Le autorità etiopiche: "L’Italia si era impegnata a rimetterlo al suo posto".
I Beni culturali: "L’Unesco coordina i lavori, a noi la direzione scientifica"
Axum, odissea di un simbolo
l’obelisco è ancora in pezzi
A due anni dalla restituzione mancano i fondi per erigere la stele trafugata nel 1937
Difficoltà per l’invio dei macchinari, appena arrivati gli ultimi finanziamenti
dal nostro inviato di CRISTINA NADOTTI *
AXUM - L’obelisco è in terra d’Etiopia. Peccato che sia ancora imbragato, diviso in tre pezzi e sistemato in modo provvisorio sotto delle tettoie ai margini del parco delle stele di Axum. Il simbolo dell’indipendenza etiopica, che con grande pompa fu riportato, nel marzo-aprile 2005, al luogo da cui l’aveva trafugato Mussolini nel 1937, sembra un macchinario in un cantiere abbandonato, con i lavori a metà.
I turisti gli passano vicino senza guardarlo, le macchine fotografiche già puntate sulla stele principale del parco e sul gemello dell’obelisco delle polemiche. Anche questo giace a terra, spezzato in tre tronconi, da quando gli axumiti cercarono di erigerlo circa 1700 anni fa. Qualche italiano si guarda intorno, se non altro perché in tutti gli aeroporti dell’Etiopia grandi cartelloni voluti dalla linea aerea nazionale, Ethiopian Airlines, celebrano "il ritorno a casa e la ri-erezione dell’obelisco di Axum", con profusione di bandierine etiopi e italiane incrociate.
Le bandiere ci sono anche qui: quella nazionale sventola all’ingresso del parco, quella italiana, tutta scolorita, è un foglio in un raccoglitore di plastica trasparente su uno dei tre tronconi dell’obelisco. Con un sorriso sdentato un uomo guarda divertito gli stranieri che scattano foto alla bandierina sbiadita: approfittando della tettoia che protegge l’obelisco, ha messo su quattro pareti di lamiera e si è costruito un rifugio di fortuna. A lui il ritorno a casa dell’obelisco ha fatto comodo.
La maggioranza degli etiopi solleva le spalle se si chiede perché l’obelisco sia ancora lì dove fu sistemato provvisoriamente due anni fa. Le guide del posto e il responsabile dell’ufficio turistico di Axum mettono insieme spiegazioni confuse su ritrovamenti di necropoli che hanno ritardato la ricollocazione, infiltrazioni d’acqua che renderebbero insicura la posa e concludono con "non ci sono i soldi". Il ministro del Turismo e per le celebrazioni del Millennio, Seyoum Bereded-Samuel, sulla questione taglia corto: "Gli italiani si erano impegnati a rimetterlo al suo posto. Ci dicono che i lavori sono a buon punto e che tutto è nelle mani dell’Unesco. Speriamo di riaverlo in piedi entro il settembre del 2008, quando si concluderanno i festeggiamenti del secondo millennio della chiesa copta".
In Italia c’è chi aveva annunciato che l’obelisco sarebbe stato di nuovo a posto questa primavera. Lo scorso 28 ottobre Giuseppe Proietti, capo del Dipartimento per la ricerca e l’organizzazione del ministero per i Beni culturali, aveva detto che la prima fase dell’analisi archeologica dell’area dove sorgerà la stele era finita e che entro pochi giorni sarebbero partiti i lavori per rimettere a dimora l’obelisco. Forse contava sugli angeli che si dice abbiano costruito le chiese del sito vicino, a Lalibela. Ieri ha dichiarato: "È l’Unesco che coordina i lavori, a loro spettava bandire la gara di appalto, che si è conclusa, per avviare i lavori per la ricollocazione. Speravamo che le loro procedure fossero più snelle, il ruolo dell’Italia continua per quanto riguarda la direzione scientifica".
Francesco Bandarin, direttore del centro del patrimonio mondiale dell’Unesco risponde: "Il ritorno dell’obelisco prevedeva due fasi e due finanziamenti. La prima era quella del trasporto fino all’Etiopia, la seconda quella per il riposizionamento. Diciamo che c’è stato un problema di "montaggio finanziario", per l’arrivo dei soldi, solo lo scorso ottobre è stato perfezionato lo stanziamento del milione e mezzo di euro che servirà a rimettere in piedi la stele".
