06. November 2008
Lasst uns gegen die Angst und gegen die Mafia kämpfen - schreiben die beiden kalabrischen Journalisten Francesco Saverio Alessio und Emiliano Morrone, die das Buch “La Società Sparente” verfasst haben, das die Verbindungen zwischen der kalabrischen ‘Ndrangheta, der kampanischen Camorra und den Freimaurern aufdeckt. Seither werden sie von der Mafia bedroht, verklagt, beleidigt, eingeschüchtert. “Und es wird noch weitere Beleidigungen, Klagen, Drohungen geben - bis man uns hinrichten wird”, schreiben die beiden Journalisten in ihrem Aufruf.
“Se andiamo avanti così in pochi anni la ’ndrangheta si mangia la Germania”. Petra Reski ha i titoli per dirlo: da vent’anni scrive articoli sulle cosche. Ora però il suo ultimo libro è diventato un caso. Scomodo anche per lei.
Io Donna, Corriere della Sera
Petra descrive gli affari dei mammasantissima della ’ndrangheta in Italia e nel suo paese: alberghi, pizzerie, strutture di lusso ma anche finanziarie, conti correnti e investimenti. Fa nomi e cognomi dei boss e dei loro referenti e protettori politici, descrive i raffinati meccanismi del riciclaggio raccogliendo inchieste fatte in Italia e il parere di magistrati che da anni sono impegnati sul difficile fronte della lotta alla mafia finanziaria.
L’Unità
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’Ndrangheta und Mafialand Deutschland
DA PALERMO A DUISBURG: SANGUE, AFFARI, POLITICA E DEVOZIONE
Petra Reski: Non mi lascio intimorire
Italia in svendita
Svendita totale
Si sta sopprimendo una cultura: l’Italia era un tempo uno dei Paesi più belli del mondo. Ma in pochi anni la speculazione edilizia italiana ha cementificato o svenduto patrimoni culturali centenari. Ora bisogna assolutamente salvare gli ultimi resti dagli italiani.
di Petra Reski (04.06.2015) *
Brancaccio, cemento fin dove arriva lo sguardo, uomini anziani con occhiali a specchio e l’urlo di un muezzin, che non è un muezzin, ma un venditore ambulante che loda i suoi broccoli. Il quartiere sudorientale di Palermo è fatto di fabbriche e case popolari da cui si scrosta il cemento e in cui si alloggia per 70 euro al mese. Grattacieli come torri carcerarie, ricoperti dalle scodelle dei satelliti. Una strada, che si chiama Via del Castellaccio. A destra un muro, su cui qualcuno con lo spray ha disegnato dei peni e scritto “auguri Vanessa”, a sinistra case a due piani, sporche, con le imposte sigillate. Ai balconi sono appese delle tende a listelli, che si scostano quando soffia il vento. E alla fine della strada appare un miraggio: una fortezza arabo-normanna. Tufo con sottili feritoie, archi e finestrelle con grata.
La Favara-Maredolce è un luogo incantato. Dietro la fortezza, nel cui cortile interno ancora vivono alcune famiglie in baracche piegate dal vento, si estende un cortile enorme, di 25 ettari, recintato dai silos residenziali di Brancaccio, che guardano increduli verso questo idillio. Un’ampiezza sorprendente si apre, con un piccolo lago contornato da canne palustri in mezzo a un affossamento circondato da cespugli di margherite, con melograni, gelsomini, nespole, fichi d’India e il verde scuro impenetrabile degli alberi di mandarino. E’ ciò che resta della Conca d’Oro, come veniva chiamata un tempo la pianura di Palermo. Un ultimo resto che si è opposto al cemento, alla mafia e alla speculazione edilizia. E che ora è stato insignito del Premio Internazionale Carlo Scarpa - riconoscimento che la Fondazione Benetton dà a giardini, luoghi, paesaggi a cui riesce di creare un equilibrio tra trasformazione e conservazione del lascito culturale, così come sapeva fare l’architetto veneziano Carlo Scarpa, che dà il nome al premio. Il premio riconosce anche un impegno etico - in questo caso quello del gruppo di lavoro interdisciplinare della sovrintendenza di Palermo, che nel senso più vero della parola ha dissotterrato il castello dalle macerie delle proliferazioni illegali.
