbiamo inserito la nostra realtà di Chiesa dentro i meccanismi dell’ordine giuridico e dell’ordine politico, arrivando alla convinzione che senza di noi il mondo non va avanti, e che noi abbiamo la risposta per tutti i problemi: siamo necessari. Qualsiasi problema la società si ponga, tocca a noi rispondere. Se gli altri non ascoltano è perché sono deviati, smarriti nel peccato.
Siamo diventati necessari, terribilmente necessari. Ma poi, che cosa è avvenuto? Che questa necessità non regge alla prova dei fatti: il mondo va benissimo avanti senza di noi, come se non ci fossimo. E questo si ripercuote nella nostra coscienza con un pauroso senso di frustrazione. Uno che si riteneva necessario e si accorge di essere superfluo, è in terribile situazione psicologica. Collettivamente così siamo, noi cattolici. Ci arrabattiamo a dimostrare che senza di noi si fanno follie, ma in realtà la gente ci da sempre meno ascolto.
Che significa questo? Proviamo a risponderci restando nell’ottica della grazia, della salvezza come gesto gratuito.
Al banchetto di nozze, Gesù era un invitato come gli altri. E sua Madre lo stesso. Il banchetto si era organizzato senza di Loro, né essi se ne rammaricavano. Ma il vino, il vino del miracolo entrò all’improvviso - e i servi lo sapevano - a rallegrare la mensa, a togliere dall’imbarazzo lo sposo e la sposa. E’ un gesto semplice, non necessario. E il Vangelo sembra sottolineare questo aspetto dicendo che tutti erano già brilli. Non sarebbe venuto meno - senza dubbio - lo stato d’animo del banchetto, senza il miracolo.
Ecco, il Regno di Dio è un vino che entra nella mensa dell’uomo, gratuito!
*Ernesto Balducci: Il Mandorlo e il Fuoco; 3° vol.; p.190-192
testo segnalato da don Aldo Antonelli
LA “SACRA” FAMIGLIA OLTRE LA FAMIGLIA*
La liturgia di questa domenica sottopone alla nostra meditazione, in una giustapposizione fin troppo eloquente, il passo del Vangelo di Matteo 2,13-15.19-23 con la pericope desunta dal libro sapienziale di quel “conservatore illuminato” che è Gesù Ben Sira (Siracide 3,2-6.12-14) e il passo preso da Col. 3,12-21 in cui Paolo elenca i diritti-doveri che inglobano la rete dei rapporti familiari. Parlo di “una giustapposizione fin troppo eloquente” perché trovo la scelta tutta interna ad una visione oleografica della famiglia e ad una interpretazione del messaggio biblico ad essa del tutto funzionale. Insomma ci troviamo di fronte al tentativo di assumere come dato di natura un modello datato di famiglia ed evidenziare della Bibbia quei passi che lo rendano anche sacro!
Ben diverso sarebbe il messaggio se, per esempio, nel brano di Matteo non fossero stati eliminati i versetti 13-20, là dove si narra della “strage degli Innocenti”, o se, in sua vece, si fosse proposto alla riflessione Luca 2,41-50 (Gesù dodicenne a Gerusalemme che rivendica la sua indipendenza) o Matteo 12,46-50 (Chi è mia madre? Chi sono i miei fratelli?)... E per allargare ancora il discorso, pur restando nel seminato già tracciato, mi chiedo quale sarebbe stato il comportamento di Gesù adulto di fronte alla minaccia del potere. Non vi sembri blasfema o azzardata l’ipotesi. Ma noi che conosciamo ciò che Gesù ha detto e ciò che Gesù ha fatto, non possiamo restare prigionieri di una singola pagina, catturati da uno specifico episodio, soprattutto quando si tratta, come nel nostro caso, dei vangeli dell’Infanzia. E’ giusto allora, anzi doveroso, chiedersi cosa avrebbe fatto un Gesù adulto e padre di famiglia, di fronte alla minaccia: si sarebbe dato alla fuga o sarebbe andato incontro “a muso duro”, per usare una espressione evangelica, verso la Croce?
