Politica

Il sindacalista Giuseppe Casamassima, opinionista autorevole, risponde all’appello di Emiliano Morrone al presidente Ciampi

Per proseguire il dibattito sull’isolamento della Calabria e lo spopolamento di San Giovanni in Fiore, il contributo di un giovane quanto acuto intellettuale
lunedì 16 gennaio 2006.
 

Caro Direttore,

ho letto anch’io, con molto interesse, la tua lettera del 07 gennaio scorso che, rimbalzando qua e là, ha determinato un vero e proprio effetto-onda dal punto di vista mediatico. Scrivendola, sei riuscito a suscitare un vivace dibattito che ha coinvolto anche altri media (stampa e TV) e, soprattutto, a far riflettere molta gente sulla realtà che sta sotto gli occhi di noi tutti. Credo, perciò, che la tua lettera offra un’occasione unica per iniziare a fare, finalmente, chiarezza su tutta una serie di aspetti storici, sociali ed economici - ancora aperti e mai risolti - che, per dirlo in una sola parola, si possono riassumere con il titolo di “questione meridionale”. Premetto subito che, spogliandomi della mia veste usuale di sindacalista, voglio parlare come un simpatizzante o, meglio, un portavoce dell’Associazione culturale delle “Due Sicilie”, che esiste ed è operativa anche qui a San Giovanni in Fiore. Ed è bene pure che tu sappia che anch’io sento come te (e come tanti altri cittadini) forte l’esigenza di arrivare presto a un netto superamento della vecchia, nostrana maniera, oramai sclerotizzata, di fare della politica la fabbrica del favore e di intenderla, di conseguenza, come un mezzo per giungere al proprio arricchimento personale, ovvero come un mezzo per...fare bottino, come direbbe il vecchio leone socialista, Giacomo Mancini, l’uomo che, portandoci quasi fin dentro casa una superstrada a scorrimento veloce, ha fatto sì che la nostra comunità florense uscisse fuori dal suo isolamento storico. A tal riguardo, ritengo pienamente fondate le tue critiche sul modo nefasto in cui è stata gestita la cosa pubblica negli anni del boom edilizio (1970-1985) e, anzi, credo che sarebbe veramente interessante aprire un’inchiesta, giornalistica intendo, per capire chi, oltre a certe ditte edili, ha guadagnato grossi lucri dalla compravendita di terreni e di aree di poco valore, anche perché soggette a rischio sismico, che sono state poi abusivamente edificate, grazie anche alla compiacenza dell’Ufficio Tecnico Comunale che ha chiuso entrambi gli occhi. Il risultato finale è stato una massiccia e brutale cementificazione che non ha risparmiato neanche un solo centimetro quadrato di verde; sicché, di pari passo ai nuovi quartieri che sembrarono sorgere come funghi, tutto l’agglomerato urbano si espanse in maniera sgraziata, brutta e irrazionale. Ora, poiché non possiamo mettere in atto un bombardamento aereo a tappeto, dobbiamo giocoforza riporre le nostre speranze, tutte incentrate sulla realizzazione di un’indispensabile risanamento urbanistico, nella rapida messa in opera del Piano di Sviluppo Urbano che la nuova Amministrazione Nicoletti si ritrova in mano, già bell’e finanziato, come eredità dell’Amministrazione precedente. Per quel che ne so, il PSU prevede delle misure di intervento importanti sia nei quartieri nuovi (in primis, nel male arredato viale della Repubblica), sia nel centro storico, che - se ben eseguite - di certo non mancheranno di migliorare sensibilmente la situazione esistente. Naturalmente, la nuova Amministrazione sarà chiamata a dimostrare la sua abilità nell’ottenere, per i prossimi anni, il ri-finanziamento del PSU per dare così continuità e sostanza a questi interventi sul tessuto urbanistico di San Giovanni in Fiore e, se è lecito sognare, anche per rendere fruibile al passeggio pedonale la cosiddetta “via dei fiumi” (dal vecchio ponte della Cona fino all’Olivaro). Riguardo poi alla tua denuncia delle carenze della nostra Pubblica Amministrazione, non v’è alcun dubbio che i servizi offerti siano di qualità assai mediocre; credo tuttavia che, insieme agli amministratori, siano responsabili anche coloro che hanno fatto il sindacato degli Enti Locali in quanto, a partire dal 1998, non sono stati in grado di superare le rispettive “ragioni di bottega” per utilizzare, attraverso la contrattazione decentrata, la liquidità del fondo locale per attuare la formazione professionale del personale e l’aggiornamento delle risorse umane, così come era indicato, del resto, dal CCNL di categoria. Ciò nonostante, sembra che l’attuale Amministrazione sia riuscita a stringere una apposita convenzione per dotare, finalmente, il nostro Comune di un proprio sito web e per rendere, quindi, accessibili in rete un certo numero di servizi. Questo rappresenta un primo passo in avanti, tanto più che la Burocrazia è un problema centrale per l’intera Calabria: una delle sfide più difficili che la nuova Giunta Loiero sta affrontando consiste proprio nel riuscire a snellire una Burocrazia che, blindatasi attorno ai suoi privilegi, oppone strenua resistenza al processo di decentramento e di trasferimento dei poteri, delle funzioni, delle competenze e delle risorse - umane, strumentali, finanziarie ed organizzative - dalla Regione verso le Autonomie e gli Enti locali. E, siccome siamo in Calabria, l’ammodernamento dell’apparato amministrativo non è indispensabile solo per tagliare dei costi improduttivi di mantenimento che gravano sulle nostre tasche e per togliere un fattore di ritardo e di intralcio allo sviluppo, ma anche per ripulire quell’ampia zona grigia in cui si realizzano pericolosi intrecci e connivenze fra la ‘ndrangheta e alcuni “pezzi deviati” di una burocrazia elefantiaca, inamovibile ed incompetente. Sul problema della Sanità, invece, non voglio entrare perché richiederebbe una lunga discussione a sé che qui non è possibile fare. Mi limito solo a dire che, personalmente, sono un convinto ammiratore del nuovo Assessore regionale alla Sanità, Doris Lo Moro, che finalmente - e per la prima volta in Calabria - ha cominciato