ARCHEOLOGIA: SCOPERTO IL PALAZZO DELLA REGINA DI SABA
BERLINO - Una equipe di archeologi tedeschi ha dichiarato di aver scoperto i resti del palazzo della leggendaria regina di Saba ad Axum, in Etiopia. Lo rende noto un comunicato dell’Università di Amburgo.
I resti del palazzo, risalente al X secolo a.C., sono stati ritrovati sotto altri ruderi, quelli del palazzo di un re cristiano. Il palazzo della regina era stato distrutto dal re Menelek, il figlio che lei aveva avuto dal re d’Israele Salomone, e ricostruito in modo di essere orientato verso la stella Sirio, della quale era adoratore.
Le ricerche ad Axum in Etiopia erano cominciate nel 1999. Lo scopo è definire le origini del paese e della chiesa ortodossa etiope.
SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR:
Etiopia. Strage in Tigrai: morti per difendere l’Arca dell’Alleanza
Massacrati in 750 nella città santa di Axum, inclusi i fedeli della chiesa di Santa Maria di Sion. I testimoni accusano i soldati Amhara. Colpita la moschea di Nejashi a Wukro
di Paolo Lambruschi (Avvenire, lunedì 11 gennaio 2021)
Neppure l’Arca dell’Alleanza è stata risparmiata dall’orrore della guerra del Tigrai, ancora tutto da svelare. Circa 750 persone sono state massacrate nella città santa di Axum, dove avrebbe abitato la regina di Saba. La quale secondo la leggenda avrebbe ricevuto da re Salomone e portato in Etiopia, l’Arca, tuttora, custodita da un monaco, in una cappella del tempio ortodosso dedicato a Maria di Sion, proprio nella piazza dell’obelisco. Secondo diverse ricostruzioni effettuate ascoltando i testimoni fuggiti verso sud, autori del massacro finora nell’ombra sarebbero le truppe federali etiopi e le milizie alleate della regione Amhara. I fedeli che si trovavano nella chiesa ortodossa dedicata a Maria di Sion sarebbero stati uccisi per difenderla.
Avrebbero udito i soldati Amhara, arcinemici dei tigrini, gridare che l’Arca doveva essere portata ad Addis Abeba. I soldati avrebbero ucciso senza pietà i dimostranti usciti dalla chiesa. Una delle tante stragi consumate in silenzio e senza colpevoli in una guerra combattuta anche con social, tv satellitari e fake news a causa del blackout comunicativo sulla regione provocato dal governo federale di Abiy Ahmed, Nobel per la pace del 2019, il giorno dell’inizio del conflitto, il 4 novembre scorso, e prolungato ben oltre il 27 novembre, giorno della presa da parte delle truppe federali del capoluogo Macallè.
La notizia è stata confermata da diversi testimoni. Confermato che anche uno dei luoghi sacri dell’islam etiope, la moschea Nejashi a Wukro, costruita dai compagni di Maometto, è stata colpita e danneggiata. Dal Sudan, dove 60mila i tigrini sono fuggiti dal conflitto nei campi profughi, arrivano conferme della lunga catena di orrori. Dai sequestri di massa, alle torture, agli stupri e agli omicidi etnici di civili. In rete è stata pubblicata una lista di 400 vittime tigrine ammazzate dagli etiopi.
Bombardati a novembre anche molti ospedali mentre la situazione umanitaria della regione settentrionale etiopica sta peggiorando. Non si conosce né il grado dei danni né soprattutto chi abbia colpito gli ospedali commettendo un crimine di guerra. Secondo Unocha ci sono 2,2 milioni di sfollati e la situazione resta «volatile».
Accanto a un miglioramento dell’accesso a cibo e acqua scarseggiano le medicine. Continua, inoltre, il saccheggio di aiuti umanitari in alcune zone. Per l’agenzia Onu finora solo 77mila persone a Macallé e 25mila nei due campi per rifugiati eritrei di Mai Ayni e Adi Harush hanno ricevuto aiuto. Ocha non è ancora potuta entrare negli altri due campi di Hitsats e Shimelba che secondo immagini satellitari trasmesse dall’agenzia Bloomberg sarebbero semidistrutti.
