Le autorità etiopiche: "L’Italia si era impegnata a rimetterlo al suo posto".
I Beni culturali: "L’Unesco coordina i lavori, a noi la direzione scientifica"
Axum, odissea di un simbolo
l’obelisco è ancora in pezzi
A due anni dalla restituzione mancano i fondi per erigere la stele trafugata nel 1937
Difficoltà per l’invio dei macchinari, appena arrivati gli ultimi finanziamenti
dal nostro inviato di CRISTINA NADOTTI *
AXUM - L’obelisco è in terra d’Etiopia. Peccato che sia ancora imbragato, diviso in tre pezzi e sistemato in modo provvisorio sotto delle tettoie ai margini del parco delle stele di Axum. Il simbolo dell’indipendenza etiopica, che con grande pompa fu riportato, nel marzo-aprile 2005, al luogo da cui l’aveva trafugato Mussolini nel 1937, sembra un macchinario in un cantiere abbandonato, con i lavori a metà.
I turisti gli passano vicino senza guardarlo, le macchine fotografiche già puntate sulla stele principale del parco e sul gemello dell’obelisco delle polemiche. Anche questo giace a terra, spezzato in tre tronconi, da quando gli axumiti cercarono di erigerlo circa 1700 anni fa. Qualche italiano si guarda intorno, se non altro perché in tutti gli aeroporti dell’Etiopia grandi cartelloni voluti dalla linea aerea nazionale, Ethiopian Airlines, celebrano "il ritorno a casa e la ri-erezione dell’obelisco di Axum", con profusione di bandierine etiopi e italiane incrociate.
Le bandiere ci sono anche qui: quella nazionale sventola all’ingresso del parco, quella italiana, tutta scolorita, è un foglio in un raccoglitore di plastica trasparente su uno dei tre tronconi dell’obelisco. Con un sorriso sdentato un uomo guarda divertito gli stranieri che scattano foto alla bandierina sbiadita: approfittando della tettoia che protegge l’obelisco, ha messo su quattro pareti di lamiera e si è costruito un rifugio di fortuna. A lui il ritorno a casa dell’obelisco ha fatto comodo.
La maggioranza degli etiopi solleva le spalle se si chiede perché l’obelisco sia ancora lì dove fu sistemato provvisoriamente due anni fa. Le guide del posto e il responsabile dell’ufficio turistico di Axum mettono insieme spiegazioni confuse su ritrovamenti di necropoli che hanno ritardato la ricollocazione, infiltrazioni d’acqua che renderebbero insicura la posa e concludono con "non ci sono i soldi". Il ministro del Turismo e per le celebrazioni del Millennio, Seyoum Bereded-Samuel, sulla questione taglia corto: "Gli italiani si erano impegnati a rimetterlo al suo posto. Ci dicono che i lavori sono a buon punto e che tutto è nelle mani dell’Unesco. Speriamo di riaverlo in piedi entro il settembre del 2008, quando si concluderanno i festeggiamenti del secondo millennio della chiesa copta".
In Italia c’è chi aveva annunciato che l’obelisco sarebbe stato di nuovo a posto questa primavera. Lo scorso 28 ottobre Giuseppe Proietti, capo del Dipartimento per la ricerca e l’organizzazione del ministero per i Beni culturali, aveva detto che la prima fase dell’analisi archeologica dell’area dove sorgerà la stele era finita e che entro pochi giorni sarebbero partiti i lavori per rimettere a dimora l’obelisco. Forse contava sugli angeli che si dice abbiano costruito le chiese del sito vicino, a Lalibela. Ieri ha dichiarato: "È l’Unesco che coordina i lavori, a loro spettava bandire la gara di appalto, che si è conclusa, per avviare i lavori per la ricollocazione. Speravamo che le loro procedure fossero più snelle, il ruolo dell’Italia continua per quanto riguarda la direzione scientifica".
Francesco Bandarin, direttore del centro del patrimonio mondiale dell’Unesco risponde: "Il ritorno dell’obelisco prevedeva due fasi e due finanziamenti. La prima era quella del trasporto fino all’Etiopia, la seconda quella per il riposizionamento. Diciamo che c’è stato un problema di "montaggio finanziario", per l’arrivo dei soldi, solo lo scorso ottobre è stato perfezionato lo stanziamento del milione e mezzo di euro che servirà a rimettere in piedi la stele".
Un problema di soldi, insomma, ma non solo, perché fonti dell’ambasciata italiana ad Addis Abeba sostengono che il governo etiope si dovrà far carico delle operazioni di sdoganamento dei macchinari, in arrivo a Djibuti, per rialzare la stele. "È un progetto complicato - sottolinea Bandarin - non si può passare dal porto eritreo di Massaua, Djibuti è molto lontano e Axum si trova a 2000 metri di altezza, collegata su strade sulle quali i carichi eccezionali come i macchinari procedono a 10 chilometri all’ora".
Per ora di pronto c’è solo il buco nel quale dovrebbero essere sistemate le fondamenta, un lavoro difficile perché c’è anche da assicurarsi che le vibrazioni non danneggino le altre stele del parco. Era stato tutto più facile per Mussolini, che non si era posto problemi nel frantumare la base dell’obelisco. Quella, anche con i soldi e la tecnica italiana, non si recupererà più, sarà rifatta di cemento armato. Si spera entro il 2008.