Il messaggio evangelico, noi sappiamo bene, non contiene ricette “prêt à porter”, né offre “menù à la carte” di immediato consumo, ma apre orizzonti dentro i quali si gioca la nostra piena responsabilità. La Parola biblica non è una parola assertiva ma rivelativa, non definisce ma illumina. L’ascoltatore, di conseguenza, non è un esecutore dalla bassa manovalanza ma un artefice dalle più ardue intraprendenze; e l’obbedienza, allora, fa rima con la coscienza, più che con l’ossequio. In questa nuova luce sono eloquenti anche i silenzi...; e il silenzio dei Vangeli sulla famiglia è sconcertante.
Nei quattro Vangeli la parola “Famiglia” ricorre soltanto tre volte e solo per indicare appartenenze, mai per indicare quella “cellula fondamentale della società” di cui troppo spesso ci si riempie la bocca. D’altra parte quale legittimazione reclamare a difesa della famiglia da parte di un “Eu-anghelion” che dichiara superati i rapporti di carne e di sangue e che pone come pregiudiziale alla sequela la necessità di una seconda nascita? E’ per rinascere che siamo nati, ebbe a scrivere Pablo Neruda!
Più che rivendicare provvedimenti di tutela e di protezione verso la famiglia, noi cristiani dovremmo cercare di aprire le famiglie a ben altri orizzonti. Ci ritroveremmo compagni di strada con quanti, anche non credenti, vorranno coniugare il verbo dell’amore con i termini della giustizia e della solidarietà e non troveremmo remore nel riconoscere nella famiglia "una risorsa fondamentale”, ma solo “se sa educare i suoi membri all’apertura e alla responsabilità verso i propri simili; vi scorgeremmo un pericolo mortale se si chiude su se medesima coltivando egoismo familistico" (G. Zagrebelsky ).
Niente a che fare, quindi, con i nostalgici o i mestatori del “family Day”: le loro logorree retoriche sulla famiglia sono agli antipodi del messaggio evangelico, al limite della profanazione. Rubando le parole alla cara e preziosa Adriana Zarri “dico no a quel dio usato come cemento nazionale, a quella patria spesso usata per distruggere altre patrie, a quella famiglia chiusa nel proprio egoismo di sangue. Non mi riconosco tra quei cittadini ligi e osservanti che vanno in chiesa senza fede, che esaltano la famiglia senza amore, che osannano alla patria senza senso civico”.
Antrosano, li 8 novembre 2007
Aldo Antonelli
* La redazione di Adista mi ha chiesto, a suo tempo, di commentare le letture di tre domeniche: 30 dicembre, 6 e 13 gennaio. Vi propongo la meditazione sulle letture di domani, festa della "Sacra Famiglia", pubblicata sul numero 85. Buona domenica. Aldo
Parla l’archeologo Emmanuel Anati: «Fin dalle incisioni più antiche uomo e donna sono ritratti insieme, in un vincolo sacro»
Il matrimonio? Viene dalle caverne
«Esistono miriadi di esempi, dall’arte rupestre agli Etruschi. Pochissimi i popoli che non si fondarono sul matrimonio»«Antropologicamente,maschio e femmina ebbero bisogno di isolarsi con i loro figli anche per esigenze di sopravvivenza»
di Lucia Bellaspiga (Avvenire, 15.03.2006)
Mancavano tremila anni alla nascita di Cristo il giorno in cui, accucciato sulla roccia, un antico Camuno con la punta dello scalpello incideva la scena che ancora oggi ci appare lampante, come appena fatta: un uomo e una donna in coppia, e accanto i loro due bambini, un maschio e una femmina. In una parola: una famiglia. L’arte preistorica, si sa, ricorre molto spesso al simbolismo: «E infatti simbolica è la linea che unisce i piedi di marito e moglie, come un giogo. Non scordiamo che è questo il significato di "con-iugi": uniti dal giogo, legati stabilmente». Emmanuel Anati, il noto archeologo esperto dell’arte rupestre di tutto il mondo, fondatore in Val Camonica del Centro camuno di Studi preistorici, e Umberto Sansoni, vicedirettore del Centro, oppongono i fatti a chi oggi vorrebbe "posticipare" la coppia unita in matrimonio e la sua estensione, la famiglia, come fosse un’«invenzione» post-cristiana.