Come ha confermato anche il quotidiano britannico Telegraph, nonostante le ripetute smentite ufficiali anche con il segretario generale Onu Antonio Guterres, soldati eritrei si trovano nell’area e avrebbero ucciso molti connazionali rifugiati, rimpatriando a forza migliaia di giovani. L’esercito etiope ha ucciso giovedì scorso quattro alti funzionari del partito e ha arrestato nove membri dell’ex partito di governo della regione, tra i quali l’86enne Sebhat Nega, cofondatore e ideologo del Tplf, mostrato in televisione mentre veniva ammanettato e trasportato ad Addis Abeba. Ma oltre all’arresto del vecchio «Papà Sebhat» ex governatore, ha fatto scalpore il filmato trasmesso dalla agenzia ufficiale Ena che mostra due militari in uniforme dell’esercito eritreo, uno seduto e l’altro intento a filmare l’arresto.
È la terza prova, in una settimana, della partecipazione delle truppe del regime di Asmara. Che sono ora impegnate in intensi combattimenti nell’area nordoccidentale di Endebaguna contro il Tplf in un conflitto che doveva essere interno.
La seconda Gerusalemme mistero a ritmo di reggae
La città santa della regina di Saba rispecchiava quella ebraica
Una vicenda che arriva fino a Haile Selassie e Bob Marley
di Fernando Gentilini (La Stampa, 23.10.2016)
Tra la città biblica e il suo simulacro etiopico c’è un legame lungo tremila anni. Nella Bibbia è scritto che la regina di Saba andò a Gerusalemme per mettere alla prova re Salomone. È scritto anche che rimase colpita dalla sua sapienza e magnificenza. E infine è scritto che prima di ripartire gli diede oro, aromi e pietre preziose. Il tema fu ripreso dai Vangeli, dal Corano, e poi elaborato da commentatori ebraici, islamici e cristiani. Dal Medio Evo divenne un filone narrativo tra i più battuti: da Boccaccio alla tradizione epica etiopica, dalle miniature arabe a Piero della Francesca, dalla musica di Händel alla cinematografia del Novecento.
Eppure della regina sabea continuiamo a ignorare persino il nome: per la tradizione araba è Bilqis, per quella africana Candace o Makeda, in quella greco-giudaica è Nicaula. Per taluni è una sovrana virtuosa, per altri una sibilla, una strega, o addirittura un demone dalle zampe d’asino. Anche la provenienza resta un mistero. Tra le sue patrie ipotetiche figurano l’Etiopia, lo Yemen e il Sudan. E ad Aksum, Marib e Meroe esistono rovine di antichi palazzi che portano un suo nome.
Gerusalemme etiopica
Avendo vissuto ad Addis Abeba, sono affezionato al poema epico nazionale etiopico, il Kebra Negast (La Gloria dei Negus), un’elaborazione tardo medievale del testo biblico. Vi si racconta di come Makeda, regina di Saba, abbia avuto un figlio da Salomone; di come egli sia salito al trono di Aksum con il nome di Menelik I; e di come a quel tempo gli etiopici si siano convertiti al Dio di Israele.
In realtà l’introduzione del cristianesimo in Etiopia iniziò nel IV secolo, tramite la diffusione della Bibbia e di usi antico-testamentari. E’ stato scritto molto sul sogno etiopico di creare una seconda Gerusalemme (suggerisco Ethiopia and the Bible di Edward Ullendorff), ma per vederlo messo in atto bisogna raggiungere Lalibela, nel cuore dell’altopiano. È una città scavata nella roccia, formata da undici chiese che sembrano stalagmiti e da un labirinto di celle, cunicoli e camminamenti. Fu realizzata nel XII secolo, per offrire un’alternativa ai pellegrini cristiani che non riuscivano a raggiungere la vera Gerusalemme. Ma per la gente del posto riproduce una visione celeste e fu scolpita dagli angeli.
Nel giorno del Timkat, dalle chiese vengono portati in processione i talbot, le copie dell’Arca dell’Alleanza. Una tradizione singolare, da ricondurre alla presenza su queste montagne di un’antica comunità ebraica, quella dei falascià, e alla credenza che le sue origini siano legate con l’arrivo in Etiopia dell’Arca stessa. Secondo il Kebra Negast fu Menelik a trafugarla dal Tempio per portarla ad Aksum, dove si troverebbe tuttora. Approfittando di un viaggio a Gerusalemme in cui ricevette l’investitura dal padre.