* la Repubblica, 31 marzo 2007
Internazionale
Il sogno dell’Etiopia è l’incubo di El Sisi, «Il Nilo è l’Egitto»
Gerd. Il riempimento della diga etiope del Gran Rinascimento fa crollare al Cairo le più antiche certezze sul fiume che qui è sinonimo di vita
di Michele Giorgio (il manifesto, 17.07.2020)
La tv di stato etiope ieri si è scusata: un malinteso, ha spiegato, è all’origine dell’annuncio (due giorni fa) dell’avvio unilaterale del riempimento del bacino Gerd, la Diga etiope del Gran Rinascimento sul Nilo Azzurro. E il ministro delle risorse idriche, dell’irrigazione e dell’energia Sileshi Bekele ha ribadito che la via del negoziato con Egitto e Sudan resta fondamentale per risolvere le divergenze tra i tre paesi. Addis Abeba getta acqua sul fuoco, vuole placare la rabbia di egiziani e sudanesi già forte dopo gli ulteriori colloqui trilaterali privi di esito. Riempire la diga senza un accordo, ha avvertito il ministro degli esteri egiziano, Sameh Shoukry, «aumenterebbe le tensioni e potrebbe provocare crisi e conflitti che destabilizzano ulteriormente una regione già in difficoltà».
Un giro di parole per dire che il Cairo non esclude una guerra pur di difendere il suo accesso all’acqua del Nilo. Khartoum preferisce la diplomazia ma è schierata con l’Egitto, a maggior ragione dopo la caduta di Omar al Bashir che ha posto il Sudan nell’orbita di Arabia saudita ed Emirati arabi, alleati del Cairo. Ma il fronte comune Egitto-Sudan non ha prodotto risultati. Addis Abeba, forte anche della protezione silenziosa di un alleato potente, Israele, ha continuato per la sua strada mentre resta impalpabile la mediazione dell’Unione africana. E a gettare un’ombra sulla sincerità delle rassicurazioni degli etiopi ci sono le recenti immagini satellitari che mostrano un incremento dell’acqua nel bacino della Gerd.
Nel 2011, approfittando delle fasi caotiche seguite alla rivoluzione anti-Mubarak in Egitto, l’Etiopia annunciò che avrebbe costruito sul Nilo, non lontano dal confine con il Sudan, la più grande diga dell’Africa - copre un’area di 1700 kmq ed è costata quasi 5 miliardi di dollari, ai lavori ha partecipato anche il gruppo industriale italiano Salini Impregilo - cruciale per il proprio sviluppo economico e per le forniture di elettricità a decine di milioni di cittadini. La Gerd aggiungerà 6500 megawatt di energia ai circa 4000 disponibili al momento e farà dell’Etiopia un paese esportatore di energia. Invece per gli egiziani, che hanno sollecitato invano pressioni statunitensi su Addis Abeba, la diga è un incubo.
Il Nilo è l’Egitto, lo pensano i vertici del potere e i semplici cittadini. Da millenni, dai Faraoni ai nostri giorni. E hanno un po’ ragione a pensarlo visto che nell’immaginario globale e nelle scuole di ogni parte del mondo, quel fiume che scorre da sud verso nord, è visto come la salvezza e la ricchezza dell’Egitto, paese quasi tutto desertico dove in un anno cadono mediamente 18 mm di pioggia (848 in Etiopia) e dove 100 milioni di esseri umani vivono in appena il 7% del territorio, lungo le rive del Nilo e nel fertile Delta.
L’impero coloniale britannico aveva riconosciuto il sigillo egiziano sul Nilo. E così è stato con gli accordi del 1959 che assegnarono all’Egitto 55,5 miliardi di metri cubi d’acqua (al Sudan 18,5). Una quota all’epoca enorme ma oggi insufficiente. Ne servono 80 per dissetare la popolazione egiziana e garantire livelli adeguati di produzione agricola.
Le intese del 2015 tra Egitto, Sudan ed Etiopia non hanno risolto nulla.
Mai come ora appare ridimensionato il progetto nasseriano della diga di Aswan che rese celebre l’Egitto nel mondo. Il Nilo non è più solo egiziano. Appartiene a una decina di paesi che, in misura e modi diversi, hanno bisogno delle sue acque. E alcuni di questi, Etiopia in testa, ora fanno valere la loro forza e quella delle loro alleanze.
Per il presidente egiziano Abdel Fattah el Sisi la Gerd è una sfida eccezionale, che minaccia la stabilità del suo potere fondato sulla repressione di ogni voce dissidente e l’odio diffuso per i Fratelli musulmani. El Sisi ha promesso che «nessun egiziano soffrirà la sete». Le previsioni scientifiche non lo rassicurano.
La trattativa con l’Etiopia ruota intorno ai tempi di riempimento della diga. Addis Abeba ha fretta, vorrebbe farlo in due anni. Egitto e Sudan respingono totalmente questa idea. I calcoli fatti da esperti intervistati dalla tv satellitare al Jazeera dicono che se la Gerd sarà riempita in dieci anni, l’Egitto perderà il 14% dell’acqua il 18% dei terreni coltivabili. Se il riempimento avverrà in sette anni perderà rispettivamente il 22% e 33%. Se il riempimento avverrà in cinque anni sparirà il 50% delle terre agricole. Svaniranno anche un 1,2 milioni di posti di lavoro in agricoltura e il tasso di disoccupazione salirà pericolosamente. Previsioni troppo pessimistiche, sostiene qualcuno. Realistiche per altri.