ad affrontare nella maniera giusta i nodi cruciali della Sanità calabrese, comparto che da solo fagocita circa il 60% delle risorse di tutto il Bilancio regionale, lasciando, quindi, solo poche briciole al fondo per le politiche attive del lavoro e per le politiche sociali. Inoltre, va sottolineato il fatto che qui in Calabria la Sanità è sempre stata il luogo in cui si intessono gli “oscuri interessi” di lobby trasversali che hanno portato la nostra Regione ad essere, dopo il Lazio, la regione d’Italia con la più alta presenza di strutture sanitarie private (assorbono ben il 44% delle risorse): ma a questo vero e proprio saccheggio del denaro pubblico non corrisponde affatto alcun reale miglioramento della qualità e dell’efficienza dell’offerta dei servizi socio-sanitari destinata ai cittadini ! Infine, mi trovo in disaccordo con la tua accusa, mossa a Nicoletti e al centrosinistra, di aver vinto le passate elezioni solo in virtù dei favori dispensati e delle false promesse fatte circolare casa per casa. E mi trovo in disaccordo perché credo che, in fase di ballottaggio, molti elettori abbiano votato in considerazione del verificarsi di un favorevole allineamento tra il colore della amministrazione locale e quello del nuovo governo regionale, cosa che era mancata negli ultimi dieci anni in cui il nostro Comune (sempre di centrosinistra) ha trovato poco ascolto e le porte chiuse quando bussava a quattrini presso una Regione che, fatta eccezione per i 9 brevi mesi di vita della Giunta Meduri creata dal famoso “ribaltone”, è stata sempre guidata dal centro-destra (Nisticò, Caligiuri e poi Chiaravalloti). Questo allineamento deve essere ora la chiave di volta per risollevare le sorti di San Giovanni in Fiore e risalire la china. Pertanto, l’Amministrazione Nicoletti deve riuscire a tutti i costi a sfruttare nel migliore dei modi quest’asso di briscola che ha in mano e deve, quindi, sforzarsi di creare le condizioni per quella tanto auspicata “svolta strategica”, necessaria per invertire la terribile tendenza al declino che ha oramai segnato la vita della nostra comunità. Ma, detto tanto quasi a mò di chiosa su alcune delle questioni locali da te sollevate, ti confesso che mentre leggevo il “cuore pulsante” della tua lettera, cioè l’accorato appello al Presidente Ciampi, mi è venuto un pò da sorridere...Te ne spiego subito il motivo. Perché chiedere aiuto a Ciampi è come raccomandare le pecore al lupo...! Carlo Azeglio Ciampi, livornese e toscanaccio, - che non perde mai occasione per riempirsi la bocca di espressioni tronfie di retorica, quali “valore assoluto del Tricolore”, “Altare della Patria”, “indivisibile unità del Popolo Italiano” ecc. -, se predicasse veramente in modo onesto, come tu sostieni, non potrebbe più tacere oltre su alcune verità così palesi, eppure così proibite...! Quando a Capodanno ci racconta a reti unificate le sue storielle, Ciampi ancora ci dipinge il quadro dell’Unità dell’Italia con una tavolozza piena di colori idilliaci, sullo sfondo di una unificazione pacifica tra i buoni fratelli del Nord e quelli del Sud, che prima soffrivano perché divisi gli uni dagli altri. Ma, in realtà, l’intera operazione fu un’annessione militare compiuta con inganni, imbrogli e tantissima violenza. Questo Ciampi non lo dice. E tace anche sul costo di vite umane che comportò l’annessione del Sud al Piemonte: circa 150.000 morti fra i meridionali ! Ciampi e tutti i precedenti Capi dello Stato italiano non hanno mai parlato dei tanti giovani soldati meridionali che furono catturati dalle truppe piemontesi e imprigionati nelle fortezze-lager dei Savoia solo perché rimasero fedeli al legittimo re Borbone e rifiutarono di giurare fedeltà all’usurpatore Vittorio Emanuele II (che, peraltro, era tanto ignorante e analfabeta da non saper scrivere nemmeno il suo nome). Forse, quindi, è proprio nel nome del “Tricolore” che Ciampi ha sempre omesso di commemorare sull’ “Altare della Patria” anche il martirio di quelle diverse migliaia di giovani meridionali che furono deportati nel Castello di Fenestrelle, sulle Alpi, e ridotti a vivere in schiavitù a 1.200 metri d’altezza con una palla di ferro al piede di 16 kg, lasciati denutriti, vestiti solo di cenci di tela e senza alcun riparo di fronte alle gelide temperature invernali. Quando poi morivano (in quelle condizioni non resistevano più di tre mesi), i loro corpi venivano gettati in una fossa profonda e disciolti nella calce viva... E’ stata fatta luce sulle stragi di Auschwitz, sulle Foibe e sui Gulag, ma non sugli infami misfatti commessi in nome dell’Unità d’Italia a Fenestrelle dai Savoia: sono ancora secretati come un terribile Segreto di Stato. Infatti, di questo e di tanti altri orrendi crimini commessi ai danni dei meridionali il vecchio Presidente Ciampi non parla mai quando mastica la sua retorica patriottarda. E nemmeno fa un semplice accenno al fatto che, subito dopo l’Unità, il prezzo pagato per il decollo delle aree padane fu il disastro dell’economia del Sud d’Italia. E che, di conseguenza, tutti i mali presenti che oggi ci affliggono furono creati da quell’evento. E’ da allora che tutta la storiografia ufficiale si ostina a sostenere la tesi che il sottosviluppo meridionale sia un fardello che preesisteva al momento dell’unificazione della penisola. Questa è una spudorata menzogna. Il Nord non era né industriale né avanzato, ma profondamente agricolo con estese terre infestate dalla malaria (Vercellese, Val Padana ecc.) e, soprattutto, in gran parte soggiogato dalla dominazione straniera dell’Impero d’Austria (Lombardia, Veneto, Friuli, Alto Adige ecc.) e al limite dello spopolamento: i suoi abitanti pativano la fame ed emigravano in maniera costante verso l’Europa e l’America. Un’altra vasta area tosco-padana (la Toscana e i Ducati di Parma-Piacenza e di Modena-Reggio Emilia) era invece governata da regnanti designati dal gioco di equilibrio tra le grandi Potenze, mentre l’area romagnola e