L’Etiopia a Gerusalemme
Tre millenni dopo, nel 1936, anche l’ultimo discendente della dinastia del Leone di Giuda, Haile Selassie, andò a Gerusalemme per affermare la propria sovranità. Il suo esercito era stato sconfitto dagli italiani, e il suo paese occupato. Così, al 226° erede di re Salomone non era rimasta che la via dell’esilio. Fare tappa a Gerusalemme fu una scelta emblematica. Come alloggiare al King David, da dove poteva vedere il Monte Sion e la tomba di re Davide.
Oggi a Gerusalemme sono i falascià, gli ebrei etiopici, a ricordarci che l’Etiopia non è lontana. Arrivarono in Israele in un esodo biblico, negli ultimi decenni del secolo scorso. L’Etiopia era stremata dalla guerra civile e dalla carestia, così il Mossad organizzò le operazioni Mosè del 1984 e Salomone del 1991, completate in tempi record.
I loro ritrovi sono tra la Jaffa Road e la Hanevi’im Street. Li riconosci dall’odore dell’injera e del berbere che ti avvolge fuori dalla porta. Nello stesso quartiere c’è la chiesa fatta costruire da Menelik II a fine Ottocento. Sul cancello d’ingresso una scritta in lingua amarica: «Il popolo del Leone di Giuda ha trionfato»; e all’interno del comprensorio effigi di San Giorgio, croci copte e calendari giuliani.
Comunque la roccaforte dei cristiani etiopici, dal IV secolo, è nella basilica del Santo Sepolcro. Come gli ortodossi, gli armeni, i francescani, i siriaci orientali e i copti egiziani, anche loro hanno un’area specifica. Si tratta del tetto sopra la cappella di sant’Elena, dove c’è il monastero di Deir es Sultan. La prima volta che ci andai, sentii risuonare da una radiolina le note di Iron Lion Zion di Bob Marley, e la cosa mi fece sussultare.
Iron Lion Zion
Fin dalla sua incoronazione, Haile Selassie fu venerato dalle sette messianiche caraibiche di rastafarians (dal suo titolo e nome ras Tafari). Un culto sopravvissuto alla sua morte, avvenuta nel 1975, che annoverava tra i seguaci anche Bob Marley. Che l’idolo giamaicano avesse un’adorazione per il Messia Nero, lo imparai arrivando ad Addis Abeba, dove nel luglio del 1992 si stavano organizzando i funerali del negus (poi rinviati al 2000). C’erano rastafarians dappertutto, con i ritratti di Haile Selassie e Bob Marley disegnati sulle magliette, e nelle discoteche si ballava solo musica reggae.
Il brano Iron Lion Zion uscì tre mesi dopo, nel cofanetto postumo Songs of Freedom, e in Etiopia ebbe un successo enorme. «I’m gonna be Iron, like a Lion in Zion» canta il ritornello. E io ogni volta che lo ascolto non posso fare a meno di rimuginare sul suo significato. Mi aiuta a spiegarlo Erri De Luca, che nel libro Una nuvola come tappeto racconta di come per i sapienti d’Israele vi siano cinque cose che contengono un sessantesimo d’altro:
«Il fuoco ha in sé un sessantesimo della Gehenna (inferno); il miele un sessantesimo della manna; il sabato un sessantesimo del mondo a venire; il sonno un sessantesimo della morte; il sogno un sessantesimo della profezia».
Ecco, io ogni volta che ascolto Iron Lion Zion, penso che questa canzone contenga un sessantesimo delle due Gerusalemme e della storia che abbiamo appena raccontato. Non so se è un pensiero plausibile, ma pensarlo è più forte di me.
"Tutto quello che si trova nell’Arca è descritto perfettamente nella Bibbia’’
’’Ho visto l’Arca dell’Alleanza ed è in buone condizioni’’ *
Roma, 19 giu. - (Adnkronos) - "L’Etiopia è il trono dell’Arca dell’Alleanza. L’Arca dell’Alleanza è stata in Etiopia per 3.000 anni e adesso è ancora lì e con la volontà di Dio continuerà ad essere lì. E’ per via del miracolo che è arrivata in Etiopia".
Il Patriarca della Chiesa ortodossa d’Etiopia Abuna Pauolos conferma quanto aveva anticipato due giorni fa dall’ADNKRONOS. Lo fa in una conferenza stampa tenutasi all’Hotel Aldrovandi a Roma, cui ha partecipato anche il principe Makonnen Haile Selassie, nipote dell’imperatore. "L’ho vista con senso di umiltà, non con orgoglio, come quando si va in chiesa. E’ la prima volta -ha proseguito il Patriarca Pauolos- che dico questo in una conferenza stampa. Ripeto l’Arca dell’Alleanza è in Etiopia e nessuno di noi sa per quanto tempo ancora. Solo Dio lo sa".