Un problema di soldi, insomma, ma non solo, perché fonti dell’ambasciata italiana ad Addis Abeba sostengono che il governo etiope si dovrà far carico delle operazioni di sdoganamento dei macchinari, in arrivo a Djibuti, per rialzare la stele. "È un progetto complicato - sottolinea Bandarin - non si può passare dal porto eritreo di Massaua, Djibuti è molto lontano e Axum si trova a 2000 metri di altezza, collegata su strade sulle quali i carichi eccezionali come i macchinari procedono a 10 chilometri all’ora".
Per ora di pronto c’è solo il buco nel quale dovrebbero essere sistemate le fondamenta, un lavoro difficile perché c’è anche da assicurarsi che le vibrazioni non danneggino le altre stele del parco. Era stato tutto più facile per Mussolini, che non si era posto problemi nel frantumare la base dell’obelisco. Quella, anche con i soldi e la tecnica italiana, non si recupererà più, sarà rifatta di cemento armato. Si spera entro il 2008.
* la Repubblica, 31 marzo 2007
L’obelisco rubato da Mussolini nel 1937 e restituito dall’Italia all’Etiopia nel 2005 è di nuovo dove venne innalzato 1700 anni fa
Axum, la stele è tornata dov’era
in 30mila per festeggiare l’evento
dal nostro inviato CRISTINA NADOTTI
AXUM (Etiopia) - In mezzo alla festa di Axum, dopo gli squilli di tromba della chiesa copta e le urla acute dei canti delle donne del Tigray, quando la bandiera etiopica e quella italiana sono cadute lasciando scoperta la stele c’è stato un momento di silenzio. Come se le 30 mila persone accorse per l’evento avessero trattenuto il respiro. C’è ancora l’impalcatura intorno, che servirà a completare i lavori di restauro, ma la stele rubata da Mussolini nel 1937 e restituita dall’Italia all’Etiopia nel 2005 ora è di nuovo al suo posto vicino alle altre, dove era stata innalzata dal potente regno aksumita 1700 anni fa.
Ieri per la gente della cittadina del nord dell’Etiopia è stata festa grande. E davvero nel vedere l’entusiasmo con cui la gente si è precipitata ai piedi della stele, non appena le autorità sono andate via, si è capito il valore simbolico che la restituzione del monumento prima e la sua ricollocazione poi hanno per il Paese.
Nonostante le impalcature coprano ancora buona parte di quello che in modo improprio è chiamato obelisco, le famiglie hanno fatto a spintoni per arrivare a fare una foto ai piedi del monumento e in molti, sotto gli occhi atterriti degli ingegneri italiani responsabili del cantiere, hanno dato la scalata alle gabbie di ferro, come per riappropriarsi fisicamente di un simbolo di identità e antica grandezza.
In mezzo ai signori attempati, tutti impettiti nell’abito della festa, che agitavano rose e bandierine e alle donne nei loro scialli bianchi impegnate a sollevare i bambini perché vedessero la cerimonia, sono sembrati meno di circostanza perfino i discordi delle autorità. Il primo ministro etiope, Meles Zenawi, si è profuso in ringraziamenti all’Italia, che ha finanziato totalmente, cinque milioni di euro in tutto, il ritorno della stele, e all’Unesco, che ha fatto da tramite tra il nostro governo e gli studi di ingegneria e progettazione che hanno reso possibile portare via il monumento da Roma, fargli fare migliaia di chilometri e rimetterlo al suo posto salvaguardando la sua integrità e quella delle altre stele del parco.
Nonostante l’intermediazione dell’Onu, tuttavia, il viaggio a ritroso della stele è tutta opera italiana "un esempio di eccellenza tecnologica e scientifica" come ha sottolineato il presidente Napolitano nel messaggio che ha mandato alle autorità di Addis Abeba.
Del ritorno della stele che ad Axum chiamano "l’obelisco di Roma" ha beneficiato in qualche modo anche la sua gemella, della stessa altezza, che è stata assicurata con tiranti per evitare danni. La stele 1, infatti, era già pendente, a causa di terremoti e usura del tempo, ed è stata ora rinforzata in attesa di lavori di restauro e rinforzo.