umbro-marchigiana si trovava, insieme al Lazio, sotto il Papa romano in uno stato di profonda arretratezza. Solo Genova, la Sardegna, i territori prealpini di Asti e Alessandria e le altre province di tradizione francese, come Nizza, Aosta e Torino, erano indipendenti sotto la dinastia dei Savoia. Insomma, per dirlo in una sola parola, si può sostenere che il Nord, tramontati gli splendori del Rinascimento, viveva una fase di profondo declino. Al contrario, nel Regno delle Due Sicilie nessuno moriva di fame né emigrava e, nonostante esistessero ancora vaste zone in cui le campagne erano soggette a una conduzione di carattere semi­feudale, si erano già affermati diversi e significativi distretti manifatturieri e industriali che in taluni comparti produttivi raggiungevano anche livelli di eccellenza. In altre parole, superata la secolare dominazione straniera (dopo la morte dell’imperatore Federico II, nel 1266, nel Sud comandarono in successione: i Duchi d’Anjou, i re Aragonesi, poi i Viceré spagnoli e, infine, gli Austriaci) il Regno delle Due Sicilie, dal 1735, con l’avvento del nuovo Re Carlo di Borbone-Farnese (che parlava in napoletano) era diventato uno Stato finalmente indipendente rispetto alle grandi Potenze europee e iniziò a trasformarsi in un grande Stato moderno. Inoppugnabile prova di questo prodigioso progresso del Regno delle Due Sicilie, che stava recuperando oltre 5 secoli di arretratezza, sono i primati raggiunti in molti settori civili, tecnologici e scientifici, che altrimenti sarebbero inspiegabili. Ad esempio, nel 1832 fu costruito sul fiume Garigliano (cioè qui in Calabria) il primo ponte sospeso in ferro d’Italia; nel 1839 fu costruita la prima ferrovia d’Italia, la Napoli-Portici, che precedette la prima ferrovia lombarda, la Milano-Monza, inaugurata dagli Asburgo (1840), la prima ferrovia veneta, la Padova-Vicenza (1845), la prima ferrovia piemontese, la Torino-Moncalieri (1848), e la prima toscana, la Firenze-Prato (1848). Inoltre, il 31 luglio 1852 fu inaugurato il primo telegrafo elettrico d’Italia; nel 1858 il telegrafo sottomarino tra Reggio e Messina; nel 1859 mediante cavi sottomarini furono realizzati dei collegamenti stabili con Malta e con Valona, da dove partiva la linea telegrafica per Costantinopoli e per Vienna. Questi primati segnati nel settore dei Trasporti e delle Telecomunicazioni furono poi implementati da quelli raggiunti in campo marittimo. Infatti, il Regno delle Due Sicilie giunse a possedere la più grossa flotta mercantile italiana (oltre 9.800 bastimenti) e la quarta di tutto il mondo. Nel cantiere di Castellammare di Stabia, che con 1.800 operai era il primo del Mediterraneo e, per grandezza, rivaleggiava con analoghi stabilimenti di Londra e di Anversa, erano state costruite le prime navi in ferro, poi le prime navi a propulsione meccanica (il primo vascello a vapore del Mediterraneo, il Ferdinando I, fu realizzato nel giugno del 1818 e precedette di quattro anni il Monkey, la prima vaporiera messa in mare dall’Inghilterra). Inoltre, nel 1841 fu terminata la prima rete d’Europa di Fari con sistema lenticolare, funzionale per aumentare la sicurezza della navigazione, e nel 1854 dai cantieri stabiesi uscì la prima nave italiana, il Sicilia, che arrivò poi a New York. E ciò non deve stupire perché Napoli, per grandezza e importanza, era la prima capitale d’Italia e, dopo Londra e Parigi, anche la prima d’Europa. Prima in Italia ad usufruire, di notte, della illuminazione di lampade a gas (1840), Napoli era la capitale dell’arte, della musica, della filosofia, della medicina, del diritto, delle scienze naturali. Basti qui ricordare che il San Carlo, che per prestigio competeva con l’Opera di Parigi e coi teatri di Vienna, è il più antico teatro lirico d’Europa: fu inaugurato nel 1737, cioè ben 41 anni prima del teatro della Scala di Milano e 51 anni prima della Fenice di Venezia. Inoltre, non possiamo non ricordare che nel Regno delle Due Sicilie esistevano quattro università: a Napoli, a Messina, a Catania e a Palermo, mentre a Milano la prima università, il Politecnico, fu fondata solo nel 1863 (cioè dopo l’Unità). Infine, a riprova della sua superiorità civile, il Regno delle Due Sicilie aveva anche la più alta percentuale di medici per abitante in Italia (9.390 su circa 9 milioni di abitanti) e il minor tasso di mortalità infantile. Dunque, non è affatto vero che il Sud era un blocco monocromo di arretratezza e di sottosviluppo. Dal punto di vista agrario, la bilancia commerciale era in forte attivo grazie all’esportazione verso l’estero di alcuni prodotti d’eccellenza (olio, vino, agrumi, formaggi) che arrivavano anche fino in Norvegia e a New York. In particolare, il Mezzogiorno aveva proprio allora acquisito quel suo caratteristico aspetto paesaggistico che lo contraddistingue ancora oggi: sterminate distese di ulivi che, nelle zone litoranee, giungono quasi fino alla spiaggia. Fu merito del re Carlo di Borbone che, introducendo delle agevolazioni fiscali per quei proprietari che avessero coltivato i loro terreni ad uliveto, trasformò tutto il Regno nella regione olivicola più importante del mondo. Dal punto di vista industriale, - in particolar modo nell’hinterland napoletano, nel casertano e in Calabria - il Regno borbonico era nettamente più avanzato del Nord d’Italia. Tra Settecento e metà Ottocento, lo stesso ambiente culturale e l’alta società della Napoli metropoli europea del tempo aveva favorito lo sviluppo di una manifattura di lusso assai ricercata e rinomata nel mondo: le due grandi fabbriche napoletane di vetri e cristalli competevano con Francia e Germania ed esportavano i loro prodotti da Tunisi fino all’America. La fabbrica di porcellane di Capodimonte (produceva zuccheriere, ciotole, caffettiere, boccali, tabacchiere, cucchiaini, scatole lavorate, statuine ecc.) era invece la punta di diamante di un comparto di circa 500 industrie di ceramica e materiali edili (comprese le famose piastrelle