«Numeri a parte El Sisi e l’Egitto arrivano a questo appuntamento impreparati e senza aver programmato contromisure adeguate» spiega al manifesto l’analista arabo Mouin Rabbani. «Il Cairo deve rendersi conto che non è più come un tempo» aggiunge Rabbani «quando alzava la voce e il resto del mondo arabo e buona parte dell’Africa chinavano il capo. Quell’era è finita e oggi l’Egitto deve impegnarsi a fondo per far valere il suo peso con esiti che non sono scontati».
Più si riempirà la diga etiope e più aumenteranno le difficoltà dell’Egitto che già ora importa circa il 50% del grano e non ha avviato una riparazione seria della rete idrica nazionale, notoriamente un colabrodo. I segnali di ripresa economica - inflazione dal 33% del 2017 al 7,5% attuale, aumento delle riserve in valuta estera da 12 miliardi di dollari nel 2011 a 45 miliardi, riduzione del deficit di bilancio dall’11,4 % all’8,5 % - non devono trarre in inganno. Circa il 30% degli egiziani vive al di sotto della soglia di povertà e ad essi si aggiungerà un altro 30% in conseguenza della crisi che innescherà la Gerd. «Non dimentichiamo - conclude Mouin Rabbani - che El Sisi oltre alla questione della diga etiope deve fronteggiare in questa fase anche (il leader turco) Erdogan, suo nemico, deciso a creare roccaforti in Libia, alla porta occidentale dell’Egitto, con l’appoggio di formazioni islamiste (libiche) vicine alla Fratellanza. Una tenaglia che rischia di schiacciare El Sisi e l’Egitto».
Storia.
Debre Libanos, il vero volto dell’Italia fascista
La strage compiuta nel ’37 dagli uomini del generale Graziani è un’eredità con la quale risulta difficile fare i conti. Un libro indaga i fatti e i decenni di tentativi di occultare tanta ferocia
di Andrea Riccardi (Avvenire, giovedì 23 gennaio 2020)
Debre Libanos è il più importante monastero d’Etiopia: è il cuore della Chiesa etiopica, la più antica Chiesa africana con caratteri veramente originali, maturati lungo i secoli. Il cristianesimo etiopico è stato l’asse portante del secolare impero che il negus neghesti Haile Selassie incarnava. Il negus rappresentava il legame con la tradizione nazionale, era il protettore della Chiesa, formalmente dipendente dal patriarcato copto di Alessandria d’Egitto, ma in realtà sotto il controllo dei sovrani. [...] -A Debre Libanos avvenne una tremenda strage di monaci, diaconi, sacerdoti, fedeli, giovani, studenti, addirittura vicini della stessa area geografica, compiuta dagli italiani nel 1937, specie tra il 20 e il 29 maggio, come risposta all’attentato al viceré, maresciallo Graziani. Questo è il più grave crimine di guerra commesso dall’Italia. Ma, in Italia, non si è parlato di Debre Libanos. L’ha fatto solo qualche studioso coraggioso, come Angelo Del Boca, che ha ricostruito gli aspetti oscuri della guerra d’Etiopia.
In questo libro (Debre Libanos 1937) lo storico Paolo Borruso ripercorre non solo la vicenda della strage, ma anche il tempo in cui viene dimenticata e accantonata, per la resistenza degli ambienti e delle istituzioni italiane del secondo dopoguerra, per la volontà radicata di non ridiscutere il mito degli italiani «brava gente» e di dare un’immagine edulcorata del fascismo. In realtà, la politica coloniale del fascismo è rivelatrice del volto oscuro del regime e della logica di violenza e di odio che lo pervadeva.
Debre Libanos ha rappresentato il culmine e il simbolo della disumanizzazione degli italiani nel conflitto etiopico e nella successiva repressione. [...] Quello che avvenne a Debre Libanos nel 1937 è una sequenza drammatica, degna dei più gravi episodi della seconda guerra mondiale. Fu una strage voluta e non casuale. I comandi italiani ebbero coscienza che si trattava di un atto veramente grave, che poteva scuotere la sensibilità delle truppe. Tanto che utilizzarono anche le truppe coloniali (musulmane) nella strage dei monaci e nella distruzione della chiesa e delle residenze monastiche, per evitare di urtare i cristiani (italiani o coloniali) con l’assassinio dei religiosi innocenti. Successivamente alla strage, senza deflettere da una logica di crudeltà continuata con altre uccisioni e con le deportazioni nei campi di concentramento, le autorità italiane provarono a nascondere l’accaduto o almeno a minimizzarlo: operazione impossibile, perché la realtà parlava. Del resto erano eloquenti di per sé le rovine della chiesa e degli insediamenti monastici.
Lo studio della vicenda di Debre Libanos non può esimersi dal chiedersi perché fosse necessaria tanta ferocia. Tale spietatezza ha avuto come risultato politico lo spingere gli etiopici su posizioni di resistenza, com’è avvenuto durante il governo coloniale del maresciallo Graziani.
