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ISRAELE. SIAMO ANDATI TROPPO IN LA’... CONTRO LA PULIZIA ETNICA DI (E NON SOLO) GERUSALEMME EST, UNA CAMPAGNA DI RICOSTRUZIONE!!! Intervista a Jeff Halper, coordinatore dell’"Icahd", il Comitato Israeliano contro la demolizione delle case palestinesi - a cura di pfls

domenica 8 luglio 2007.
 

Noi ricostruiamo...

-  Nel 40° anniversario dell’Occupazione, il Comitato israeliano contro la demolizione delle case palestinesi ha avviato una campagna di ricostruzione di tutte le case demolite, circa 300 l’anno.
-  Un ebreo ortodosso newyorkese, sopravvissuto alla Shoah, sempre più a disagio verso uno Stato degli ebrei da cui non si sente rappresentato, ha donato un milione e mezzo di dollari...

Intervista a Jeff Halper.

Jeff Halper coordina l’Icahd, il Comitato Israeliano contro la demolizione delle case palestinesi (www.icahd.org). Vive a Gerusalemme.

Per commemorare i 40 anni dall’inizio dell’Occupazione, avete lanciato una campagna in grande stile che prevede la ricostruzione di tutte le case palestinesi demolite. Puoi raccontare?

L’Icahd fa parte di una coalizione di gruppi pacifisti israeliani, che svolgono varie attività, all’interno della quale da tempo ci stavamo in qualche modo preparando a questo 40° anniversario. Noi evidentemente volevamo fare qualcosa che avesse a che fare, che enfatizzasse la questione della demolizione delle case. In realtà tutto è partito da un ebreo ortodosso di New York, un sopravvissuto all’Olocausto, che è entrato in contatto con noi. Lui ha manifestato il suo disagio per il fatto che Israele, che parla a suo nome -essendo lo Stato degli ebrei in qualche modo li rappresenta...

Ecco, lui ha detto: “Non mi rappresenta”. In particolare era molto colpito dalla politica di demolizione delle case palestinesi, che a lui ricordava quanto accaduto agli ebrei in Europa. Così ha espresso il desiderio di dare dei soldi affinché venisse ricostruita la casa a tutte le famiglie palestinesi a cui era stata demolita nel corso di quest’anno. A questo scopo ha dato un milione e mezzo di dollari.
-  Ora, Israele demolisce all’incirca 300 case all’anno. E questo significa che noi possiamo spendere sui 5-6000 dollari per casa. Ovviamente con questi soldi si costruisce una piccola unità, due stanze, un bagno, una cucina, non è molto, ma è funzionale, permette alle famiglie di andare avanti.
-  Così abbiamo dato inizio a questa campagna, coordinandoci con le altre iniziative per il 40° anniversario dell’Occupazione.
-  Nel corso di questo lavoro, è emersa una cosa interessante. Abbiamo infatti scoperto che la prima azione dell’Occupazione è stata la demolizione di una casa. Tra il 10 e l’11 luglio 1967, mentre la guerra era ancora in corso, le autorità israeliane arrivarono con i bulldozer e nel mezzo della notte sbalzarono dal letto 137 famiglie, e demolirono le loro case. E’ stato il primo atto dell’Occupazione, perché nulla aveva a che fare con la guerra, né con la sicurezza. Era semplicemente il primo “fatto sul terreno” che Israele metteva in atto per poi appropriarsi e controllare quello spazio. Infatti il tutto avvenne con una tale precipitazione che una signora anziana, bloccata in casa, morì sotto le macerie. Il suo era nome era Hajja Rasmia Tabaki. E’ la prima vittima dell’Occupazione.
-  Tutto questo avvenne nel quartiere Mughrabi (da Maghreb), il quartiere di Gerusalemme accanto al Muro, sorto 700 anni prima. Lo demolirono per fare una piazza. Ecco, noi in qualche modo abbiamo voluto tornare a quel momento, a quel luogo e l’11 giugno siamo andati nel quartiere Mughrabi. Ci sono ancora diverse famiglie nella zona, anche un Mukhtar originario di là. Per quanto spaventati, cercarono di tenere assieme la comunità.
-  Insomma, nel 40° anniversario della demolizione abbiamo voluto recarci in quel luogo per esprimere la nostra solidarietà a quella gente, per ricordare quel vicinato, la donna uccisa, per accettare pubblicamente le nostre responsabilità, in quanto israeliani, di ciò che fa il nostro governo. Anche allora infatti Israele cercò di giustificare la propria azione in termini difensivi, ossia addossando la colpa sui palestinesi.
-  In quella sede abbiamo annunciato il lancio di questa campagna: la ricostruzione di tutte le case palestinesi che sono state e verrano demolite quest’anno. Al contempo abbiamo firmato una lettera. Nel 1968, il Consiglio di sicurezza dell’Onu emanò una risoluzione, la 252, che intimava a Israele l’immediata sospensione del processo di unificazione della città, di annessione di Gerusalemme Est.
-  La risoluzione allora venne accolta all’unanimità con l’eccezione di Stati Uniti e Canada, che si astennero.
-  Ma comunque passò. Per cui abbiamo redatto e sottoscritto questa lettera, palestinesi e israeliani assieme, che abbiamo dato al rappresentante Onu. Siamo poi scesi in strada, e ci siamo recati nel quartiere musulmano dove la scorsa settimana è stata demolita una casa. E quella è stata la prima casa ricostruita; la casa di una famiglia con 10 bambini... Ora stiamo ricostruendo circa 20 case nell’area del West Bank e di Gerusalemme Est. Tutto questo avviene in aperta opposizione all’Occupazione e in un modo che non può essere ignorato. C’è anche la possibilità che chiudano l’Icahd, la nostra organizzazione, che mi mettano in carcere -eventualità che mi permetterebbe di finire finalmente il mio libro...
-  Comunque andremo avanti testa a testa con l’Occupazione...