smaltate di Vietri) che davano lavoro a 36.000 operai. D’altro canto, il settore del tessile e abbigliamento aveva raggiunto uno sviluppo senza paragoni in Italia: l’industria cotoniera era diffusa un po’ in tutto il Regno, da Arpino e Sora (vi erano 32 fabbriche che impiegavano oltre 7.000 operai) fino alla Sicilia (l’industria Aninis-Ruggeri di Messina occupava un migliaio di operai), ma eccelleva nella Valle del Liri (circa 12.000 operai) e, soprattutto, nel comprensorio salernitano, in cui erano attivi 50.000 fusi nella lavorazione del cotone e oltre 10.000 addetti nelle fabbriche di tessuti. Al contrario, le punte massime di sviluppo raggiunte dal Nord erano rappresentate dai 414 operai della filatura Ponti in Lombardia, dai 1.600 operai degli stabilimenti di Biella e dai 3.744 occupati a Torino nelle industrie miste di cotone e lana. La lavorazione del lino e della canapa impiegava col sistema del lavoro a domicilio, diffuso nelle aree rurali, quasi 100.000 tessitrici e 60.000 telai. All’esposizione italiana di Firenze del 1861 lo stabilimento tessile di Sarno risultò essere il più grande della penisola nella produzione del lino. Infine, l’industria della seta comprendeva diverse filande in Calabria (che era la maggiore produttrice di seta grezza), in Lucania e in Abruzzo, ma il vero fiore all’occhiello era il noto opificio di San Leucio (600 addetti), presso Caserta, che riuniva in un unico luogo tutte le fasi di lavorazione: dalla coltivazione dei gelsi, all’allevamento del baco da seta, fino al manufatto finito. L’industria alimentare meridionale vantava i migliori pastifici d’Italia (da Gragnano a Crotone). I caseifici si distinguevano nelle lavorazioni del formaggio pecorino e della mozzarella di bufala, mentre i numerosi stabilimenti ittici sfruttavano l’abbondante pesce pescato, in particolare il tonno. Esisteva poi una vivace industria dolciaria in Sicilia e a Sulmona (confetti) e fiorentissime erano le attività di trasformazione del pomodoro (lo stesso Cirio era un piemontese che aveva deciso di realizzare un conservificio tra Pagani e Scafati). Ma il primato più importante era stato raggiunto nell’industria pesante, in quella siderurgica e metallurgica. Basti qui ricordare che, a Napoli, accanto alla Zino&Henry (specializzata nella produzione di materiale destinato alla cantieristica e di macchine cardatrici per l’industria tessile) e alla Guppy (seconda fabbrica italiana di prodotti destinati alla costruzione delle navi), esistevano le Officine di Pietrarsa, che erano in assoluto la più grande industria metalmeccanica dell’Italia del tempo: producevano torni, fucine, cesoie, gru, apparecchiature telegrafiche, pompe, laminati e trafilati, caldaie, cuscinetti, spinatrici, foratrici, affusti di cannone, granate, bombe e motori navali; ma soprattutto possedevano al pari della sola Inghilterra la tecnologia avanzata per costruire locomotive, vagoni e binari ferroviari. Era sorta nel 1840, ossia precedendo di 44 anni la costruzione della Breda e di 57 anni quella della Fiat ! Alla vigilia dell’Unità d’Italia, al Nord solo l’Ansaldo di Genova era al livello di grande industria; tuttavia, l’Ansaldo impiegava 480 operai di contro ai 1.050 di Pietrarsa. Bene, se tutto questo è vero come è vero, perché si continua a dire che il Sud era già da sempre arretrato e nel sottosviluppo ? Non è più ragionevole né credibile sostenere che tutta la colpa sia dei “perfidi” Borbone, nemici di ogni progresso ! Anche volendo prescindere dai fatti che dimostrano invece il contrario, c’è una domanda che non può non sorgere spontanea: come mai, allora, in 145 anni di vita sotto la guida più saggia del neocostituito Stato Italiano il Sud non è ancora riuscito a recuperare il suo presunto “ritardo storico” ? Se su questa risposta lo Stato italiano e i suoi Vertici, che di certo ignoranti non sono, continuano ancora oggi a edificare un castello di menzogne, allora vuol dire che esiste una grave ragione da tenere nascosta. Riflettendo però a mente serena, ci si accorge che la spiegazione di tali menzogne non può che essere questa: dalla conquista del 1860 fino ad oggi, il Sud è sempre rimasto una colonia delle elitès settentrionali ! La distruzione dell’economia meridionale e la conseguente riduzione del Sud al ruolo di colonia, funzionale al decollo dello sviluppo del Nord, fu una chiara opzione politica, deliberata a Torino tra la fine del 1860, durante l’occupazione garibaldina di Napoli, e la formale proclamazione dell’Unità (febbraio 1861) da parte del nuovo Parlamento. La scelta di estendere immediatamente il sistema doganale piemontese al Sud determinò un forte aumento della pressione fiscale: rispetto al livello del 1860, nel 1863 le tasse erano già aumentate del + 40%, nel 1865 del + 87%. Nuove e prima sconosciute imposte statali giunsero a colpire il consumo del pane, del sale, del vino, dell’olio e della carne. Bisognava pagare dazio anche per portare al pascolo qualche capra, per allevare un maiale, per camminare su un mulo o per guidare un carretto. Insieme al repentino impoverimento delle popolazioni meridionali, ciò determinò soprattutto l’inizio di un massiccio drenaggio degli ingenti capitali liquidi esistenti al Sud verso il Nord, dove furono utilizzati tutti per finanziare il nascente sviluppo industriale padano: dal 1860 al 1866, in appena sei anni, il Nord prosciugò il Sud di ben tre miliardi di lire-oro. Nello stesso tempo, avvenne il soffocamento delle industrie meridionali a causa della mancanza dei capitali e delle commesse, che il nuovo Stato italiano destinò per quasi il 95% alle industrie del Nord: le Officine di Pietrarsa non produssero più neppure una rotaia, mentre l’Ansaldo raddoppiò la sua produzione e le sue dimensioni. Alle ditte del Nord furono affidati pure i lavori pubblici da eseguire nelle province meridionali. Ma per togliere al Sud ogni centralità politica il nuovo Stato decise di chiudere con la forza le fabbriche borboniche sopravvissute: i macchinari industriali furono distrutti oppure requisiti e trasferiti al Nord; gli operai e i tecnici che tentarono di difendere le fabbriche furono caricati dall’esercito, uccisi, dispersi. Nel 1865 era rimasto in vita solo il cantiere navale di Castellammare. Nel Nord, invece, si assisteva al decollo del sistema industriale padano con l’Ansaldo, la Breda, la Fiat, l’Edison, la Montecatini e i Cantieri di La Spezia, che tra il 1860 e il 1900 passava da 15.000 ad oltre 100.000 abitanti. Intanto, anche il sistema monetario meridionale era stato distrutto in seguito a uno scellerato decreto del 17 agosto 1860 voluto da Garibaldi, che mise fuori corso il ducato napoletano, la solida moneta d’oro del Regno delle Due Sicilie che era assai più forte della svalutata lira piemontese (un ducato, che oggi varrebbe poco più di 16 euro, valeva allora 4 lire e 25 centesimi piemontesi). Con una legge del 24 agosto 1862 il nuovo Stato italiano riconfermò il corso forzoso della nuova moneta, la lira, e subordinò il Banco di Napoli alla nuova Banca Nazionale che era sull’orlo della bancarotta, a causa degli ingenti debiti contratti da Cavour con Francia e Inghilterra, cosicché l’indebitato Piemonte poté sopravvivere proprio in quanto incamerò le notevoli riserve auree custodite nelle casse del Banco di Napoli e da quello di Sicilia. Infine, nel 1863 il debito pubblico piemontese - che era oltre dieci volte più grosso di quello del Regno delle Due Sicilie - fu unificato con quello del resto d’Italia, ossia scaricato sul groppone del Sud. Invece, quasi tutta la spesa pubblica (scuole, strade, opere di bonifica ecc.) continuò ad essere concentrata al Nord. Nel 1864, con un semplice decreto, lo Stato Italiano espropriò e mise in vendita un milione di ettari di terre demaniali e di terre ecclesiastiche, che prima i contadini del Sud potevano prendere in fitto a canoni agevolati, e utilizzò il ricavato per il rilancio dell’agricoltura della Valle Padana. Sicché ai contadini del Sud, espropriati dalle condizioni oggettive del loro lavoro, cioè proletarizzati, non restò altro da fare che ricorrere alle armi e diventare Briganti. E poi, dopo che la loro Resistenza all’invasore fu repressa militarmente, trasformarsi in Emigranti e dare inizio alla diaspora dei meridionali. Dunque, l’emigrazione, questa penosa condanna che grava sulle popolazioni meridionali, non deriva da alcun metafisico Peccato Originale, bensì è il risultato storico cui ci ha condotto l’Unità d’Italia voluta dal Cavour e dai Savoia. Il definitivo tracollo del Sud avvenne nel 1887-1888 con la guerra commerciale dichiarata alla Francia dallo Stato italiano per difendere, con misure protezionistiche, i prodotti dell’industria nazionale che ormai era situata in prevalenza al Nord. La chiusura degli sbocchi esteri diede il colpo mortale all’agricoltura del Sud: e ciò è un’altra prova del fatto che essa non era un’agricoltura di mera sussistenza o di autoconsumo (cioè sottosviluppata), bensì un’agricoltura avanzata, di tipo mercantile e destinata all’esportazione (in primis, dell’olio di oliva). A questo punto, un’enorme massa di operai agricoli restò senza lavoro e non poté far altro che attendere sulle banchine del porto di Napoli il proprio turno per imbarcarsi sui piroscafi diretti verso Stati Uniti, Argentina, Canada e Australia. Il resto della storia fino ai giorni nostri risulta di facile comprensione se interpretata alla luce della categoria Conquistatori/Colonia, ovvero se vista come la storia dello sfruttamento delle lobby settentrionali ai danni del Sud e dei meridionali. In estrema sintesi, si può dire che alla data della Prima Guerra Mondiale (1914), dopo che la grande emigrazione transoceanica aveva in parte spopolato le campagne del Sud, l’Italia utilizzò per più di tre anni i contadini meridionali come fanteria sulle Alpi venete, ossia come carne da cannone in quella vera e propria carneficina che fu la lunga guerra di logoramento fra trincee e assalti alla baionetta. Nel prezzo finale, in termini di vite umane - circa mezzo milione di caduti sul campo e più di un milione di mutilati e di invalidi - la percentuale di sangue versata dai meridionali fu superiore a quella pagata dai figli del Nord per la liberazione delle loro città (Trento e Trieste). E come ricompensa i reduci meridionali, sradicati dalla loro terra per la Grande Guerra, non ottennero affatto quella tanto agognata riforma agraria che pure l’Italia aveva promesso loro di concedere. Ci pensò poi il fascismo a tenere tutti buoni e a ingannare di nuovo le speranze dei meridionali con l’abortita riforma Serpieri (1927). Ma non mancò di pretendere un altro grosso tributo di sangue e la spoliazione capillare - fatta casa per casa dalle camice nere - delle poche risorse rimaste in nome della Patria che entrava nella Seconda Guerra Mondiale. Il Sud uscì con le ossa rotte da quell’esperienza e poi dalla successiva occupazione da parte delle forze anglo-americane, che si attestarono per un biennio (1943-45) al di sotto della linea del Rubicone, depredando ogni risorsa disponibile come spese di riparazione per la guerra. In quegli anni, i boschi della nostra Sila furono rasi al suolo, trasportati al porto di Crotone e da qui imbarcati verso l’Inghilterra. I nostri monti apparivano spogli e aridi come un deserto pietroso. E’ solo merito degli operai forestali e dell’ex O.V.S., che realizzarono dal 1960 una larga opera di rimboschimento, se oggi la Sila si mostra di nuovo in quella misteriosa e suggestiva bellezza che colpì profondamente anche gli antichi colonizzatori della Magna Grecia. E poi venne il tempo della Repubblica (senza che, però, i Savoia fossero appesi a testa in giù come toccò a Mussolini: la scamparono e si trasformarono, dal loro esilio dorato di Ginevra, in mercanti di armi e in speculatori finanziari). E la Repubblica, dietro la mediazione del Vaticano, avviò la Ricostruzione, destinando al Sud solo le briciole. I meridionali