Perfino Mussolini, che aveva appoggiato le crudeltà del maresciallo, si accorse che si trattava di una politica sbagliata e si vide costretto a cambiare la linea del governo coloniale, promuovendo viceré il duca d’Aosta. Questi, in controtendenza, s’im- pegnò invece in una politica di valorizzazione delle strutture sociali locali e di pacificazione con la Chiesa etiopica. Tuttavia la crudeltà era, in qualche modo, «necessaria », per come la conquista etiopica era avvenuta e per l’impronta totalitaria del regime, rivelatasi chiaramente nell’impresa coloniale. Potrà sembrare un’affermazione paradossale: la crudeltà era necessaria, perché il fascismo con questa guerra agiva in modo totalitario e mostrava il suo volto totalitario.
Si doveva sradicare la società etiopica, che aveva una struttura elaborata, connessa a uno Stato indipendente, membro della Società delle Nazioni, fondata su stratificazioni storico-religiose. Ma come farla tornare indietro a essere solamente una terra di colonia, senza identità e storia? Per questo era necessario distruggere e sradicare. Si doveva fare del mondo etiopico quasi una «tabula rasa», incapace di resistere alla dura dominazione coloniale italiana.
Così anche il governo del duca d’Aosta (che pure rappresentò una pausa di respiro dopo le repressioni di Graziani) era destinato al fallimento. Il consueto sguardo bonario e autoassolutorio sulle storie italiche, magari abituato a indulgere sull’inefficienza italiana, nasconde la strategia che presiede alla conquista fascista dell’Etiopia: distruggere un mondo che aveva una dignità (con tutti i suoi limiti, la sua instabilità tradizionale e le sue arretratezze).
Questo mondo aveva il suo punto di forza nella connessione tra una monarchia consacrata religiosamente e la Chiesa etiopica: il monastero di Debre Libanos rappresentava questa connessione «sacra» con la sua storia e la sua presenza. [...]
La strage dei cristiani di Debre Libanos colpisce anche perché gli ufficiali e i soldati italiani venivano da un paese cattolico, che nel 1929 aveva riaffermato la sua cattolicità con i Patti del Laterano. E, proprio durante l’impresa etiopica, era emerso il consenso cattolico attorno al regime.
Tanto che Mussolini si disse soddisfatto per l’atteggiamento del clero e dell’episcopato nella guerra d’Etiopia: «altamente commendevole dal punto di vista patriottico et morale», scriveva ai prefetti nel 1935. Il consenso cattolico, come il cattolicesimo delle truppe e dell’ufficialità, non frena gli atti anticristiani sugli etiopi e i loro luoghi santi.
È un altro interrogativo interessante: come fu possibile tutto questo? C’è un capitolo della propaganda di guerra che riguarda specificamente il cristianesimo degli etiopi e che venne alimentato dai cattolici italiani, vescovi, religiosi e missionari. -La Chiesa etiope, la cosiddetta Chiesa täwahedo - ne ha scritto la storia in modo tanto documentato e ampio Alberto Elli -, dipendeva dal patriarcato copto di Alessandria d’Egitto, nonostante la sua autonomia; ma era considerata scismatica dalla Chiesa cattolica. Ci fu una propaganda del disprezzo nei confronti dei cristiani etiopi e delle loro istituzioni ecclesiastiche, condotta dai religiosi cattolici. Fu un modo di legittimare dal punto di vista religioso la conquista italiana dell’Etiopia, ma anche di screditare agli occhi degli italiani la Chiesa etiopica, il suo personale, la sua liturgia e i suoi ambienti. [...] credo che la Chiesa italiana abbia aspettato troppo tempo a prendere coscienza di questa storia, che l’ha vista - certo non attivamente, ma convintamente - sullo scenario di una guerra e di operazioni repressive, solidale con il regime nell’opera di discredito dell’altro etiopico, a cui si negava persino la qualità di cristiano. In realtà, scrivendo del martirio cristiano nel XX secolo, ho sentito anni fa la responsabilità di parlare dei caduti di Debre Libanos come di «nuovi martiri» del Novecento. Tali infatti mi sembrano essere.
Naturalmente la responsabilità prioritaria delle stragi fu del governo, delle istituzioni e delle forze armate d’Italia. Dopo la guerra, furono bloccati i processi contro i principali responsabili, Graziani prima di tutto, ma anche il generale Pietro Ma-letti, che fu l’esecutore dei crimini a Debre Libanos.
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha reso omaggio agli ex combattenti etiopici contro l’Italia fascista ad Addis Abeba, proprio nel luogo dove avvenne l’attentato a Graziani nel 1937. Ma stiamo ancora aspettando dalle istituzioni e dalle forze armate una presa di coscienza ufficiale sulla strage di Debre Libanos e le complessive repressioni del 1937. Quella strage rappresentò il culmine dell’assurdo in un processo di «imbarbarimento» dei soldati, necessario a condurre una lotta a oltranza per la distruzione delle strutture tradizionali e nazionali dell’Etiopia. [...]