Qual è il senso di ricostruire case che verranno verosimilmente demolite nuovamente? Suona un gesto molto gandhiano...

E’ così. Forse non tutte le case, ma sicuramente molte verranno nuovamente demolite. Negli ultimi anni abbiamo ricostruito circa 35 case. Metà sono state demolite, ma alcune, come la casa di Salim, sono state ricostruite anche tre-quattro volte.

Questa ricostruzione è un atto di resistenza politica, non è un gesto umanitario. Evidentemente se lo scopo fosse restituire la casa ai palestinesi, non avrebbe molto senso costruire case che vengono demolite. Sarebbe solo uno frustrante sciupio di soldi. Il punto è che stiamo compiendo azioni illegali. E’ illegale ricostruire queste case, per cui sia noi sia le famiglie palestinesi stiamo facendo della resistenza attiva.
-  Da questo punto di vista, è possibile che vengano di nuovo demolite, fa parte della repressione. Ma la ricostruzione per noi è appunto un’azione contro la repressione, è un modo per sollevare la questione della demolizione e dell’Occupazione.

Chi fa fisicamente il lavoro di ricostruzione?

Finora tutte le case sono state ricostruite da volontari israeliani, palestinesi e internazionali. Ovviamente non possiamo pensare di ricostruire 300 case da soli. Siamo in contatto con alcuni muratori palestinesi. Se le famiglie sono d’accordo, a Gerusalemme e nel nord e nel sud del West Bank, abbiamo dei lavoratori a contratto, che vengono e costruiscono le case per le famiglie. Non lo facciamo coi volontari, coinvolgiamo operai palestinesi usando i materiali palestinesi. Stiamo costruendo a Jenin, Hebron, dovunque demoliscano, eccetto Gaza, dove ora è impossibile.

Molti denunciano un processo di pulizia etnica, soprattutto a Gerusalemme Est...