iniziarono ad emigrare in massa verso il Triangolo industriale Torino-Genova-Milano e furono un esercito di manodopera a basso costo su cui il Nord fondò il suo Miracolo Economico. Le braccia del Sud furono per il Nord d’Italia quello che gli immigrati maghrebini furono per la Francia (anch’essa realizzò nei decenni postbellici una straordinaria fase di espansione industriale). I risparmi e le rimesse degli emigranti meridionali, attraverso i circuiti bancari e i depositi postali, introducevano invece linfa vitale nelle vene dello Stato italiano che, in segno di gratitudine (!), trasformò i meridionali più fortunati che erano rimasti al Sud nel mercato di smercio per i prodotti delle industrie del Nord e in un serbatoio di voti per i loro politici che, tranne qualche rara eccezione (in primis, Giacomo Mancini), sono stati solo i servi sciocchi delle lobby settentrionali. Si arriva quindi alla grande presa in giro della Cassa del Mezzogiorno, alla finanza fantasma degli interventi straordinari che, attraverso un gioco collaudato di scatole cinesi e di società finanziarie, faceva defluire al Nord il grosso dei fondi che dovevano essere investiti produttivamente al Sud. In realtà, lo schieramento che aveva le intenzioni più serie di creare le fabbriche al Sud, dove già esisteva la manodopera - ossia la sinistra democristiana (Dossetti, Fanfani), il PSI ed Enrico Mattei che era Presidente dell’ENI -, fu politicamente sopraffatto dalle forze che invece non volevano creare gli impianti produttivi al Sud: Confindustria, la Fiat, i dorotei della DC, l’intellighenzia economica della Bocconi. Sicché anche le infrastrutture, che si iniziò a costruire, spesso finirono per essere solo delle cattedrali nel deserto. Su questo, dal canto suo, il PCI non fece mai un’opposizione dura e seria: lontano oramai da Antonio Gramsci che nei “Quaderni dal carcere” aveva già analizzato il fenomeno della proletarizzazione del Sud come condizione necessaria per l’accumulazione di capitali nel Nord, il PCI era forse ancora condannato al silenzio dagli equilibri di Yalta (tranne poche eccezioni come, ad esempio, il nostro “compaesano” Paolo Cinanni). Infine, col compromesso storico ufficializzato sotto il governo Moro arrivò per il Sud anche l’Assistenzialismo che, passando attraverso logiche clientelari, bruciò flussi considerevoli di ricchezza in modo improduttivo. Era una soluzione aleatoria, poiché il prezzo da pagare era il costante allargamento del Debito pubblico. Infatti, tirata troppo, la corda un giorno si spezzò: l’Italia scivolò negli anni oscuri di Tangentopoli e delle cure dimagranti forzate, prescritte da una serie di maxiFinanziarie che erano e sono presentate come necessarie per il risanamento dei conti pubblici. Da questo terreno melmoso nacque la Lega Nord che, entrata nel Governo al seguito di Berlusconi, ha imposto allo Stato la devolution, una Riforma che ha ridisegnato anche la Costituzione allo scopo di ridurre drasticamente la spesa pubblica per il Sud d’Italia e di realizzare un decentramento di poteri e competenze, tale da assicurare la gestione di gran parte delle risorse dello Stato alle istituzioni del Nord (e, si badi, non la gestione delle sole risorse del Nord, ma anche di tutte quelle drenate al Sud !). Le stesse minacce di Secessione e le critiche verso Roma ladrona, avanzate dalla Lega Nord prima di realizzare la devolution, hanno svolto la funzione di spostare verso Milano una fetta maggiore delle entrate fiscali e una quota più significativa di gestione della spesa pubblica. Sicché, ora che il Sud sta oramai raschiando il fondo del barile e continua ancora a svolgere il suo ruolo di colonia del Nord, funzionale a produrre cervelli (il cui costo di produzione grava interamente sulle rispettive famiglie meridionali) da far poi emigrare - una volta terminato il periodo di formazione universitaria - presso aziende e strutture del Nord, ora i discendenti di quegli invasori padani e sabaudi, che sono stati la causa della rovina del Sud, ci umiliano oltremisura inventandosi una “questione settentrionale” ! E la inventano riproponendo, esattamente, la vecchia immagine del Sud come fardello di sottosviluppo che 145 anni fa il Nord si è generosamente accollato pur di fare l’Italia ! Solo che ora, a causa della globalizzazione, quel fardello si è trasformato in una pesante zavorra che impedisce al Nord di correre a velocità europea e di restare competitivo rispetto alle economie più dinamiche. Per converso, se negli anni appena successivi all’Unità i meridionali erano accusati di essere terroni e di razza inferiore rispetto ai polentoni, oggi il Nord li dipinge come un popolo di vagabondi e di mafiosi, per i quali è del tutto inutile che lo Stato si sforzi di investire al Sud e di creare le necessarie infrastrutture...E con questa motivazione ideologica si è data giustificazione politica al crescente taglio delle risorse destinate al Sud e al loro conseguente trasferimento al Nord. Si calcola che dal 2001 ad oggi - ossia da quando le Finanziarie sono ispirate dall’asse Berlusconi-Bossi-Tremonti - le risorse venute meno al Sud ammontino a quasi 5.000 milioni di euro. Pertanto, caro Direttore de “La Voce di Fiore”, la verità è che il sottosviluppo del Sud non è altro che il risultato storico dell’Unità d’Italia. La verità è che i governi italiani hanno condotto deliberatamente il Sud verso il sottosviluppo e la disoccupazione strutturale, ma di questo moltissimi meridionali non hanno ancora consapevolezza. Dopo il Regno D’Italia dei Savoia, è venuta la Prima Repubblica, poi la Seconda...ma i meridionali e, in particolare i giovani calabresi, sono rimasti tali e quali erano nel 1861, in quanto la loro vita è costretta a svolgersi dentro una sola alternativa: o Emigrante o...Brigante ! Ma questo Ciampi, il Presidente della Repubblica, non lo ammetterà mai. Le imprese calabresi e tutte le giovani iniziative imprenditoriali sono strangolate dall’attuale politica del credito