Con il ritorno della "stele di Roma" al suo posto si conclude un contenzioso iniziato già nel ’47 con i trattati di pace che siglarono la fine della Seconda Guerra Mondiale. Nel 2001 l’avvio, proprio da parte dell’attuale sottosegretario degli Esteri Alfredo Mantica che ieri ha rappresentato l’Italia alla cerimonia, del processo per la restituzione della stele. Le tappe successive furono l’accordo bilaterale del 2004, con il quale l’Italia si impegnava ad accollarsi totalmente le spese per riportare la stele al suo posto e la rimozione da Roma nel 2005. Poi, per tre anni, la stele è rimasta parcheggiata ad Axum, in attesa di nuovi finanziamenti per la ricollocazione.
Ma l’investimento fatto dall’Italia non serve solo a ripagare i debiti del suo passato colonialista. Ieri la sua importanza si è vista nell’incontro che Mantica ha avuto con il ministro degli Esteri etiope Seyoum Mesfin. "L’Etiopia ha un ruolo fondamentale nella politica dell’Africa subsahariana e nella soluzione dei conflitti nel Corno d’Africa - ha detto il rappresentante italiano - e noi intendiamo rafforzare i nostri rapporti di collaborazione con Addis Abeba". Per parte sua l’Etiopia ha chiesto ieri all’Italia di farsi portavoce al prossimo G8, che sarà presieduto dal nostro Paese, delle sue difficoltà di proseguire nel suo ruolo di argine contro l’avanzata delle corti islamiche in Somalia. L’Etiopia è uno stato a maggioranza religiosa cristiano copta, un’enclave nell’Africa musulmana, e ora chiede aiuti per proseguire nel suo ruolo di stato cuscinetto.
* la Repubblica, 4 settembre 2008.
REPORTAGE Dopo la terribile guerra con l’Eritrea, lo Stato africano prova a voltare pagina con le fastose celebrazioni del Millennio etiopico, secondo il calendario giuliano lì in voga. Per coronare i festeggiamenti il 4 settembre verrà ricollocato l’obelisco nel punto in cui gli Italiani lo prelevarono nel 1937
Etiopia
In un Paese ferito torna la stele di Axum
Nelle intenzioni del regime tuttora al potere è iniziato il Rinascimento, ma al di là dei toni retorici la realtà è un’altra: i grandi investimenti statali e l’aumento pauroso del prezzo del petrolio hanno fatto impennare l’inflazione. Mentre la siccità recente ha causato quasi cinque milioni di denutriti. E lungo i confini eritrei c’è ancora tensione: cresce il rischio di un nuovo conflitto
da Axum Emanuele Fantini (Avvenire, 31.08.2008)
Nel suo piccolo di antica capitale ormai decaduta, anche Axum è investita del boom edilizio che negli ultimi anni sta trasformando il volto dei centri urbani in Etiopia. I tukul di pietra tipici della regione settentrionale del Tigrè sono ormai sovrastati da palazzacci di vetro e cemento, cotti dal sole ed impanati dalla polvere, a cui non manca mai un cornicione o un fregio su balconi e finestre ispirati alla sagoma del famoso obelisco. Ancora per pochi giorni la stele sarà imprigionata nella gabbia d’acciaio alta trenta metri utilizzata per assemblare i tre tronconi in cui era stata sezionata per il trasporto dall’Italia. Il ricollocamento nello stesso sito da cui gli Italiani la prelevarono nel 1937, come bottino della vittoria sulle truppe del Negus, sarà festeggiato a giorni, il prossimo 4 settembre, ciliegina sulla torta delle celebrazioni del Millennio etiopico.
Secondo il calendario giuliano in vigore nel paese, l’anno 2000 è cominciato infatti l’11 settembre scorso e nelle intenzioni del governo avrebbe dovuto sancire l’inizio del «Rinascimento dell’Etiopia». Ma la retorica si è scontrata con la dura realtà dei fatti: un massiccio programma di investimenti pubblici e l’aumento del prezzo del petrolio hanno fatto schizzare l’inflazione al 40%, mentre la siccità della scorsa primavera ha causato 4.6 milioni di malnutriti la cui sopravvivenza dipenderà dagli aiuti alimentari, da aggiungersi ai 7 milioni cronicamente assistiti dai programmi di «food for work».