Nell’Italia della crisi economica l’etica viene dileggiata come bene di lusso: gli uffici per la conservazione dei monumenti sono da decenni mal equipaggiati, sotto-strutturati per quanto concerne il personale, gli stipendi sono miseri - il che li rende ambienti non solo inclini alla corruzione, ma anche all’indifferenza e in ultima analisi capri espiatori per tutti. In particolare li espone a coloro che desiderano cementificare l’ultimo resto del paesaggio italiano e svendere i beni culturali.
Il giardino di La Favara-Maredolce ha in sé qualcosa di irrealmente pacifico, gli uccelli cinguettano, lucertole fanno crepitare l’erba e nel lago nuotano delle tartarughe. Ad oggi solo pochi palermitani sanno che questo castello dell’XI secolo con il suo giardino era un luogo lodato dai letterati arabi per la sua bellezza: una residenza unica, omaggiata non per ultimo per la sua posizione sul bordo di un lago che un tempo era così grande da essere chiamato mare dolce. Per secoli la residenza è stato il luogo d’incontro di filosofi, intellettuali e letterati. Il significato architettonico di questo castello è pari a quello di altri monumenti arabo-normanni della città. Come la residenza estiva La Zisa ad ovest di Palermo, è da annoverare tra il patrimonio culturale mondiale.
I palermitani collegano con il nome La Favara-Maredolce qualcos’altro: nel fitto boschetto di aranci del giardino nel 1992 fu nascosto l’esplosivo per l’attentato al giudice antimafia Giovanni Falcone. Ad oggi Brancaccio viene considerato dominio dei fratelli Graviano, che hanno relazioni fino ai vertici dello Stato e tirano le fila dalla detenzione in regime di massima sicurezza. Sono stati loro ad aver ordinato nel 1993 l’assassinio di Padre Giuseppe Puglisi: Brancaccio divenne sinonimo dell’omicidio di un prete che esortava alla resistenza alla mafia e fu giustiziato con un colpo alla nuca da un commando killer in pieno giorno.
Proprio questo contrasto tra bellezza e orrore rende unico il giardino di La Favara-Maredolce. Dal letame nascono i fiori, cantava un tempo Fabrizio de André. E comunque rimane conservata l’idea originaria dei creatori arabo-normanni - il paesaggio realizzato artificialmente si fonde con gli elementi naturali, cosa che non si può affermare di altri edifici arabo-normanni a Palermo. Assediati da grattacieli, in mezzo al cemento delle tangenziali, non lasciano più intravedere nulla di quel gioco tra architettura e paesaggio che stava alle loro origini. Più che dalla guerra, il volto di Palermo è sfregiato dalla gigantesca speculazione edilizia mafiosa che iniziò negli anni ‘50 e che l’ha sfigurata: proliferazione edilizia fin dove arriva lo sguardo. Della Conca d’Oro, la cui bellezza fu lodata dai poeti arabi fino a Goethe - lo storico Fernand Braudel la paragonò al paradiso terrestre -, rimangono solo il giardino La Favara-Maredolce e uno dei boschetti di mandarino nel vicino quartiere di Ciaculli.
Al gruppo di lavoro interdisciplinare di La Favara-Maredolce appartiene anche il docente universitario e agronomo Giuseppe Barbera. In lui, nonostante la giacca in principe di Galles, si intravede ancora il giovane dinoccolato che nel 1965 visse in prima persona come il giardino, in cui la sua famiglia e molti altri palermitani abitualmente trascorrevano l’estate, nel giro di notte venne fatto scomparire dalla superficie terrestre: un nuovo piano regolatore prevedeva al posto del giardino una tangenziale. I piani regolatori sono i piani edilizi del potere: a Palermo molte tangenziali terminano in strade a una corsia, nel sobborgo di Mondello una strada a quattro corsie spunta dal nulla e termina dopo mezzo chilometro in un strada sterrata. L’aveva voluta un boss.
Giuseppe Barbera ha scritto un libro sulla distruzione del quartiere, sul fatto che tra il 1955 e il 1975 più di 300 milioni di metri cubi di cemento sono stati versati sopra Palermo. Centinaia di chilometri di asfalto seppellivano ogni anno un milione di metri quadrati di terreno e annientavano un milione di alberi - il tutto in un clima di indifferenza generale, con un arcivescovo che definiva pubblicamente la mafia come un’invenzione dei comunisti. Giardini, palazzi nobiliari, e ville in art nouveau furono distrutte. Responsabili furono Salvo Lima, luogotenente del presidente del consiglio Andreotti, condannato per associazione mafiosa, e sindaco di Palermo, ucciso nel 1992 dalla mafia. E da non dimenticare: Vito Ciancimino, primo referente per l’edilizia che in quattro anni ha distribuito 4200 concessioni edilizie di cui 3300 a quattro prestanome, un commerciante ambulante, un guardiano notturno e due muratori. Tutti e quattro analfabeti.