e abbandonate allo strozzinaggio. Le Banche si limitano a rastrellare i risparmi del Sud per poi investirli al Nord, in quanto oramai la stessa proprietà delle banche meridionali appartiene a quelle del Nord (la BP di Crotone è del Credito Romagnolo, l’ex Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania poi Cariplo è oggi della BP di Bergamo e, ancora, il Banco di Napoli che sotto i Borbone era la banca più florida d’Italia è stato acquistato dal San Paolo di Torino). Su questo Ciampi, che prima di diventare Presidente è stato per lunghi anni anche Governatore di Bankitalia, non si è mai espresso con la dovuta chiarezza. Per tutte queste ragioni, anch’io vorrei che Ciampi venisse a San Giovanni in Fiore. Ma lo vorrei in base ad intenzioni affatto diverse da quelle che invece animano te. Innanzitutto, credo che Ciampi dovrebbe venire per fare un doloroso mea culpa, a nome dello Stato italiano, per tutti quei meridionali che, avendo dato vita a quella Resistenza che fu poi denominata “Brigantaggio”, furono trucidati all’ombra della Legge Pica. Emanata dall’Italia il 15 agosto 1863, contraria a molte disposizioni costituzionali, più terribile delle leggi speciali antiterrorismo emanate negli anni Settanta da Kossiga e oggi negli USA da Bush, la Legge Pica autorizzò l’esercito piemontese dislocato al Sud (120.000 uomini in assetto di guerra) non solo ad uccidere con pene esemplari i presunti briganti (era sufficiente solo un semplice sospetto o una delazione senza nessuna altra prova) e a lasciarli morti per terra senza dar loro neanche una umana sepoltura, ma anche ad arrestare i loro parenti e congiunti e, dopo un processo sommario, a condannarli alla fucilazione. Le loro case e l’intero villaggio, se sospettato di favoreggiamento, erano incendiati. Ecco, per tali crimini di guerra nessuno ha mai pagato e nemmeno istituito una Festa nazionale per onorare almeno la memoria di questi caduti (altre nazioni hanno indetto per simili eventi almeno un Giorno della Riconciliazione). In secondo luogo, Ciampi dovrebbe venire per porgerci le scuse ufficiali dello Stato italiano per come sono stati trattati i meridionali dal dott. Cesare Lombroso. Furono le cavie delle sue misurazioni e dei suoi esperimenti e, quindi, il materiale di sostegno delle sue teorie sull’inferiorità razziale dei meridionali. Oggi su ogni manuale di storia della scienza sta scritto che le teorie lombrosiane, che pure ai suoi tempi ricevettero credito anche negli ambienti accademici, sono ora considerate palesemente false e antiscientifiche. Ma si stende ancora un velo di silenzio sul fatto che il dott. Lombroso elaborò la sua antiscientifica Antropologia Fisica sulla pelle e sui crani dei meridionali, viaggiando nel Sud d’Italia al seguito dell’esercito piemontese, cioè italiano. Dunque, era alla guida di una spedizione scientifica inviata dal Piemonte, cioè dall’Italia, per studiare le popolazioni meridionali da poco colonizzate. Infine, chiederei a Ciampi di rendere conto, in quanto Capo dello Stato italiano, della fine che hanno fatto le industrie calabresi che esistevano prima dell’Unità d’Italia al tempo dei Borbone: le filande tessili che impiegavano 11.000 mila telai complessivi, i setifici che impiegavano 3.000 addetti e avevano il loro prodotto di punta nei damascati catanzaresi, le saline di Lungro che occupavano più di mille operai, le varie industrie estrattive, i pastifici di Crotone e Catanzaro dotati di impianti d’avanguardia azionati a vapore, le distillerie di vino e frutta, le produzioni di liquirizia e di tannino, le cartiere, le concerie e il diffuso tessuto di industrie manifatturiere (cappelli, pelletteria, mobili, saponi, oggettistica in metallo, fino ai fiori artificiali). Ma soprattutto di darci spiegazioni riguardo alla chiusura delle Reali Ferriere di Mongiana che producevano lavorando a pieno regime 13.000 cantaja di ghisa all’anno (1.167 tonnellate), materia prima, semi-lavorati e ferro malleabile d’ottima qualità. Ampliando delle fonderie già esistenti dal XIII sec. nel territorio di Serra San Bruno, verso la fine del 1840 si completò il primo Complesso Siderurgico della penisola italiana, che comprendeva tra Mongiana, Stilo, Nardodipace, Fabrizia e Ferdinandea un lotto di fonderie, ferriere, officine, forni di prima e di seconda fusione, boschi, segherie e miniere. Dopo la conquista del Regno delle Due Sicilie, lo Stato italiano dimezzò la loro produzione e poi la ridusse progressivamente per privilegiare le industrie del Nord d’Italia, finché il 25 giugno 1874 le Reali Ferriere calabresi furono acquistate all’asta dal Senatore del Regno d’Italia, Achille Fezzari, ex barbiere ed ex garibaldino, al prezzo base di lire 524.667 (i documenti sono custoditi nell’Archivio di Stato di Catanzaro). Dopo aver sfruttato quel che restava ancora in piedi, il Fezzari chiuse per sopravvenuto fallimento tutti gli stabilimenti nel 1881. Scomparve così un Complesso industriale che, oltre un secolo prima di quando Giacomo Mancini lottava invano per far nascere a Gioia Tauro il quinto polo siderurgico nazionale, era stato il primo e più grande polo siderurgico di tutta l’Italia. Solo venti anni dopo nacque l’ I.L.V.A. diventato poi (1960) l’Italsider. Oggi Fabrizia e Nardodipace sono fra i paesi più poveri della Calabria, Mongiana è un piccolo borgo con pochi abitanti e Ferdinandea è spopolata. E pochi sono i calabresi che sono a conoscenza delle ex Ferriere Reali, così come del fatto che, prima dell’Unità d’Italia, la Calabria non era una terra maledetta, ma la seconda regione più industrializzata del Sud dopo la Campania. Oggi le Ferriere di Mongiana sono completamente abbandonate e di esse si è persa anche la memoria. Personalmente mi batterò affinché i lavoratori di Fabrizia e Nardodipace, impiegati nel Progetto speciale “AFOR-Fondo Sollievo SCARL”, siano utilizzati per trasformare le vecchie Ferriere in un Museo di Archeologia Industriale visitabile ed aperto al pubblico.