E’ chiaro che è in atto una pulizia etnica. Negare a qualcuno una casa è un messaggio chiaro: “Fuori di qui!”. La casa poi è legata alla patria, parliamo quindi della negazione di un diritto individuale e collettivo -home e homeland...
-  Dal 1967 Israele ha demolito 18.000 case nei territori occupati. Ad oggi sono stati emanati circa 20.000 ordini di demolizione, solo a Gerusalemme Est. Praticamente su un terzo delle case di Gerusalemme Est pende questa spada di Damocle.
-  Israele ovviamente non può permettersi di demolire 20.000 case, non sarebbe accettabile. In inglese si usa l’espressione “keep under the radar”, nel senso di non finire nei giornali o in tv.
-  In questo senso si autolimita nella quantità di case che riesce a demolire, e poi appunto “randomizza”. Se a Gerusalemme ci sono 20.000 ordini, Israele ne distrugge “solo” 150... Beh, 150 case vuol dire minimo 150 famiglie quindi insomma non sono piccoli numeri, però a confronto di 20.000... insomma non c’è un criterio evidente: se tu hai ricevuto l’ordine un anno fa e io la settimana scorsa non significa che verrà demolita prima la tua casa. Girano per le varie città, distruggendo due case qui, due là, ecc., case che hanno appena avuto l’ordine, altre che ce l’hanno da dieci anni... Questo modo di procedere ovviamente semina la paura, sono tutti sottoposti a un senso di precarietà e insicurezza. Non puoi mai star tranquillo perché domattina potrebbero arrivare i bulldozer... E la paura funziona anche da deterrente alla costruzione di nuove case. Perché non bisogna dimenticare che è vero che ci sono 20.000 case su cui pende un ordine di demolizione, ma si stima che manchino ben 25.000 case, a Gerusalemme, nel settore arabo. D’altra parte le famiglie sono sempre più restie a costruire in un’area in cui si andrà incontro a scontri con l’esercito, il governo ecc. Insomma, funziona. Perché 20.000 famiglie hanno costruito, ma 25.000 no. Inutile dire che a Gerusalemme Est le condizioni abitative hanno raggiunto livelli di disagio estremamente gravi. Questo a sua volta spinge la gente a stabilirsi fuori da Gerusalemme e una volta che lasciano la città perdono la residenza, ora poi finiscono dall’altra parta del muro... E’ così che stanno “ripulendo” Gerusalemme dai palestinesi. Ed è così che molti palestinesi hanno deciso di lasciare il paese tout court. Si stima che più di 200.000 palestinesi abbiano lasciato il paese negli ultimi 5-6 anni.
-  Certo, qui pulizia etnica non significa che Israele carica la gente su dei convogli, è una pulizia etnica condotta in modo più intelligente e sofisticato, per cui alla fine sono i palestinesi a “decidere” di andarsene, e Israele non ne è responsabile.

Ora si sente parlare addirittura della “grande” Grande Gerusalemme, cosa sta succedendo?

Guarda, ormai si potrebbe parlare anche dell’“enorme” Gerusalemme. Come sappiamo da tempo c’è il progetto della Gerusalemme “metropolitana”, che include Ramallah e Betlemme, ma è un piano concettuale; non si tratta di annettere, ma di pianificare l’intera “regione Gerusalemme” in un modo per cui Ramallah e Betlemme saranno satelliti dipendenti della Grande Gerusalemme israeliana. Quindi c’è la Gerusalemme Municipale e la Grande Gerusalemme, e poi la Gerusalemme metropolitana che, ripeto, trascende l’annessione e ha a che fare con l’egemonia.

Come vengono giustificati gli ordini di demolizione? Funziona tutto in base a piani urbanistici, “zooning”, direttive amministrative, leggi...

In sostanza Israele ha classificato l’intera area di Gerusalemme Est come non edificabile, per cui i palestinesi possiedono la terra ma non possono costruirci. Anche nel West Bank è andata un po’ così, essendo per lo più considerata area per le coltivazioni agricole. Insomma, se un palestinese si presenta alle autorità israeliane con la richiesta di costruire una casa per la famiglia, si sentirà rispondere: “Mi dispiace, questo è terreno agricolo”. Così possono impedire ai palestinesi di costruire senza che questo costituisca una discriminazione. Ora, se invece si tratta di dar l’avvio a un nuovo insediamento israeliano si può convocare la commissione preposta alla pianificazione... e così, è ugualmente facile riconvertire una zona verde o adibita alla coltivazione in area edificabile. E di nuovo si può legalmente dare la terra ai coloni senza formalmente discriminare i palestinesi.

Eppure l’idea della pace in cambio dei Territori sembrava aver convinto gli stessi israeliani...

-  In realtà non aveva convinto Israele, che ovviamente non ha detto di no, ma...
-  Mi spiego, se parliamo della popolazione, guarda, io credo che gli israeliani siano pronti e anzi intenzionati a porre fine all’Occupazione. Il problema è il governo che, con Barak in particolare, ha portato avanti l’idea per cui comunque “non c’è un partner con cui fare la pace”, bisogna difendersi, eccetera. Così la popolazione pensa che sì, sarebbe disposta a rinunciare all’Occupazione, ma non può perché ci attaccherebbero. C’è anche da dire che l’opinione pubblica israeliana è stata in qualche modo disarmata, si sente impotente e spesso non sa, non vuole sapere cosa sta accadendo, vuole solo poter vivere la propria vita... Per quanto riguarda il governo, al piano Saudita ha detto sì, perché è interessato alla normalizzazione. La sua ambizione è infatti quella di raggiungere la normalizzazione senza rinunciare all’Occupazione. Questo, del resto, è ciò che ha fatto con la Giordania, con l’Egitto, che potrebbe fare con la Siria. La strategia di Israele è dire sì e poi...