La guerra italiana agli etiopici, all’impero cristiano e alla sua Chiesa, mostra con tutta evidenza il volto brutale del fascismo. Mette in luce anche la miopia di tanta parte del cattolicesimo, irretito nel nazionalismo (seppure Pio XI fosse critico sulla guerra fascista). In quegli anni, l’impasto di violenza coloniale, totalitarismo, razzismo (e poi di antisemitismo) rivela la realtà di quello che il fascismo è veramente stato e di come andava diventando col passare degli anni di dittatura.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Ex - "Impero"... ISTITUIRE LA GIORNATA DELLA MEMORIA per 500mila Africani uccisi dalla presenza coloniale italiana in LIBIA, ETIOPIA, E SOMALIA. UNA PROPOSTA DELLO STORICO ANGELO DEL BOCA
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
Federico La Sala
L’obelisco rubato da Mussolini nel 1937 e restituito dall’Italia all’Etiopia nel 2005 è di nuovo dove venne innalzato 1700 anni fa
Axum, la stele è tornata dov’era
in 30mila per festeggiare l’evento
dal nostro inviato CRISTINA NADOTTI
AXUM (Etiopia) - In mezzo alla festa di Axum, dopo gli squilli di tromba della chiesa copta e le urla acute dei canti delle donne del Tigray, quando la bandiera etiopica e quella italiana sono cadute lasciando scoperta la stele c’è stato un momento di silenzio. Come se le 30 mila persone accorse per l’evento avessero trattenuto il respiro. C’è ancora l’impalcatura intorno, che servirà a completare i lavori di restauro, ma la stele rubata da Mussolini nel 1937 e restituita dall’Italia all’Etiopia nel 2005 ora è di nuovo al suo posto vicino alle altre, dove era stata innalzata dal potente regno aksumita 1700 anni fa.
Ieri per la gente della cittadina del nord dell’Etiopia è stata festa grande. E davvero nel vedere l’entusiasmo con cui la gente si è precipitata ai piedi della stele, non appena le autorità sono andate via, si è capito il valore simbolico che la restituzione del monumento prima e la sua ricollocazione poi hanno per il Paese.
Nonostante le impalcature coprano ancora buona parte di quello che in modo improprio è chiamato obelisco, le famiglie hanno fatto a spintoni per arrivare a fare una foto ai piedi del monumento e in molti, sotto gli occhi atterriti degli ingegneri italiani responsabili del cantiere, hanno dato la scalata alle gabbie di ferro, come per riappropriarsi fisicamente di un simbolo di identità e antica grandezza.
In mezzo ai signori attempati, tutti impettiti nell’abito della festa, che agitavano rose e bandierine e alle donne nei loro scialli bianchi impegnate a sollevare i bambini perché vedessero la cerimonia, sono sembrati meno di circostanza perfino i discordi delle autorità. Il primo ministro etiope, Meles Zenawi, si è profuso in ringraziamenti all’Italia, che ha finanziato totalmente, cinque milioni di euro in tutto, il ritorno della stele, e all’Unesco, che ha fatto da tramite tra il nostro governo e gli studi di ingegneria e progettazione che hanno reso possibile portare via il monumento da Roma, fargli fare migliaia di chilometri e rimetterlo al suo posto salvaguardando la sua integrità e quella delle altre stele del parco.
Nonostante l’intermediazione dell’Onu, tuttavia, il viaggio a ritroso della stele è tutta opera italiana "un esempio di eccellenza tecnologica e scientifica" come ha sottolineato il presidente Napolitano nel messaggio che ha mandato alle autorità di Addis Abeba.
Del ritorno della stele che ad Axum chiamano "l’obelisco di Roma" ha beneficiato in qualche modo anche la sua gemella, della stessa altezza, che è stata assicurata con tiranti per evitare danni. La stele 1, infatti, era già pendente, a causa di terremoti e usura del tempo, ed è stata ora rinforzata in attesa di lavori di restauro e rinforzo.
Con il ritorno della "stele di Roma" al suo posto si conclude un contenzioso iniziato già nel ’47 con i trattati di pace che siglarono la fine della Seconda Guerra Mondiale. Nel 2001 l’avvio, proprio da parte dell’attuale sottosegretario degli Esteri Alfredo Mantica che ieri ha rappresentato l’Italia alla cerimonia, del processo per la restituzione della stele. Le tappe successive furono l’accordo bilaterale del 2004, con il quale l’Italia si impegnava ad accollarsi totalmente le spese per riportare la stele al suo posto e la rimozione da Roma nel 2005. Poi, per tre anni, la stele è rimasta parcheggiata ad Axum, in attesa di nuovi finanziamenti per la ricollocazione.
Ma l’investimento fatto dall’Italia non serve solo a ripagare i debiti del suo passato colonialista. Ieri la sua importanza si è vista nell’incontro che Mantica ha avuto con il ministro degli Esteri etiope Seyoum Mesfin. "L’Etiopia ha un ruolo fondamentale nella politica dell’Africa subsahariana e nella soluzione dei conflitti nel Corno d’Africa - ha detto il rappresentante italiano - e noi intendiamo rafforzare i nostri rapporti di collaborazione con Addis Abeba". Per parte sua l’Etiopia ha chiesto ieri all’Italia di farsi portavoce al prossimo G8, che sarà presieduto dal nostro Paese, delle sue difficoltà di proseguire nel suo ruolo di argine contro l’avanzata delle corti islamiche in Somalia. L’Etiopia è uno stato a maggioranza religiosa cristiano copta, un’enclave nell’Africa musulmana, e ora chiede aiuti per proseguire nel suo ruolo di stato cuscinetto.