Professor Anati, lasciamo allora che a rispondere sia l’archelogia.
«Non c’è civiltà antica che non abbia avuto la sua concezione ben netta di unione matrimoniale e di nucleo familiare. Gli esempi sarebbero migliaia. A dire il vero basterebbe leggere il Vecchio Testamento, dove la solidità dell’istituzione familiare è chiarissima. Ma possiamo andare anche molto più indietro, grazie all’archeologia, per capire che ben prima del cristianesimo il matrimonio come unione stabile e sancita era una realtà consolidata. Cosa che d’altra parte si desume senza dubbio anche studiando gli usi dei popoli attualmente fermi al Paleolitico».
Uomini del Duemila che nulla sanno della nostra mentalità e vivono di tradizioni proprie. Un esempio?
«In Australia ci sono molte pitture su corteccia d’albero o su roccia interessanti: rappresentano gli spiriti ancestrali e li raffigurano sempre in coppia, uno maschile e uno femminile. Per questi aborigeni animisti, che vivono al livello paleolitico, tutte le realtà della vita terrena hanno nel mondo soprannaturale - quasi un mondo "delle idee" - un’immagine riflessa superiore. Anche le realtà sociali dei viventi come la famiglia hanno una loro matrice divina nella creazione dell’universo. Sono sposi gli uomini e le donne perché sono sposi già gli spiriti ancestrali».
Una sacralità del rito, dunque, non solo un’unione sancita. Ma quanto indietro possiamo risalire per incontrare un "contratto" matrimoniale?
«La scoperta è rivoluzionaria e di recente interpretazione: in Dordogna, in Francia sud-occidentale, c’è un complesso di diciannove blocchi di pietra incisi, risalenti a trentamila anni fa. I simboli femminili sono ognuno associato ad animali totemici che indicano l’appartenenza del maschio cui unirsi. Si tratta secondo le ultime interpretazioni del più antico regolamento familiare, vero e proprio contratto di unione stabile. Nessuna invenzione modernista, come vede... Ma potremmo citare miriadi di altri esempi, dall’arte rupestre della Siberia agli Inuit eschimesi del nord canadese, passando per gli Etruschi o tutte le popolazioni di origine indoeuropea... Sarebbe più facile contare semmai quali sono le popolazioni che non hanno avuto alla loro base, come fondamento assoluto e insostituibile, il matrimonio e la famiglia. Pensiamo al bellissimo e famosissimo "sarcofago degli sposi" etrusco, dove il defunto è legato per l’eternità alla moglie, in un’unione che trascende anche la vita. O alle lapidi funerarie romane anche anteriori a Cristo, in cui sono enumerati costantemente il pater familias, la consorte e tutti i figli: una famiglia granitica e inscindibile anche dopo la morte».
Lei da molti anni conduce spedizioni archeologiche nel Sinai. Ci sono testimonianze anche lì?
«Ad Har Karkom abbiamo ritrovato le tracce di gruppi di abitazioni appartenenti a epoche diverse, nel deserto: fino al Paleolitico medio (duecentomila-cinquantamila anni fa) i villaggi hanno ancora la struttura del clan, ma col Paleolitico superiore, quarantamila anni fa, tutto cambia, le case sono disposte in circolo e ogn una è piccola, suddivisa in modo chiaramente adatto ad accogliere un solo nucleo: è nata la famiglia».
Per quali esigenze, dal punto di vista della paletnologia, un uomo e una donna sentirono il bisogno di "isolarsi" assieme ai loro figli, pur rimanendo nel gruppo?
«Per un senso di sopravvivenza: la donna doveva essere protetta e aveva bisogno che il suo uomo, stabilmente, in rapporto fiduciario, procurasse il cibo mentre era gravida e allattava. Il passaggio successivo è la gratificazione, il senso d’appartenenza, lo star bene insieme senza sentire il bisogno di altre relazioni».
Se l’unione coniugale e la famiglia si perdono nella notte dei tempi, c’è qualcosa che invece è davvero solo dei nostri tempi?