"Tutto quello che si trova nell’Arca -ha spiegato il Patriarca rispondendo alla curiosità dei cronisti- è descritto perfettamente nella Bibbia. Lo stato di conservazione è buono perché non è fatta da mano d’uomo, ma e’ qualcosa che Dio ha benedetto". "Ci sono molti scritti e prove evidenti sulla presenza dell’Arca in Etiopia. Non c’è ragione perché qualcuno pretenda di affermare di avere qualcosa che non ha -ha precisato il Patriarca-. Non sono qui per dare delle prove che l’Arca sia in Etiopia, ma sono qui per dire quello che ho visto, quello che so e che posso testimoniare. Non ho detto che l’Arca sarà mostrata al mondo. E’ un mistero, un oggetto di culto".
Il Patriarca Pauolos ha anche parlato della costruzione di un museo ad Axum, una struttura che dovrà accogliere e conservare i tesori costruiti per secoli e secoli ad Axum. Nel museo, finanziato dalla fondazione del principe e che dovrebbe essere costruito entro due anni, potrebbe essere collocata anche l’Arca dell’Alleanza, ma per questo ha spiegato Abuna Pauolos "c’e’ bisogno di una decisione che spetta al Santo Sinodo, l’istanza suprema della Chiesa ortodossa etiope". Il patriarca Pauolos, presidente del G8 delle Religioni, ha preso parte dal 16 al 18 giugno al G8 delle religioni che si e’ tenuto tra Roma e L’Aquila. Poi ieri il Patriarca e’ stato invitato dalla comunita’ di Sant’Egidio dove ha partecipato a una giornata di studio sulla storia religiosa d’Etiopia, e sempre ieri ha incotrato in Vaticano il Pontefice Benedetto XVI.
"Nell’incontro in Vaticano Benedetto XVI e il Patriarca hanno discusso di molte cose e sua Santità ha rivolto al Patriarca l’invito a tornare a ottobre", ha precisato il principe Makonne Haile Selassie.
VIDEO NEWS (Adnkronos)
Il mondo conoscerà l’Arca dell’Alleanza
ultimo aggiornamento: 17 giugno, ore 20:22
Roma, 17 giu. (Adnkronos) - Presto il mondo potrà ammirare l’Arca dell’Alleanza descritta nella Bibbia come il contenitore delle Tavole della Legge che Dio consegnò a Mosè. Lo ha detto il Patriarca della Chiesa ortodossa d’Etiopia Abuna Pauolos, in Italia per il ’G8 delle Religioni’, che domani incontrerà il Papa Benedetto XVI per la prima volta.
La religiosità.
I culti ortodossi da Addis Abeba ai villaggi nel Nord del Paese
Axum, riti come duemila anni fa. Sfila coperta l’Arca dell’Alleanza
Nel giorno del Timkat, l’orgoglio di una nazione attorniata dall’Islam
di Massimo Alberizzi (Corriere della Sera, 11.03.2009)
Il giorno del Timkat - l’epifania ortodossa, la più importante festa dell’Etiopia, che cade il 19 gennaio - Lalibela, la città santa, è attraversata da processioni sacre. Una folla imponente si concentra per le strade e le piazze e si ammassa attorno alle 13 chiese scavate nella roccia, l’ottava meraviglia del mondo. Nelle intenzioni di chi l’ha fondata, Lalibela era la Nuova Gerusalemme, costruita per rispondere alla conquista della Terra Santa da parte dei musulmani nel 1187. I cortei guidati dai sacerdoti con tonache, copricapi e ombrelli parasole multicolori, si snodano tra canti e balli religiosi, nuvole di incenso aspro e pungente. Il rito è emozionante e i partecipanti sono colti da una sorta di ispirazione divina. I movimenti sono lenti e sembrano studiati, come prevede una liturgia millenaria costruita per arrivare al cuore dei fedeli.
Gli uomini sfilano in gruppi diversi da quelli delle donne, che si muovono nei tradizionali vestiti bianchi parlando e cantando in quello che forse è l’unico vero giorno di libertà ogni anno.