Senza dimenticare la ferita ancora aperta di un’altra ricorrenza, quella del conflitto con l’Eritrea, iniziato dieci anni fa e conclusosi nel 2000 con gli accordi di pace di Algeri e almeno 70 mila vittime. Definita «una guerra tra fratelli per un pugno di sassi», in quanto combattuta su un arido altopiano da due governi espressione di movimenti di liberazione alleati per 14 anni di lotta armata contro la dittatura militare del Derg, quando ancora l’Eritrea era una provincia dell’Etiopia. Ad oggi le relazioni diplomatiche tra Addis Abeba ed Asmara non sono riprese, a causa del mancato accordo sul confine. Il 31 luglio la missione di peacekeeping dell’Onu incaricata di monitorare la zona cuscinetto tra i due Paesi ha chiuso i battenti, risollevando i timori per una ripresa delle ostilità. Ma di fatto negli ultimi anni era già stata ridotta all’impotenza dalle restrizioni ai movimenti e dai razionamenti di carburante imposti dal governo eritreo e dal rifiuto etiope di accettare il confine stabilito nel 2002 dalla commissione internazionale prevista dagli accordi di pace, col pretesto che il villaggio di Badme, una delle scintille che aveva infuocato il conflitto, veniva assegnato all’Eritrea.
Più che un nuovo scontro, ai governi di Asmara ed Addis Abeba sembra tuttavia far comodo l’attuale situazione di stallo e la guerra per procura combattuta in Somalia, che, alimentando periodicamente lo spauracchio del nemico, permettono di mantenere in casa propria un continuo stato di allerta e repressione di bassa intensità. La linea di frontiera lungo cui si è combattuto corre a poche decine di chilometri dai principali centri del Tigrè: Axum, Adua, Macallè. Sulla la strada che li collega si incontrano di frequente colonne di carri armati, mentre i soldati sono impegnati nelle esercitazioni a due passi dalle abitazioni civili. Ma la popolazione sembra non farci quasi più caso.
« Siamo cresciuti con la guerra - racconta Zeray, maestro elementare, mentre il rombo di un caccia copre e conferma le sue parole - io ho quasi quarant’anni, ma di vera pace ne ho vissuti soltanto sette». La presenza militare legata ai conflitti attuali, ma soprattutto la memoria e l’influenza di quelli passati sono parte integrante dell’identità della regione. Nonostante siano passati ormai 17 anni, i racconti della gente, così come i documenti ufficiali del governo iniziano invariabilmente con un tributo alla lotta armata con cui il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè (Tplf) ha sconfitto l’esercito del Derg, all’epoca il più forte e numeroso di tutta l’Africa grazie ai finanziamenti dell’Unione Sovietica. Nel simbolo del Tplf, oggi al potere sia a livello regionale che nazionale, fucile e martello si incrociano davanti alla sagoma dell’obelisco. Il volto di uno dei suoi dirigenti, barba e basco alla Che Guevara, morto di recente di Aids, è diventato l’icona delle campagne di prevenzione contro il virus. Chi ricopre ruoli di responsabilità nel partito e nella pubblica amministrazione ha quasi sempre partecipato anche alla lotta armata. «Quelli come me che si sono arruolati non ancora ventenni, sono cresciuti, si sono sposati e hanno fatto figli durante la guerriglia, nascondendosi nelle caverne dove erano allestite stazioni radio, scuole e ospedali per militari e civili. A me praticarono addirittura il taglio cesareo» racconta Gennet, oggi a capo di un ufficio provinciale, dopo aver conseguito un master a Londra.
«Sono in molti quelli che, finita la guerra, hanno completato gli studi specializzandosi all’estero o con corsi a distanza, come lo stesso primo ministro Meles». Ancor più evidente è l’eredità materiale della lotta armata: l’organizzazione umanitaria Rest (Relief Society of Tigray), creata per trasferire dal Sudan gli aiuti alle zone liberate durante le carestie degli anni ottanta, è diventata una delle più grandi ong africane.