«Non esiste in nessuna epoca e in nessuna civiltà passata il concetto di "matrimonio civile": i più diversi rituali per unirsi, dalla preistoria ad oggi, erano sempre stati religiosi. Sarebbe stato inconcepibile il contrario. Il matrimonio è nato come sacralizzazione dell’unione tra due persone. Rigorosamente di sesso diverso».
Ma altre forme esistevano?
«Potevano esistere, a seconda delle epoche, ma non erano mai considerate famiglia, né erano regolamentate da alcuna formula».
Se dovesse indicare l’immagine più "attuale" venuta dal passato?
«Una coppia che cammina tenendosi per mano, dipinta sulle rocce dell’Akakus libico, del VI millennio. Ma la più sorprendente viene dalla Svezia ed è di fine II millennio avanti Cristo. La coppia è ripresa mentre si bacia nel congiungimento, e il dio Thor regge un’ascia sopra le loro teste: nella ritualità vichinga l’ascia di Thor benedice l’unione. Matrimonio e consumazione sono rappresentati contemporaneamente, fusi nella sacralità dell’atto».
Il punto di vista dell’antropologia sui legami di parentela
COME LA FAMIGLIA CAMBIA NELLA STORIA
NELLE SOCIETÀ TRADIZIONALI DI ALTRE CULTURE LA COPPIA È INSERITA IN UN SISTEMA COMPLESSO DI RETI DI RECIPROCITÀ.
di Franco La Cecla (La Repubblica/Diario, 16/02/2007, p. 52)
Cos’è il matrimonio? Cos’è la famiglia? Matrimonio e famiglia sono forme sociale naturali, universali? A queste domande si può rispondere appellandosi a dei principi, appoggiandosi a delle ideologie, oppure rifacendosi ai fatti empirici, a quello che fino ad oggi conosciamo delle società umane (ed è molto).
L’antropologia, fin dalle sue origini, che affondano in una curiosità comparativa, fondata su una paziente ricerca in luoghi e culture vicine e lontane, ha indagato sulla natura dei legami primari. La parentela, l’apparentarsi è una costante che si rintraccia in tutti i gruppi umani, ma le sue forme sono le più diverse. In culture diverse dalla nostra spesso la filiazione è separata dalla parentela, cioè i genitori biologici non sono coloro che allevano i propri figli. In molte culture sono gli zii, cioè i fratelli della madre a prendersi questo compito - anche da noi esisteva questa istituzione ed ogni tanto riemerge, come notava Lévi-Strauss in occasione della morte di Lady Diana. In quel caso, al funerale, il fratello di lei si era presentato come l’unico possibile tutore di figli. Ci sono culture nel sud della Cina dove la coppia convivente è costituita da fratello e sorella, che hanno "fugaci" visite notturne a persone dell’altro sesso con cui possono generare una prole che viene però allevata da fratello e sorella. Insomma il nucleo familiare, come "casa" non è una forma universale, ci sono società dove non esistono coppie fisse, ci sono famiglie poligamiche nel fondo dell’Amazzonia o in Senegal e ci sono ovviamente famiglie allargate. Siamo noi l’eccezione: la famiglia mononucleare - la solitudine di marito e moglie e dei loro figli - è una invenzione recente. C’è voluto l’avvento del capitalismo e del lavoro salariato che ha distrutto la famiglia allargata che era anche un’entità economica - gli antropologi parlano di "maison" o di "household"- e che ha creato la coppia come la conosciamo oggi. Lo spiegava in un magnifico e introvabile libro, Genere e Sesso, Ivan Illich. Quello che è nuovo è l’idea di un nucleo isolato che dovrebbe farsi carico della formazione della prole. Nelle società tradizionali europee e nelle società "indigene" di altre culture la coppia è inserita in un sistema complesso di reti di reciprocità , in un mondo in cui uomini e donne costituiscono due sfere spesso indipendenti, con lingua, maniere e obblighi differenti. La prole è affidata al gruppo più ampio. Questo consente un’elasticità maggiore della nostra, nella costituzione e nel dissolvimento della coppia stessa. Una società aristocratica e complessa come quella Tuareg ancor oggi consente una frequenza estrema di divorzi - che vengono festeggiati come se fossero matrimoni, cioè nuovi inizi - proprio perché la prole non rimane affidata mai alla singola coppia. Illich diceva che la coppia mononucleare è un mostro di cui nella storia non si era mai sentito parlare prima.