In Puglia, nel tacco dello stivale, alla speculazione edilizia sono d’intralcio 70 milioni di ulivi: da quando il Salento, la parte meridionale della Puglia, è stato scoperto dal turismo, una gran parte della costa sta sotto tutela ambientale, e gli speculatori si infiltrano nell’entroterra. In un paesaggio il cui volto è segnato da millenni da boschetti di ulivi - e non da complessi alberghieri, campi da golf, superstrade, centri commerciali, luoghi di vacanza, che possono essere costruiti solo se gli ulivi protetti sono eliminati. Nell’autunno 2013 la Xylella fastidiosa, un’oscura malattia, ha colpito gli ulivi. In particolare nella regione attorno a Gallipoli alcuni ulivi hanno perso le foglie, rami seccati si protendono verso il cielo, è come se qualcuno avesse sparso il defoliante Agent Orange. E con questo ci si avvicina probabilmente molto alla realtà, perché l’invasione dei batteri ricorda la trama di un romanzo poliziesco - ad averla scoperta sono stati degli ambientalisti del Salento e perfino Rai1 ne parla nel proprio notiziario principale: a monte c’è nel 2010 un congresso all’università di Bari a cui partecipano anche ricercatori da Berkeley che lavorano per la multinazionale americana delle sementi Monsanto. Per fini di ricerca nell’ambito di un workshop, hanno portato con sé la Xylella fastidiosa e mettono in guardia dal battere killer che rappresenterebbe un pericolo per gli ulivi. Gli agricoltori pugliesi si meravigliano: fino ad ora il battere ha colpito vigne e agrumeti, ma mai uliveti. Tre anni dopo il congresso in Salento compaiono i primi casi ulivi seccati. E la Procura constata che non esiste un protocollo legale sull’annientamento di questo batterio killer, arrivato per scopi di ricerca.
Gli ulivi centenari della Puglia sono sì inseriti in un catasto, un registro che annota luogo ed età di ogni singolo albero - ma non li protegge: normalmente per ogni ulivo abbattuto ne deve essere piantato un altro, ma questa regola non vale se l’ulivo in questione è malato. In questo caso si può costruire sul terreno occupato dall’ulivo. Inoltre ci sono denari dell’Unione Europea per la rimozione degli ulivi malati - e in questa situazione ad alcuni l’invasione del batterio killer non sembra mai abbastanza veloce.
Soprattutto i soldi dell’Unione Europea sono per i beni culturali italiani più una maledizione che una benedizione. A Pompei prima di ogni lavoro di restauro c’è un bando pubblico. E con questo inizia la brutta storia. Prima c’erano intere squadre di artigiani che conducevano regolarmente lavori di restauro a Pompei e conoscevano le tecniche del caso. Oggi le case di Pompei crollano perché sono state restaurate male, con cemento e cemento armato, che con la pioggia si sbriciola. “I lavori di restauro hanno fatto più danni del Vesuvio” dice Gigi Ciancio, che in quanto funzionario sindacale conosce bene i retroscena della fallita salvezza di Pompei. Così bene che il sindacato lo ha esonerato dal suo ruolo.
L’Unione Europea ha messo a disposizione per il “grande progetto Pompei” 105 milioni di euro, di cui fino all’estate 2014 era stato richiesto solo un quarto. Ciò che non viene speso entro la fine del 2015, viene rispedito a Bruxelles. Assurdo? No, dice Gigi Ciancio. Il problema sono non solo gli impresari che vengono esclusi dal bando di un lavoro di restauro. Bensì anche i vincitori del bando. Tanto gli esclusi quanto i vincitori continuano la battaglia con mezzi giuridici: gli esclusi impugnano il bando di fronte al tribunale amministrativo più alto. E i vincitori, che nella maggior parte dei casi hanno vinto grazie a prezzi ribassati, impugnano il contenuto del bando perché affermano che il materiale richiesto è inadeguato. Ci si accorda o con mazzette o per vie legali. Il tribunale amministrativo ha tre gradi di giudizio, poi c’è il consiglio di stato. In questo modo i lavori restano bloccati per anni. E a Pompei le case continuano a crollare. E i soldi tornano a Bruxelles.