* la Repubblica, 4 settembre 2008.
REPORTAGE Dopo la terribile guerra con l’Eritrea, lo Stato africano prova a voltare pagina con le fastose celebrazioni del Millennio etiopico, secondo il calendario giuliano lì in voga. Per coronare i festeggiamenti il 4 settembre verrà ricollocato l’obelisco nel punto in cui gli Italiani lo prelevarono nel 1937
Etiopia
In un Paese ferito torna la stele di Axum
Nelle intenzioni del regime tuttora al potere è iniziato il Rinascimento, ma al di là dei toni retorici la realtà è un’altra: i grandi investimenti statali e l’aumento pauroso del prezzo del petrolio hanno fatto impennare l’inflazione. Mentre la siccità recente ha causato quasi cinque milioni di denutriti. E lungo i confini eritrei c’è ancora tensione: cresce il rischio di un nuovo conflitto
da Axum Emanuele Fantini (Avvenire, 31.08.2008)
Nel suo piccolo di antica capitale ormai decaduta, anche Axum è investita del boom edilizio che negli ultimi anni sta trasformando il volto dei centri urbani in Etiopia. I tukul di pietra tipici della regione settentrionale del Tigrè sono ormai sovrastati da palazzacci di vetro e cemento, cotti dal sole ed impanati dalla polvere, a cui non manca mai un cornicione o un fregio su balconi e finestre ispirati alla sagoma del famoso obelisco. Ancora per pochi giorni la stele sarà imprigionata nella gabbia d’acciaio alta trenta metri utilizzata per assemblare i tre tronconi in cui era stata sezionata per il trasporto dall’Italia. Il ricollocamento nello stesso sito da cui gli Italiani la prelevarono nel 1937, come bottino della vittoria sulle truppe del Negus, sarà festeggiato a giorni, il prossimo 4 settembre, ciliegina sulla torta delle celebrazioni del Millennio etiopico.
Secondo il calendario giuliano in vigore nel paese, l’anno 2000 è cominciato infatti l’11 settembre scorso e nelle intenzioni del governo avrebbe dovuto sancire l’inizio del «Rinascimento dell’Etiopia». Ma la retorica si è scontrata con la dura realtà dei fatti: un massiccio programma di investimenti pubblici e l’aumento del prezzo del petrolio hanno fatto schizzare l’inflazione al 40%, mentre la siccità della scorsa primavera ha causato 4.6 milioni di malnutriti la cui sopravvivenza dipenderà dagli aiuti alimentari, da aggiungersi ai 7 milioni cronicamente assistiti dai programmi di «food for work».
Senza dimenticare la ferita ancora aperta di un’altra ricorrenza, quella del conflitto con l’Eritrea, iniziato dieci anni fa e conclusosi nel 2000 con gli accordi di pace di Algeri e almeno 70 mila vittime. Definita «una guerra tra fratelli per un pugno di sassi», in quanto combattuta su un arido altopiano da due governi espressione di movimenti di liberazione alleati per 14 anni di lotta armata contro la dittatura militare del Derg, quando ancora l’Eritrea era una provincia dell’Etiopia. Ad oggi le relazioni diplomatiche tra Addis Abeba ed Asmara non sono riprese, a causa del mancato accordo sul confine. Il 31 luglio la missione di peacekeeping dell’Onu incaricata di monitorare la zona cuscinetto tra i due Paesi ha chiuso i battenti, risollevando i timori per una ripresa delle ostilità. Ma di fatto negli ultimi anni era già stata ridotta all’impotenza dalle restrizioni ai movimenti e dai razionamenti di carburante imposti dal governo eritreo e dal rifiuto etiope di accettare il confine stabilito nel 2002 dalla commissione internazionale prevista dagli accordi di pace, col pretesto che il villaggio di Badme, una delle scintille che aveva infuocato il conflitto, veniva assegnato all’Eritrea.
Più che un nuovo scontro, ai governi di Asmara ed Addis Abeba sembra tuttavia far comodo l’attuale situazione di stallo e la guerra per procura combattuta in Somalia, che, alimentando periodicamente lo spauracchio del nemico, permettono di mantenere in casa propria un continuo stato di allerta e repressione di bassa intensità. La linea di frontiera lungo cui si è combattuto corre a poche decine di chilometri dai principali centri del Tigrè: Axum, Adua, Macallè. Sulla la strada che li collega si incontrano di frequente colonne di carri armati, mentre i soldati sono impegnati nelle esercitazioni a due passi dalle abitazioni civili. Ma la popolazione sembra non farci quasi più caso.