Il culmine arriva nel momento in cui una copia dell’Arca dell’Alleanza portata a braccia in giro per la città, ritorna al suo posto in una delle chiese e centinaia di persone si immergono nelle vasche piene d’acqua a simbolizzare un nuovo battesimo. Le chiese monolitiche di Lâlibalâ sono scavate nella roccia e sono state costruite tra il 12˚ e il 13˚ secolo da centinaia di operai (o forse schiavi) armati di scalpello . L’interno è un sfavillio di affreschi, sculture e icone nel tipico stile ortodosso etiopico. La più grande è Bete Medhane Alem e la più antica Bete Maryam.
Grande sacralità si respira anche ad Axum, la capitale dell’antico regno della mitica regina di Saba. Il complesso della cattedrale di Santa Maria di Sion contiene una speciale cappella dove è conservata l’Arca dell’Alleanza uno dei grandi misteri dell’antichità. Costruita da Mosè su ordine diretto di Dio in legno d’acacia e laminata dentro e fuori d’oro, conteneva le tavole dei comandamenti. Ma era anche un’arma potentissima che re Salomone regalò alla regina di Saba nel viaggio di ritorno dalla Palestina ad Axum. Chi la toccava rimaneva fulminato. Quando nel 331 dopo Cristo l’ebraico regno axumita si convertì al cristianesimo, l’Arca divenne il simbolo più importante per la gerarchia religiosa ortodossa. Nessuno l’ha mai vista tranne un sacerdote che fa la guardia all’edificio dove è depositata. Viene portata in processione una volta l’anno ma diligentemente avvolta in una coperta che la nasconde agli occhi della folla enorme che accorre da ogni parte del Paese per onorarla.
La leggenda.
Una storia affascinante di religioni e migrazioni nel personaggio biblico
alla base della fondazione del regno
Bruna e sensuale, la regina di Saba stregò anche Stalin
di Armando Torno (Corriere della Sera, 11.03.2009)
Una e trina. Si definisce «nigra» nel Cantico dei Cantici. Ma per gli studiosi le donne evocate dal testo sono tre: la sposa, la femmina libera e la prostituta
Che relazione c’è tra la Regina di Saba e l’Etiopia? E quale rapporto ci fu tra questa donna che ha suscitato meraviglia nei secoli - anche Händel ne fu magato - e quella che corre in cerca d’amore nel Cantico dei Cantici? Ogni risposta deve cominciare da un semplice passo del piccolo libro sapienziale.
Diremo innanzitutto che Gerolamo, nella sua versione latina della Bibbia, la celebre Vulgata, rende il versetto 1,5 del Cantico con queste parole: «Nigra sum sed formosa/ filiae Ierusalem/ sicut tabernacula Cedar/ sicut pelles Salma». L’attuale traduzione italiana utilizzata dalla Chiesa Cattolica (Cei, 2008) è la seguente: «Bruna sono ma bella/ o figlie di Gerusalemme/ come le tende di Kedar / come le cortine di Salomone».
Il latino nigra, l’attuale bruna, equivale all’ebraico šehôrâ, ovvero nera (femminile di šahor). Apparentemente è un termine facile, in realtà cela significati a cominciare dalle sequenza consonantica šhr: in essa si possono trovare le ragioni del «desiderare ardentemente», del «ricercare», o di «essere nero». L’esegesi spiega il passo ricordando che la carnagione scura - l’aveva anche la sposa egiziana del Salomone storico - è tuttavia tipica di una ragazza abbronzata a causa dei lavori agricoli. Del resto, non pochi antichi poeti arabi amano opporre il colore chiaro delle giovani nobili (nel Cantico sono le Figlie di Gerusalemme) a quello di schiave e serve che svolgono lavori al sole. Ma c’è qualcosa da aggiungere: la radice šhr diventa in taluni passi del piccolo libro biblico - per esempio in 3,1 e 5,6: «L’ho cercato, ma non l’ho trovato» - un sinonimo intensivo di un’altra sequenza consonantica, bqš, che nel Cantico appare e scompare indicando l’inquietudine d’amore della donna. Gerolamo, sempre meraviglioso nelle sue soluzioni, sceglie «formosa», placando la sete di sensualità imprigionata nel soffio impronunciabile.