Musharraf si è offerto volontariamente di venire in Israele a mediare. Voglio dire, il Pakistan ha riconosciuto Israele, lo stesso potrebbe accadere con i sauditi... E’ già in atto un processo di normalizzazione, ma alla fine restano due punti su cui Israele non accetterà mai un accordo: non tornerà entro i confini del ’67 e non permetterà il ritorno dei profughi palestinesi. Per cui, ripeto, Israele può dire sì, è un bel piano, e organizzare visite e incontri alla Knesset, ecc. alla fine però -di fatto- la risposta sarà no, ma in un modo che, come già accaduto, sembrerà che siano gli arabi ad essere irragionevoli. Purtroppo devo aggiungere che anche la Lega Araba fa parte del gioco. Loro hanno già capito cosa sta facendo Israele, sanno già come andrà a finire, semplicemente, per me, stanno fingendo di porre delle condizioni a Israele per accattivarsi le popolazioni arabe; fingono di fare i duri, per quanto già sappiano cosa accadrà.

Ma che chance rimangono a che nasca uno Stato palestinese?

Io non credo ne rimangano molte. Ed è per questo che i palestinesi si sentono davvero incastrati. E’ difficile... Se almeno ci fosse stata una leadership palestinese capace -ma anche qui: Israele ha ucciso o incarcerato tutti i potenziali buoni leader- in grado di articolare, anche sul piano internazionale, la soluzione dei due Stati: “Noi palestinesi siamo pronti a fare la pace con Israele, ma rivogliamo i territori occupati, non rinunciamo a Gerusalemme perché è il cuore economico, ecc., vogliamo dei confini...”. Insomma, avrebbero posto un caso in cui Israele davvero sarebbe stata molto in difficoltà... Credo che Israele continui a vincere anche per la mediocrità e insufficienza della leadership palestinese, sono passivi, non propongono nulla...
-  Oggi sta sempre più emergendo la proposta di un unico Stato. Anche questa è una proposta che potrebbe mettere Israele in imbarazzo. D’altro canto per i palestinesi significherebbe trasformare la lotta per la liberazione nazionale in una lotta per i diritti civili. Come in Sudafrica. E non credo siano pronti... I palestinesi in diaspora ne stanno parlando. I palestinesi qui sono ancora dell’idea di avere un proprio Stato. Questo è anche il problema di Gaza. Perché Stati Uniti e Israele hanno lasciato i palestinesi a scegliere tra Abu Mazen, cioè l’apartheid (Abu Mazen ha accettato l’idea di un bantustan) oppure i fondamentalisti.
-  I palestinesi “normali” vorrebbero solo veder rispettati i loro diritti in un loro Stato autonomo e praticabile, sono disposti a far la pace con Israele, ma allo stato attuale non c’è nessuno a rappresentarli. Questa del resto sembra la strategia degli Stati Uniti nell’intero Medio Oriente; dalla Somalia all’Egitto, dal Nordafrica al Libano, fino all’Iraq e all’Afghanistan, spingono le popolazioni a scegliere tra regimi di oppressione, come quello di Mubarak, e Al Qaeda o i Fratelli Musulmani. Così qualsiasi possibilità di una società progressista e democratica, nel modo arabo, sembra persa... I pochi leader democratici vengono uccisi o imprigionati o vanno volontariamente in esilio...
-  E’ questo il problema dei palestinesi, che non vogliono niente di stravagante, solo uno Stato democratico, e invece sono costretti dagli Usa e da Israele a scegliere tra Hamas e Abu Mazen, è come dover scegliere tra la peste e il colera!
-  Certo è che c’è stata una sistematica eliminazione delle forze democratiche in tutto il Medio Oriente.
-  Insomma, è un bel pasticcio! Tutti i musulmani democratici ormai sono in Europa!

Cosa pensi del boicottaggio degli accademici inglesi contro le università israeliane?

Noi lo sosteniamo. O meglio noi sosteniamo il boicottaggio accademico, purché si fermi a livello delle istituzioni. Non sosteniamo -ma mi sembra che gli inglesi non si siano spinti così in là- il boicottaggio degli individui, docenti e studenti. Questa per me è la linea rossa...
-  In generale comunque sosteniamo le azioni esterne, perché ci troviamo in una situazione in cui la pace non può venire da dentro Israele. Siamo andati troppo in là...

UNA CITTÀ n. 148 - quinto/2007


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