Uno che come nessun altro da decenni lotta contro la cementificazione del paesaggio, il tramonto delle città vecchie e la privatizzazione dei beni culturali italiani è Salvatore Settis, archeologo, storico dell’arte, giurista ed ex direttore della Scuola Normale di Pisa. “L’armonia secolare di città e paesaggio, che fece diventare l’Italia il giardino d’Europa, è morta di una morte violenta. I suoi assassini non sono stati dei barbari invasori, ma gli italiani dimentichi di se stessi e sprezzanti delle leggi”, dice Settis. Lui ha scritto pamphlet, consigliato e stroncato ministri, tiene conferenze in tutto il mondo ed esorta gli italiani alla resistenza. Indignatevi!, grida, indignatevi perché la distruzione del volto dell’Italia viene coperta da etichette menzognere, su cui sta scritto “modernizzazione” o “sviluppo”. Indignatevi perché l’evasione fiscale è protetta, la corruzione favorita e alla mafia vien dato ampio spazio! Indignatevi perché basta un tratto di penna di un sindaco per cambiare un piano regolatore o la destinazione d’uso di un edificio e moltiplicarne così il valore!
Quando Giulio Tremonti, ministro dell’economia di Berlusconi, nel 2002 introdusse una legge che prevedeva di trasformare il patrimonio culturale di proprietà dello Stato italiano in un enorme fondo immobiliare, la Repubblica sentenziò indignata: “La Bella Italia è in vendita!” e deplorò che il governo Berlusconi annusasse nei beni culturali italiani “il petrolio dell’Italia”. Oggi la vendita di beni culturali avviene in armonia sovra-partitica, da destra a sinistra.
Nel suo pamphlet Se Venezia muore Settis lamenta la svendita di Venezia - a cui preparò la strada già nel 1995 Massimo Cacciari,corteggiatodai media come “sindaco filosofo”, quando pubblicò un manifesto con il titolo Privatizzare Venezia. Detto, fatto. Oggi tutta Venezia è in vendita. Palazzi, isole, monumenti artistici: si deve far fuori tutto. “Privatizzazione significa che i genitori mandano sulla strada la loro figlia”, dice Salvatore Settis, mai impacciato quando si tratta di bei paragoni. “Ma oggi non siamo più poveri che nel 1945!”
Una delle migliori prestazioni di Giorgio Orsoni, sindaco di Venezia dimissionario per il suo coinvolgimento in uno scandalo di corruzione, è la svendita del Fondaco dei Tedeschi, un tempo sede dei commercianti tedeschi. Orsoni ha reso possibile che l’edificio rinascimentale potesse essere svenduto per 53 milioni di euro al Gruppo Benetton che lo trasformerà in un centro commerciale e lo ha affittato al gruppo francese del lusso LVMH del multimiliardario Bernard Arnault. Un affare, perché il valore sul mercato dell’edificio è valutato in 124 milioni di euro. La prossima primavera è prevista l’apertura del megastore. Ma perché un’azienda dovrebbe rifiutare un’offerta che il sindaco di Venezia presenta su un piatto d’argento e che è stata approvata in velocità dalla sovrintendente per i beni culturali?
Di fronte a tutto questo si può capire un po’ meglio perché i politici italiani fino ad oggi ricorrano alla metafora del petrolio quando parlano dei beni culturali italiani. Hanno reso molti molto ricchi.
Articolo pubblicato in Germania, DIE ZEIT, /25.06. 2015
Salve, sono calabrese e vivo in Germania, mi occupo di criminologia sia in Germania che in Italia. Seguo da anni gli interventi polemici di Petra Reski e Francesca Viscone sul lavoro di Francesco Sbano e Andreas Ulrich, ho letto gli articoli della Viscone, della Reski e dei loro amici giornalisti pubblicati sul Fatto Quotidiano e sul Quotidiano di Calabria, sullo Zeit tedesco. Ho assistito al concerto di "Mimmo Siclari e Cantori di Malavita ad Amsterdam", ho visto la presentazione del film di Sbano "Uomini d’Onore" allo Zollverein di Essen, il maggiore oggetto dell’UNESCU in Germania. Inoltre, ero presente ad Amburgo alla presentazione del libro di Giuliani dal titolo „Malacarne“. Ho riletto i reportage di Ulrich e Sbano pubblicati da Der Spiegel e vorrei spezzare una lancia per i due reporters. Da criminologo sono stato sempre sorpreso dalla estrema volontá di Sbano e Ulrich di rompere con il mito della mafia. E lo fanno da sempre.