Fermiamoci qui, ché si potrebbe continuare all’infinito, per sottolineare che le donne del breve poemetto non sono una ma tre (è la tesi di Giovanni Garbini: Cantico dei Cantici, Paideia 1992). Si vedono e si nascondono nella corsa d’amore la sposa, la donna libera e la prostituta. Per questo nel rincorrersi dei giochi tra sillabe e sentimenti è lecito evocare la Regina di Saba che giunge a Gerusalemme per mettere alla prova la saggezza di Salomone e rimane incantata dalla sua sapienza. È una visita attuata senza badare a spese.
Si legge nel Primo libro dei Re: «Ella diede al monarca centoventi talenti d’oro, aromi in gran quantità e pietre preziose» (10,10). La regina senza nome - la leggenda musulmana la chiama Balkis e quella etiope Makeda; Saba non è una località ma una popolazione: la parola è la trascrizione greca di Sheba - intraprende il suo viaggio per stipulare un accordo commerciale, giacché il re controllava le vie di comunicazione e quindi poteva danneggiare gli affari dei Sabei che, tra l’altro, riscuotevano gabelle dalle carovane di passaggio.
Il regno di Saba si estendeva nell’Arabia meridionale, in coincidenza con l’attuale Yemen. Ha una storia fascinosa, della quale fanno parte anche migrazioni in Etiopia (le vicende, con ricca iconografia, sono ricostruite da Giovanni Garbini e Bruno Chiesa nel volume I primi Arabi, Jaca Book 2007). Del resto, il Paese che sorge sull’altra riva del mar Rosso, proprio l’Etiopia, rivendica il figlio nato dal leggendario amore che si accese tra la regina e Salomone. Lo chiamarono Menelik ed è l’antenato degli imperatori etiopi. Il monarca di questa terra vanta tra i suoi titoli «Leone vittorioso della tribù di Giuda». Non a caso il suo emblema è una stella a sei punte che evoca quella di Davide. La Regina di Saba diventò un’icona per le onorificenze dell’Etiopia: nella tesoreria del Museo Statale di Storia, che si affaccia sulla piazza Rossa a Mosca, è conservata una grande medaglia che il Negus mise sul petto a Stalin (l’onore toccò anche ad Eisenhower).
Morale del racconto. La donna - le rappresenta tutte - del Cantico è scura, come la Regina di Saba, come le etiopi. È sensuale, come prova la radice ebraica accennata. Senz’altro volle conoscere la carne, oltre alla sapienza di Salomone, e se ciò accadde nessuno ci impedisce di credere che il continuo amplesso evocato dal poemetto sia metafora del viaggio d’amore della Regina. Difficile dire se Stalin pensasse a lei, dopo aver ricevuto la medaglia, ma in nessuna foto la mostra. Aveva letto troppo attentamente Machiavelli per concedersi questo lusso biblico.
Ma la sacralità nell’Etiopia settentrionale si respira in ogni villaggio. Nonostante sia praticamente circondato da Paesi musulmani l’antica Abissinia ha mantenuto una cristianità profonda, fatta di riti antichissimi. L’influenza islamica però si sente, ad esempio, nel dover togliersi le scarpe quando si entra in una chiesa, esattamente come si fa per le moschee. Molti dei monasteri ortodossi sono vietati alle donne, come quello di Debre Damo il più antico dell’Etiopia. Situato sul cucuzzolo di una montagna, si raggiunge infilandosi in una cesta che viene tirata su dai sacerdoti con una fune. Si sale gratis, ma se poi non si dà una consistente mancia i santi signori non ti fanno più scendere. Il monastero contiene un’incredibile collezione di più di mille testi sacri scritti e decorati a mano e frammenti di antichi manoscritti.
Decine e decine di chiese e monasteri, alcuni dei quali edificati nel 13˚ secolo ma quasi tutti vietati alle donne, si nascondono nelle 37 isole e sulle rive del lago Tana. Forse il luogo di culto più spettacolare è quello di Ura Kidane Mehret.
Ad Addis Abeba, la capitale dell’Etiopia, si può ammirare un piccolo gioiello, la cattedrale di San Giorgio, curiosa per la sua forma ottagonale. È molto più giovane di tutti i tesori del Paese, costruita dopo la battaglia di Adua del 1896 dai prigionieri di guerra italiani. Spettacolari le vetrate con immagini sacre. Qui furono incoronati gli imperatori Zewditu nel 1917 e Hailè Selassie nel 1930. Anche loro con un rito sacro.