Al fondo di tutta questa materia giace una domanda importante: cos’è che lega le società, cosa fa sì che non si sfaldino? La nostra povera risposta oggi è: la coppia.
La risposta di altre società è sempre stata: un legame che consente il passaggio di sostanze, siano esse liquidi, latte, acqua, lagrime, nutrimento, emozioni, parole, esperienze, visioni, eredità nel senso più ampio e nel senso più specifico. La sostanza che una generazione passa all’altra è simile e diversa dalla sostanza che uomini e donne incontrandosi si scambiano. Si tratta di affetto, di amore, beni, ma soprattutto di "kinship" cioè di un legame di parentela che è una invenzione culturale che cambia da luogo a luogo, ma che è importantissimo. Noi siamo una strana società che privilegia l’amore-passione rispetto al legame di parentela. In moltissime società, anche moderne, come l’India, come il Giappone il matrimonio non corrisponde all’amore-passione, anche se può prevederlo. I matrimoni sono combinati perché il legame sia stabile e non fluttui con i cambiamenti delle emozioni. In India dicono che il loro tipo di matrimonio è come mettere il fuoco sotto una pentola di acqua fredda, mentre il nostro occidentale sarebbe come spegnere il fuoco sotto una pentola di acqua calda. Ed è vero che la nostra società, nonostante i richiami delle Chiese e dei nuovi fondamentalismi fa una fatica enorme a non sfaldarsi continuamente. Oggi la parola coppia è svuotata di gran parte del significato che anche da noi poteva avere fino a vent’anni fa. I Pacs e i Dico e anche i matrimoni tra persone dello stesso sesso affrontano un problema giuridico, legato alla eredità e alla comunanza di beni, ma non affrontano la sostanza impoverita della coppia. Perché in qualunque società il legame tra due persone è qualcosa che crea una circolazione di sostanze da passare ad altre generazioni (altrimenti non ci si "sposa", e nella culture primitive e tradizionali l’amore passione esiste quanto e spesso più che da noi). Se ci si "sposa" è per costituire una "kinship", un legame che consenta il passaggio di sostanze. Una delle sostanze principali in tutte le culture è il genere. Non è un caso che di dica "generare", cioè installare la prole nel genere, in un genere maschile o femminile - ci sono casi di terzo sesso, ma non di terzo genere, sono per lo più casi di uomini considerati culturalmente donne e viceversa. La questione di che tipo di sostanza di genere passano genitori di uno stesso sesso alla propria prole esiste. E’ una domanda imbarazzante per chi si batte oggi per i Pacs o per i Dico, ma occorre rispondervi.
Non basta avocare la creatività di un transgender o di un queer- gender per evitarla. Michel Foucault, che era un omosessuale convinto e praticante, litigava ferocemente con chi pensava che inventare un nuovo genere fosse come fare un happening. Per lui gli omosessuali erano uomini con gusti sessuali differenti.
In Francia è all’interno stesso del dibattito femminista che si è posta la questione. E’ stata Marcela Iacub, una antropologa argentina del diritto, a far notare che non si può parlare tanto di rispetto delle differenze sessuali e poi ignorare l’importanza in una cosa così seria come la generazione della prole. Il fatto è che qui, intorno alla famiglia, si gioca il destino della nostra società, non nel senso che essa sia oggi "degenerata" come vorrebbero alcuni, ma nel senso più specifico che qui non si tratta di diritto individuale, ma di trasformare il diritto perché sia capace di proteggere davvero i legami che le persone producono durante la loro vita. Sappiamo ormai di essere monogami nel presente e poligami nel tempo (il tasso altissimo di separazioni lo dimostra). Perché non accettare di essere una società dai tanti amori che però assicura e protegge i passaggi di sostanza che questi amori producono, figli, parenti acquisiti, amici, beni? E’ possibile, basta fare un passo più avanti della pura politica.
Vorrei invitare don Aldo a leggere Padre Henri Caffarel, per riscoprire così nella Santa Famiglia, quella di Nazaret, la prima cellula di Chiesa.
Cordiali saluti.
ba