Per me é stato facile capire i veri motivi della polemica dal momento che capisco anche il tedesco. Attraverso la lettura delle informazioni in lingua italiana e tedesca si capisce bene che la Reski e la Viscone attaccano Sbano solo per aver occasione di parlare delle proprie pubblicazioni e cosí aumentarne le vendite. Proprio come ha scritto Sbano qualche anno fa su Calabria Ora.
Penso di essere ormai in grado di spiegare nei tempi il persorso di questa vera e propria caccia alle streghe condotta dalla Reski, dalla Viscone e dai loro amici, che mai esitano a strumentalizzare per i propri fini il lavoro dei due ormai celebri reporters Sbano e Ulrich. La campagna diffamatoria tenta di macchiare Sbano della „colpa“ di aver prodotto la Musica della Mafia e di averla pubblicata in tutto il Mondo, diffondendone cosí i valori mafiosi. Reski e Viscone fanno volontariamente un errore, raccontando i fatti a proprio modo. In realtá Sbano non ha prodotto i pezzi della musica della mafia ma ha prodotto, con brani giá da tempo esistenti, le tre compilazioni che hanno guadagnato tanto successo proprio perché i produttori non hanno tentato di nascondere i contenuti dei testi delle canzoni, stampandoli in tre lingue nei libretti di 36 pagine che accompagnano i CD. Anche i numerosi articoli sulle canzoni della ’ndrangheta hanno sempre posto in primo piano il contenuto dei testi. In effetti si tratta di preziosi documenti che descrivono il fenomeno mafioso dall’interno. I concerti di „Siclari e cantori di malavita“ sono stati stavenduti in Germania, Olanda, Belgio e Svizzera. Da notare che i testi delle canzoni eseguite sono stati proiettati nella lingua locale sullo sfondo del palcoscenico.
Ma parliamo di "Malacarne", il libro fotografico, con inserite le canzoni della mafia, di Alberto Giuliani. Le polemiche iniziate dalle due autrici Reski e Viscone affermano che l’editore e Sbano hanno preso in giro gli autori dei testi, come Roberto Saviano e Nicola Gratteri, nascondendo il contenuto musicale del libro. Mi chiedo come sia possibile che nemmeno il fotografo Alberto Giuliani ne fosse a conoscenza, come affermato nei due articoli ai quali si rifanno Reski e Viscone all’attacco di Sbano. La veritá? A curare il progetto grafico del libro é stato proprio Giuliani, e siccome nel libro oltre a due CD ha inserito anche una decina di pagine con i testi delle canzoni mafiose, come fa Giuliani a dire di essere stato all’oscuro delle canzoni contenute nel libro? Oltretutto, gli articoli pubblicati dal Fatto Quotidiano e dallo Zeit sono usciti almeno due giorni dopo la presentazione ad Amburgo di "Malacarne", dove erano presenti sia Alberto Giuliani che Francesco Sbano. I libri non sono mai stati tolti dal mercato, sia in Italia che in Germania, e sono attualmente venduti nella versione integrale, inclusi io CD con le canzoni della mafia. Nel frattempo, alcuni giornalisti amici della Reski hanno portato avanti la polemica, continuando sospettosamente a non porre mai domanda al merito a Sbano. Sono convinto che sia la Reski che la Viscone non lavorano in modo pulito. Sapete perché? Tutta la polemica contro Sbano si basa sul libro della Viscone, sempre indicato dalla Reski alla stampa tedesca, come prova del „mal lavoro“ di Sbano, dal titolo „La Globalizzazione delle cattive Idee“. Nel libro la Viscone adotta un metodo di lavoro del tutto illegittimo: senza chiedere il permesso a chi detiene il diritto d’autore dei testi di 18 canzoni (dalla trilogia „La Musica della Mafia“), piú diversi articoli (New York Times, Spiegel, Frankfurter Allgemeiner Zeitung, ecc.), li fa stampare sul suo libro. Francesca Viscone li ha tradotti continuando a rifiutarsi di chiederne il permesso agli autori, e alla fine li critica come solo una maestrina potrebbe farlo: distribuendo