Oggi lavora soprattutto nello sviluppo agricolo, nella gestione dell’acqua e dei suoli, con strutture, risorse e personale pari, se non superiori, a quelle del governo regionale. Il settore industriale, ancora allo stato embrionale, è invece dominato dalle imprese del gruppo Effort, la fondazione creata per amministrare risorse e capitali accumulati dal Tplf durante la lotta armata. «Il loro giro d’affari supera i 300 milioni di euro ma il riserbo con cui la Fondazione viene gestita rende difficile ottenere informazioni dettagliate», commenta un economista della Banca Mondiale. «La politica ufficiale è quella di investire in settori poco attraenti per i capitali privati, ma di fatto queste imprese rappresentano un ostacolo alla libera concorrenza visto che i loro dirigenti siedono anche nel comitato centrale del partito al governo e godono di canali privilegiati per accedere a crediti, informazioni e favori». Anche banche, istituzioni di microcredito, radio e giornali sono «affiliati» al partito; impossibile per degli outsider penetrare in tutti questi settori, a testimonianza del fatto che i sacrifici patiti per la conquista del potere rendono ancora più difficile la sua condivisione.
UN SIMBOLO ORMAI CONTESO DA ANNI
L’ obelisco a lungo conteso tra Italia ed Etiopia è alto quasi 24 metri e ha 1700 anni. Eleganza ed imponenza ne fanno da sempre un simbolo caro al potere. Insieme ad altre steli ornava le tombe dei sovrani del regno di Axum, che dal 400 a.C. dominò per tredici secoli entrambe le sponde del Mar Rosso, controllando sia il Corno d’Africa che una parte della penisola arabica. Nel 1937, in seguito all’invasione da parte italiana, per volere di Mussolini fu trasportato a Roma e collocato in piazza di Porta Capena, a due passi dal Circo Massimo, di fronte all’allora Ministero delle Colonie, oggi sede della Fao.
La restituzione, promessa con il trattato di pace del 1947, ha iniziato a concretizzarsi soltanto nel 2003, quando il monumento è stato smantellato e parcheggiato in un deposito, in attesa di risolvere il rompicapo logistico legato al suo trasporto: troppo pesanti le 150 tonnellate di granito, troppo corta la pista di atterraggio di Axum. Alla fine è stato trasportato in Etiopia con un Antonov nel 2005, in tempo per infiammare di retorica patriottica la propaganda per le elezioni politiche. Ci sono voluti poi tre anni per organizzare la risistemazione nel parco archeologico di Axum - classificato dall’Unesco come patrimonio comune dell’umanità - a causa dei timori per le tenuta del terreno, traforato da tombe e cunicoli sotterranei. I resti di una stele di analoghe dimensioni, probabilmente crollata al momento dell’innalzamento, giacciono lì accanto a testimonianza della delicatezza dell’operazione.
Una bella responsabilità per gli italiani che si sono aggiudicati la gara internazionale: lo Studio Croci e l’impresa Lattanzi. A fine luglio sono riusciti comunque a completare i lavori, in tempo perché la sagoma dell’obelisco sigilli le celebrazioni del Millennio etiopico.
Emanuele Fantini
Il futuro dell’obelisco di Axum *
L’installazione dell’obelisco di Axum, simbolo dell’identità del popolo etiope, è prevista per il 4 giugno con termine per la fine di luglio, e sarà un’operazione «lunga e complessa» ha detto l’ambasciatrice d’Etiopia a Parigi, Tadelech Haile Michael, in occasione della conferenza stampa di presentazione del progetto che si è tenuta alla Maison dell’Unesco.
Com’è noto l’obelisco di Axum venne portato in Italia su richiesta di Benito Mussolini negli anni Trenta e installato a Roma, di fronte al palazzo della Fao. La stele gigante in granito, alta 23,4 metri e pesante 152 tonnellate, fu costruita tra il terzo e il quarto secolo avanti Cristo, e «probabilmente a causa della sismicità della zona in cui era situato» cadde quasi subito e rimase in terra, spezzata in cinque blocchi, per circa dieci secoli», come ha spiegato l’archeologo Francis Anfray ieri.
I lavori di restituzione dell’obelisco erano cominciati nell’aprile del 2005, data in cui la stele è stata ufficialmente resa all’Etiopia. Lo smontaggio a Roma, il trasporto in Etiopia via aereo e la reistallazione a Axum, che verrà ultimata tra giugno e luglio, sono stati finanziati e organizzati interamente dal governo italiano. La cerimonia di inaugurazione è prevista il prossimo 10 settembre, per i festeggiamenti della fine del millennio etiope.