I legami Già nel ’400 la Serenissima aveva rapporti con il Corno d’Africa
L’influenza Uno sviluppo artistico segnato dai pittori inviati dai Dogi
Il tesoro d’Etiopia
Venezia riscopre l’Impero del Leone con l’arte della Chiesa delle Origini
di Martina Zambon (Corriere della Sera 11.03.2009)
Esistono mostre atipiche. Come questa che sceglie un versetto del Cantico dei Cantici come titolo, «Nigra sum sed formosa» per invocare la maestosa figura della Regina di Saba, mostra nata e cresciuta all’interno di un ateneo con la collaborazione, però, di una banca. Un tema «di nicchia», l’arte sacra della cristiana Etiopia, presentato da un ologramma come guida, un iPod touch per orientarsi fra manoscritti, reportage filmati, antichi oggetti liturgici.
Un viaggio possibile, forse, solo a Venezia, porta misteriosa fra Occidente e Oriente, fra Europa e Africa. Cinque secoli prima che Picasso «scoprisse» lo spigoloso carisma dell’arte africana dipingendo le sue «Demoiselles d’Avignon», il sodalizio commerciale e culturale fra Venezia e l’Etiopia scintillante di icone e croci astili era già consolidato. Ed ecco la prima grande mostra italiana dedicata all’arte millenaria dell’Etiopia. La scelta di ospitarla a Venezia è sembrata naturale, già nel ’400 la Serenissima instaurò un rapporto molto solido con il regno che dominava il Corno d’Africa. Tanto da inviare laggiù i suoi pittori che avrebbero impresso un’impronta indelebile allo sviluppo artistico etiope.
L’Etiopia, in cui ancora oggi sussiste una sorta di chiesa delle Origini, degli Apostoli, costituisce un unicum visto che, rapidamente, l’impero del Leone si trovò circondato da popoli islamici. L’esposizione racconta questa storia affascinante a partire dai suoi protagonisti: la Regina di Saba; il re Lalibela (sec. XII-XIII), da cui prende nome la città santa costruita sulle montagne del Lasta, la «Nuova Gerusalemme». E poi ancora, il re Zar’a Yâ’qob che, nel XV secolo, aprì decisamente alle presenze occidentali; il pittore veneziano Nicolò Brancaleon, detto Marqorêwos (Mercurio), documentato alla corte dei re Eskender e Lebna Dengel fra XV e XVI secolo.
Ad accompagnare i visitatori nella mostra allestita a Ca’ Foscari sarà il professor Stanislaw Chojnacki, patriarca degli studi moderni sull’arte etiopica, o meglio, sarà il suo ologramma a grandezza naturale. Il filo narrativo parte dal piano terra che avviluppa il visitatore con fotografie, filmati e colonna sonora per arrivare alle acqueforti di Lino Bianchi Barriviera sulle chiese rupestri fatte erigere dal re Lâlibalâ. Scorci e decorazioni di questi edifici sono proiettati sulle pareti delle sale adiacenti al salone d’ingresso, sul cui soffitto, invece, viene proiettato una sorta di rotolo magico. Nella sala di collegamento al piano superiore si incontrano le vetrine con croci astili di squisita fattura. Protagonista indiscusso del secondo salone è il Mappamondo di Fra Mauro, capolavoro cartografico della Biblioteca Marciana, concesso, per la prima volta in prestito esterno.
Dalla cartografia ai libri, il secondo salone si impreziosisce con codici miniati e rotoli magici. Quattro sale contigue allineano decine di icone, per lo più inedite, dal XV al XIX secolo. Un’intera sala è, invece, dedicata a Nikolaus Brancaleon, il pittore veneziano inviato dal doge in Etiopia nell’ultimo scorcio del ’400. In mostra il bellissimo dittico del Museo etnologico di Zurigo attribuito alla sua bottega.
Prestiti internazionali prestigiosi resi possibili dalla curatela dei professori Giuseppe Barbieri dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, Gianfranco Fiaccadori della Statale di Milano, dell’architetto Mario Di Salvo, direttore della Fondazione Montandon di Sierre (Canton Vallese) per una mostra promossa da Università Ca’ Foscari di Venezia, Regione Veneto e Banca Popolare FriulAdria-Crédit Agricole che, dopo eventi come Pordenonelegge e altre esposizioni d’arte, si propone come partner continuativo per la fruizione dell’arte secondo un taglio innovativo, quello della multimedialità d’avanguardia.