« Siamo cresciuti con la guerra - racconta Zeray, maestro elementare, mentre il rombo di un caccia copre e conferma le sue parole - io ho quasi quarant’anni, ma di vera pace ne ho vissuti soltanto sette». La presenza militare legata ai conflitti attuali, ma soprattutto la memoria e l’influenza di quelli passati sono parte integrante dell’identità della regione. Nonostante siano passati ormai 17 anni, i racconti della gente, così come i documenti ufficiali del governo iniziano invariabilmente con un tributo alla lotta armata con cui il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè (Tplf) ha sconfitto l’esercito del Derg, all’epoca il più forte e numeroso di tutta l’Africa grazie ai finanziamenti dell’Unione Sovietica. Nel simbolo del Tplf, oggi al potere sia a livello regionale che nazionale, fucile e martello si incrociano davanti alla sagoma dell’obelisco. Il volto di uno dei suoi dirigenti, barba e basco alla Che Guevara, morto di recente di Aids, è diventato l’icona delle campagne di prevenzione contro il virus. Chi ricopre ruoli di responsabilità nel partito e nella pubblica amministrazione ha quasi sempre partecipato anche alla lotta armata. «Quelli come me che si sono arruolati non ancora ventenni, sono cresciuti, si sono sposati e hanno fatto figli durante la guerriglia, nascondendosi nelle caverne dove erano allestite stazioni radio, scuole e ospedali per militari e civili. A me praticarono addirittura il taglio cesareo» racconta Gennet, oggi a capo di un ufficio provinciale, dopo aver conseguito un master a Londra.
«Sono in molti quelli che, finita la guerra, hanno completato gli studi specializzandosi all’estero o con corsi a distanza, come lo stesso primo ministro Meles». Ancor più evidente è l’eredità materiale della lotta armata: l’organizzazione umanitaria Rest (Relief Society of Tigray), creata per trasferire dal Sudan gli aiuti alle zone liberate durante le carestie degli anni ottanta, è diventata una delle più grandi ong africane.
Oggi lavora soprattutto nello sviluppo agricolo, nella gestione dell’acqua e dei suoli, con strutture, risorse e personale pari, se non superiori, a quelle del governo regionale. Il settore industriale, ancora allo stato embrionale, è invece dominato dalle imprese del gruppo Effort, la fondazione creata per amministrare risorse e capitali accumulati dal Tplf durante la lotta armata. «Il loro giro d’affari supera i 300 milioni di euro ma il riserbo con cui la Fondazione viene gestita rende difficile ottenere informazioni dettagliate», commenta un economista della Banca Mondiale. «La politica ufficiale è quella di investire in settori poco attraenti per i capitali privati, ma di fatto queste imprese rappresentano un ostacolo alla libera concorrenza visto che i loro dirigenti siedono anche nel comitato centrale del partito al governo e godono di canali privilegiati per accedere a crediti, informazioni e favori». Anche banche, istituzioni di microcredito, radio e giornali sono «affiliati» al partito; impossibile per degli outsider penetrare in tutti questi settori, a testimonianza del fatto che i sacrifici patiti per la conquista del potere rendono ancora più difficile la sua condivisione.
UN SIMBOLO ORMAI CONTESO DA ANNI
L’ obelisco a lungo conteso tra Italia ed Etiopia è alto quasi 24 metri e ha 1700 anni. Eleganza ed imponenza ne fanno da sempre un simbolo caro al potere. Insieme ad altre steli ornava le tombe dei sovrani del regno di Axum, che dal 400 a.C. dominò per tredici secoli entrambe le sponde del Mar Rosso, controllando sia il Corno d’Africa che una parte della penisola arabica. Nel 1937, in seguito all’invasione da parte italiana, per volere di Mussolini fu trasportato a Roma e collocato in piazza di Porta Capena, a due passi dal Circo Massimo, di fronte all’allora Ministero delle Colonie, oggi sede della Fao.
La restituzione, promessa con il trattato di pace del 1947, ha iniziato a concretizzarsi soltanto nel 2003, quando il monumento è stato smantellato e parcheggiato in un deposito, in attesa di risolvere il rompicapo logistico legato al suo trasporto: troppo pesanti le 150 tonnellate di granito, troppo corta la pista di atterraggio di Axum. Alla fine è stato trasportato in Etiopia con un Antonov nel 2005, in tempo per infiammare di retorica patriottica la propaganda per le elezioni politiche. Ci sono voluti poi tre anni per organizzare la risistemazione nel parco archeologico di Axum - classificato dall’Unesco come patrimonio comune dell’umanità - a causa dei timori per le tenuta del terreno, traforato da tombe e cunicoli sotterranei. I resti di una stele di analoghe dimensioni, probabilmente crollata al momento dell’innalzamento, giacciono lì accanto a testimonianza della delicatezza dell’operazione.
Una bella responsabilità per gli italiani che si sono aggiudicati la gara internazionale: lo Studio Croci e l’impresa Lattanzi. A fine luglio sono riusciti comunque a completare i lavori, in tempo perché la sagoma dell’obelisco sigilli le celebrazioni del Millennio etiopico.
Emanuele Fantini
Il futuro dell’obelisco di Axum *
L’installazione dell’obelisco di Axum, simbolo dell’identità del popolo etiope, è prevista per il 4 giugno con termine per la fine di luglio, e sarà un’operazione «lunga e complessa» ha detto l’ambasciatrice d’Etiopia a Parigi, Tadelech Haile Michael, in occasione della conferenza stampa di presentazione del progetto che si è tenuta alla Maison dell’Unesco.