* il manifesto, 24.05.2008
Ansa» 2008-05-09 16:51
ARCHEOLOGIA: SCOPERTO IL PALAZZO DELLA REGINA DI SABA
BERLINO - Una equipe di archeologi tedeschi ha dichiarato di aver scoperto i resti del palazzo della leggendaria regina di Saba ad Axum, in Etiopia. Lo rende noto un comunicato dell’Università di Amburgo.
I resti del palazzo, risalente al X secolo a.C., sono stati ritrovati sotto altri ruderi, quelli del palazzo di un re cristiano. Il palazzo della regina era stato distrutto dal re Menelek, il figlio che lei aveva avuto dal re d’Israele Salomone, e ricostruito in modo di essere orientato verso la stella Sirio, della quale era adoratore.
Le ricerche ad Axum in Etiopia erano cominciate nel 1999. Lo scopo è definire le origini del paese e della chiesa ortodossa etiope.
da Berlino
Il principe etiope racconta l’esilio in Germania
di Diego Vanzi (Avvenire, 31.03.2007)
A volte è strano il destino degli scrittori: Lij (principe) Asfa-Wossen Asserate è nato nel ’48 ad Addis Abeba dove ha frequentato fino alla maturità la scuola tedesca. Nel ’68 è a Tubinga in Germania per studiare diritto. Lo attende un’alta carica nel governo etiope. È infatti pronipote dell’imperatore Haile Selassie e figlio del governatore dell’Eritrea Asserate Kasa. Ma la rivoluzione socialista di Mengistu lo ferma in Europa. Suo padre viene passato per le armi senza processo, la sua famiglia è agli arresti. Asfa-Wossen Asserate non ha scelta e rimane in Germania. Qui oggi è scrittore di successo. Il suo tedesco fa invidia agli eredi di Wolfgang Goethe. Nel suo ultimo libro fresco di stampa «Ein Prinz aus dem Hause David und warum er in Deutschland blieb» (Un principe della casa di David e perché è rimasto in Germania), Scherz Verlag, 384 pagine, 19,90 euro, è il racconto della sua storia dal ’74 ad oggi. Dall’epoca cioè in cui la Germania diventa il suo luogo d’esilio. Un paese che diventa il suo e nonostante tutto gli permette di realizzarsi.
La Guantanamo d’Etiopia esiste: «catturati 41 terroristi» *
La “Guantanamo” d’Etiopia esiste. Lo scorso mese Human Rights Watch ha da un lato accusato l’Etiopia di aver fatto “sparire” in prigioni segrete dozzine di persone, dall’altro il governo Usa di inviare agenti dell’Fbi e della Cia in questa «Guantanamo esternalizzata» per interrogare i presunti terroristi catturati dagli etiopi o in Kenya oppure in Somalia durante i rastrellamenti seguiti all’offensiva nei confronti delle Corti islamiche, cacciate dalla capitale somala Mogadiscio a fine dicembre. La Bbc aveva anche raccolto la testimonianza di una donna di 42 anni, Kamilya Mohammedi Tuweni, proveniente dagli Emirati Arabi Uniti, arrestata in Kenya e poi trasferita in Etiopia, e rilasciata il 24 marzo dopo 2 mesi e mezzo di prigionia che lei aveva descritto come un vero e proprio «incubo»: lLa donna ha raccontato di non aver ricevuto alcuna accusa formale durante la detenzione durante la quale nessuno si sarebbe preoccupato di informarla sulla sua sorte e sui motivi dell’arresto. Insomma: un trattamento in stile Guantanamo.
Adesso però, dopo aver inizialmente negato, è lo stesso governo etiopico ad ammettere pubblicamente di aver tenuto prigionieri 41 «sospetti terroristi» catturati nella confinante Somalia. Per la precisione è stato il il ministro degli esteri di Addis Abeba - citato dalla Bbc on line - che ha raccontato che gli arrestati sono di 17 nazionalità, comprese quelle statunitense, canadese e svedese.
Comunque sia è la prima volta che l’Etiopia ammette di avere stranieri nelle sue prigioni, giustificando la cosa come parte della «guerra globale al terrore». Addis Abeba però ha negato che le detenzioni siano state fatte in segretezza e precisa che 5 degli arrestati sono già stati liberati e che altri 24 seguiranno.
* l’Unità, Pubblicato il: 10.04.07, Modificato il: 10.04.07 alle ore 17.12