bacchettate sulle mani di chi si é permesso di parlare del fenomeno musicale calabrese, senza prima averne discusso con la sua persona. Per la Viscone le canzoni della Mafia non sarebbero mai dovuto esistere, e non riesce nemmeno a capire che i calabresi citati dai giornalisti sono quelli che fanno parte della societá parallela, quella vicino alla mafia. Insomma Viscone ha letteralmente rubato agli autori il loro lavoro e dopo averlo manipolato per benino lo rivende anche nel suo libro. Non appena le testate internazionali si accorgeranno della truffa, l’editore della Rubbettino e la Viscone verranno sicuramente denunciati dalle autoritá competenti. Qui vale la pena citare anche la persona che ha presentato l’uscita calabrese di un libro del genere. Si tratta di Pino Arlacchi. Sí, proprio quel Pino Arlacchi che nel 2002 fu allontanato da Kofi Annan dalla guida dell’ufficio dell’ONU di Vienna per la lotta contro mafia e corruzione. Secondo l’informazione Arlacchi avrebbe perso la sua poltrona a Vienna perché, invece di fare il proprio lavoro, avrebbe pensato bene di corrompere l’uno o l’altro personaggio politico regalando loro delle costosissime crociere a bordo di un veliero d’epoca! http://www.iowatch.org/archive...
Alla Reski ha pensato giá Andreas Ulrich, pubblicando una recensione sullo Spigel riguardo il suo ultimo libro „Sulla strada per Corleone“. Reski é paragonata qui a „Spider Woman in lotta contro la mafia“.
http://www.spiegel.de/kultur/l...
Leggendo il libro, Ulrich si accorge delle lunghe descrizioni della stupefacente automobile, un’Alfa Spider, con quale l’autrice viaggia dalla Germania fino a Corleone. Ulrich sospetta che Reski faccia nel suo libro pubblicitá all’automobile e chiama il dipartimento marketing dell’Alfa in Germania. La conferma arriva subito: „Sì, siamo stati noi a prestarle l’Alfa Spider“. Cosí, da una parte la Reski ha potuto viaggiare in Italia con l’Alfa Spider, dall’altra parte ha fatto pubblicitá alla casa automobilistica. Ma da quando in qua si usa fare pubblicitá nascosta in un libro di diffusione scientifica? La Reski, fortemente rammaricata dall’articolo ha pensato bene di correre ai ripari almeno con la pubblicazione italiana del libro. Ed ecco perché lí, stranamente, appare l’Alfa Spider in copertina.
http://www.petrareski.com/buec...
La Viscone non solo afferma la legittimitá dell’operazione di pubblicitá nascosta perpetuata dalla Reski. Non contenta, attacca anche l’introduzione scritta da Andreas Ulrich del nuovo libro di Sbano „L’onore del Silenzio/Die Ehre des Schweigens“. Ulrich é accusato di chiamare gli attivisti del movimento anti-mafia „il circo ambulante dell’anti-mafia“, scatenando la rabbia nel cuore dell’insegnante Viscone. Ma, cara Viscone, ha per caso dimenticato che giá nel 1987 il siciliano Leonardo Sciascia aveva scritto esattamente la stessa cosa sugli attivisti antimafia nel suo indimenticabile articolo sul „Corriere della Sera“, „I professionisti dell’antimafia“?
Sbano e Ulrich vengono inoltre accusati di un’ennesima "orrenda colpa" dalla coppia Reski-Viscone, perché i primi incontrano i boss della mafia quando svolgono i reportage sul tema. Un’altra "orrenda colpa"? Ma Petra Reski e Francesca viscone, come fate a chiamarvi giornaliste? Il metodo di Sbano e Ulrich é assolutamente legittimo e questo dovreste sapertlo. Non sapete che esistono le leggi sulla libertá di stampa come le leggi che regolano anche la protezione delle fonti informative da parte della stampa? Reski e Viscone, come fate ad ignorarlo? Perché vi scatenate ogni volta che Sbano pubblica un lavoro? State tentando di ristabilire la censura? Oppure sperate, comportandovi come due politiche in caccia di streghe, di occupare in futuro una delle poltrone nella commissione antimafia?
Cordiali saluti,
A. Cerasuolo