Com’è noto l’obelisco di Axum venne portato in Italia su richiesta di Benito Mussolini negli anni Trenta e installato a Roma, di fronte al palazzo della Fao. La stele gigante in granito, alta 23,4 metri e pesante 152 tonnellate, fu costruita tra il terzo e il quarto secolo avanti Cristo, e «probabilmente a causa della sismicità della zona in cui era situato» cadde quasi subito e rimase in terra, spezzata in cinque blocchi, per circa dieci secoli», come ha spiegato l’archeologo Francis Anfray ieri.
I lavori di restituzione dell’obelisco erano cominciati nell’aprile del 2005, data in cui la stele è stata ufficialmente resa all’Etiopia. Lo smontaggio a Roma, il trasporto in Etiopia via aereo e la reistallazione a Axum, che verrà ultimata tra giugno e luglio, sono stati finanziati e organizzati interamente dal governo italiano. La cerimonia di inaugurazione è prevista il prossimo 10 settembre, per i festeggiamenti della fine del millennio etiope.
* il manifesto, 24.05.2008
Ansa» 2008-05-09 16:51
ARCHEOLOGIA: SCOPERTO IL PALAZZO DELLA REGINA DI SABA
BERLINO - Una equipe di archeologi tedeschi ha dichiarato di aver scoperto i resti del palazzo della leggendaria regina di Saba ad Axum, in Etiopia. Lo rende noto un comunicato dell’Università di Amburgo.
I resti del palazzo, risalente al X secolo a.C., sono stati ritrovati sotto altri ruderi, quelli del palazzo di un re cristiano. Il palazzo della regina era stato distrutto dal re Menelek, il figlio che lei aveva avuto dal re d’Israele Salomone, e ricostruito in modo di essere orientato verso la stella Sirio, della quale era adoratore.
Le ricerche ad Axum in Etiopia erano cominciate nel 1999. Lo scopo è definire le origini del paese e della chiesa ortodossa etiope.
da Berlino
Il principe etiope racconta l’esilio in Germania
di Diego Vanzi (Avvenire, 31.03.2007)
A volte è strano il destino degli scrittori: Lij (principe) Asfa-Wossen Asserate è nato nel ’48 ad Addis Abeba dove ha frequentato fino alla maturità la scuola tedesca. Nel ’68 è a Tubinga in Germania per studiare diritto. Lo attende un’alta carica nel governo etiope. È infatti pronipote dell’imperatore Haile Selassie e figlio del governatore dell’Eritrea Asserate Kasa. Ma la rivoluzione socialista di Mengistu lo ferma in Europa. Suo padre viene passato per le armi senza processo, la sua famiglia è agli arresti. Asfa-Wossen Asserate non ha scelta e rimane in Germania. Qui oggi è scrittore di successo. Il suo tedesco fa invidia agli eredi di Wolfgang Goethe. Nel suo ultimo libro fresco di stampa «Ein Prinz aus dem Hause David und warum er in Deutschland blieb» (Un principe della casa di David e perché è rimasto in Germania), Scherz Verlag, 384 pagine, 19,90 euro, è il racconto della sua storia dal ’74 ad oggi. Dall’epoca cioè in cui la Germania diventa il suo luogo d’esilio. Un paese che diventa il suo e nonostante tutto gli permette di realizzarsi.
La Guantanamo d’Etiopia esiste: «catturati 41 terroristi» *
La “Guantanamo” d’Etiopia esiste. Lo scorso mese Human Rights Watch ha da un lato accusato l’Etiopia di aver fatto “sparire” in prigioni segrete dozzine di persone, dall’altro il governo Usa di inviare agenti dell’Fbi e della Cia in questa «Guantanamo esternalizzata» per interrogare i presunti terroristi catturati dagli etiopi o in Kenya oppure in Somalia durante i rastrellamenti seguiti all’offensiva nei confronti delle Corti islamiche, cacciate dalla capitale somala Mogadiscio a fine dicembre. La Bbc aveva anche raccolto la testimonianza di una donna di 42 anni, Kamilya Mohammedi Tuweni, proveniente dagli Emirati Arabi Uniti, arrestata in Kenya e poi trasferita in Etiopia, e rilasciata il 24 marzo dopo 2 mesi e mezzo di prigionia che lei aveva descritto come un vero e proprio «incubo»: lLa donna ha raccontato di non aver ricevuto alcuna accusa formale durante la detenzione durante la quale nessuno si sarebbe preoccupato di informarla sulla sua sorte e sui motivi dell’arresto. Insomma: un trattamento in stile Guantanamo.
Adesso però, dopo aver inizialmente negato, è lo stesso governo etiopico ad ammettere pubblicamente di aver tenuto prigionieri 41 «sospetti terroristi» catturati nella confinante Somalia. Per la precisione è stato il il ministro degli esteri di Addis Abeba - citato dalla Bbc on line - che ha raccontato che gli arrestati sono di 17 nazionalità, comprese quelle statunitense, canadese e svedese.
Comunque sia è la prima volta che l’Etiopia ammette di avere stranieri nelle sue prigioni, giustificando la cosa come parte della «guerra globale al terrore». Addis Abeba però ha negato che le detenzioni siano state fatte in segretezza e precisa che 5 degli arrestati sono già stati liberati e che altri 24 seguiranno.
* l’Unità, Pubblicato il: 10.04.07, Modificato il: 10.04.07 alle ore 17.12