Lo studioso: "Quadra tutto, i dettagli, l’orientamento dell’edificio"
Scettici altri esperti: "Visse nell’Arabia Felix e trasformò la terra in tanti giardini"
Regina di Saba, una luce sul mistero
"Il suo trono era qui in Etiopia"
di Rosalba Castelletti (la Repubblica, 10.05.2008)
«Tutto quadra», esulta l’archeologo Helmut Ziegert convinto di aver risolto un mistero che perdura da tremila anni e di avere individuato ad Axum in Etiopia non solo il Palazzo della Regina di Saba, ma anche l’altare su cui fu custodita l’Arca della Santa Alleanza. Il leggendario fascino della sovrana e la straordinaria saggezza della sovrana che nel X secolo avanti Cristo irretirono il re Salomone d’Israele è giunto intatto sino a noi, seppure tramandato da scarsi enigmatici versi. «È provvista di ogni bene e possiede un trono magnifico» scrive di lei il Corano, mentre l’Antico Testamento ne ricorda la visita a Gerusalemme: «La regina di Saba, sentita la fama di Salomone, venne per metterlo alla prova con enigmi... Il re Salomone le diede quanto essa desiderava e aveva domandato... Quindi essa tornò nel suo Paese». Dove tornò è da secoli oggetto di contesa tra lo Yemen che la vuole a capo del regno sabeo di Marib e l’Etiopia dov’è chiamata Makeda ed è considerata la capostipite dell’intera dinastia dei negus. Ed è qui, e precisamente nella capitale religiosa ortodossa Axum, che Ziegert sostiene di avere rinvenuto sotto le fondamenta di un edificio cristiano i resti del Palazzo della mitica sovrana.
«Ne sono sicuro. Quadra tutto. I dettagli, la datazione e l’orientamento dell’edificio»: i ruderi risalirebbero al X secolo avanti Cristo e sarebbero orientati verso la stella Sirio legata al culto della divinità egizia Sothis introdotto in Etiopia, secondo l’archeologo tedesco, da Menelik I, presunto figlio della regina di Saba e del re Salomone d’Israele. Ma le rivendicazioni dell’archeologo tedesco non si concludono qui. Alla figura della sovrana sabea è legata anche la leggenda della perduta Arca d’acacia rivestita d’oro contenente le Tavole dei Dieci comandamenti di Mosè. Secondo la tradizione etiopica preservata nel XIV secolo nel Kebra Nagast ("Gloria dei re"), non fu saccheggiata dai conquistatori babilonesi, ma bensì trafugata da Menelik che in età adulta si sarebbe recato a Gerusalemme per incontrare il presunto padre. L’Arca della Santa Alleanza si troverebbe tuttora in una cripta segreta del santuario di Santa Maria di Sion di Axum dove a vegliarla è il «più santo dei monaci», ma - afferma Ziegert - «fu custodita per molto tempo» nel palazzo rinvenuto ad Axum.
Accolta con entusiasmo dalla stampa tedesca - che da Die Welt a Die Spiegel ha dedicato alla scoperta grandi titoli - la rivendicazione ha invece sollevato lo scetticismo di quasi tutto il mondo accademico. «La regina di Saba è tanto vera quanto lo è re Artù» ha commentato un collega di Ziegert, Ricardo Eichmann, mentre altri hanno sottolineato il tempismo dell’annuncio dell’archeologo tedesco che anticipa di 15 giorni l’uscita dell’ultimo episodio della quadrilogia di "Indiana Jones" che nel 1981 debuttò proprio con i "Predatori dell’Arca Perduta". «Il regno di Saba è esistito e si può datare al decimo secolo avanti Cristo» chiarisce l’archeologo Alessandro de Maigret da anni impegnato in scavi nello Yemen. È qui che avrebbe regnato la regina sabea, in arabo Bilqis, trasformando l’altipiano yemenita che circonda la città di Marib in una distesa verde ricca di giardini pensili che i romani avrebbero soprannominato "Arabia Felix". E qui, ricorda De Maigret, «sono state rinvenute numerose iscrizioni risalenti all’epoca sabea». Secondo il suo collega Rofoldo Fattovich, che invece lavora ad Axum da 37 anni, «la scoperta di Ziegert sarebbe sensazionale se non fosse che non c’è alcuna iscrizione ad attribuire i resti rinvenuti alla regina di Saba e che la relazione tra Sirio, Sothis e Menelik non è testimoniata da alcuna fonte. Quella di Ziegert - aggiunge - è un’invenzione gratuita».