A questo punto, caro Direttore, voglio aggiungere solo un’ultima postilla prima di concludere questa lunga lettera. Ti lamentavi, giustamente, della troppa illegalità galoppante che spiana il terreno alla mafia. Intanto, ti preannuncio (e ti inviterò pure a partecipare) che, insieme all’On. Antonio Acri, vicepresidente della Commissione regionale Antimafia, mi sto attivando per organizzare qui a San Giovanni in Fiore un Convegno sulla mafia e sull’educazione alla legalità, che vedrà anche la partecipazione dei ragazzi di Locri “E adesso ammazzateci tutti” e del Centro Studi siciliano “Peppino Impastato”. Intanto, però, sempre per amore della verità storica, bisogna dire che anche la mafia è un prodotto storico dell’Unità d’Italia. La camorra, che è la più antica di queste organizzazioni criminali, ha origini urbane. Nacque a Napoli durante la dominazione spagnola come un fenomeno di delinquenza comune limitato ai bassifondi della città, non dissimile da quelle “confraternite” di vagabondi e mendicanti che nella seconda metà del Cinquecento erano presenti, come società parallela avente proprie regole e un proprio statuto, in tutte le grandi città italiane ed europee. Era, insomma, un fenomeno di malavita popolare che si muoveva tra le carceri e il mercato, organizzando clandestinamente il gioco di carte della “morra” e che poi si specializzò nelle estorsioni: a Napoli per intendere il “pizzo” si dice “pagare a morra” e, fino a pochi decenni fa, anche nel dialetto calabrese e siciliano si usava il termine “camurria” per significare una violenza estorsiva. Talvolta, metteva proprie squadre di camorristi a disposizione di qualche “galantuomo” che ne richiedeva i servizi, prendendo esempio dalle bande di sgherri, chiamate “gamurri”, che stavano alle dipendenze dei signorotti spagnoli. Il salto di qualità, da malavita rozza e brutale a organizzazione criminale che si appoggiava parassitariamente alle istituzioni, la camorra lo spiccò subito dopo la fuga dei Borbone da Napoli. Il prefetto Liborio Romano, amico intimo di Cavour, per controllare eventuali sommosse filoborboniche in occasione del trionfale ingresso di Garibaldi a Napoli chiamò a rapporto un capo camorrista, un certo Tore ‘e Criscienzo, che rivestì insieme ai suoi degni compari con la divisa della Guardia Nazionale. Da lì in avanti la camorra riuscì a ramificarsi nei vuoti di potere presenti nel nuovo Regno d’Italia e a “mettere le mani” su Napoli. Il successivo salto di qualità avvenne poi alla fine della seconda guerra mondiale, quando l’arrivo degli Alleati, con le loro sigarette e le loro derrate alimentari, creò un intenso e redditizio mercato nero di cui la camorra si appropriò facendo lauti affari. Il resto è storia recente. Invece, in Sicilia, la Mafia ebbe un’origine agraria, strettamente legata al controllo e alla gestione del latifondo siciliano da parte di bande di campieri e gabellotti, ufficialmente “a servizio” della nobiltà terriera dell’isola. Ma l’organizzazione criminale siciliana, che nacque da quelle bande, deve il suo nome “Mafia” al fatto che i prefetti piemontesi fraintesero un aggettivo del dialetto siculo e lo utilizzarono impropriamente per designare i soprusi che commettevano le bande al servizio dei baroni. Tuttavia, il salto di qualità della Mafia siciliana avvenne al momento dell’Unità, quando fu chiamata in appoggio allo sbarco dei garibaldini a Marsala. I due luogotenenti La Masa e Rosolino Pilo precedettero Garibaldi in Sicilia, nel marzo 1860, proprio per cooptare i baroni (il cui strapotere era stato limitato dai Borbone) e le loro bande a sostegno della spedizione dei Mille. E, infatti, ai Mille si aggiunsero lungo la strada per Palermo tante bande di picciotti, facendoli più che decuplicare prima di arrivare alle porte della seconda Capitale del Regno delle Due Sicilie. L’infoltimento “banditesco”" delle colonne garibaldine proseguì poi nel tragitto da Palermo fino a Messina con la progressiva liberazione dalle carceri siciliane di tutti i delinquenti comuni che collaborarono con gli invasori e con i Baroni (si legga a tal proposito Il Gattopardo) per assicurare il mantenimento del nuovo ordine. Così la “Mafia” abbandonò i campi e i latifondi e, per la prima volta, fece il suo ingresso nelle città e nei gangli dello Stato. In occasione del secondo salto di qualità della Mafia, la storia sembrò ripetersi: con la mediazione del noto gangster Lucky Luciano e della CIA, i capi-mandamento dell’isola si attivarono a supporto dello sbarco degli Alleati. Infine, la nostra ‘ndrangheta che prende il suo nome da un altro grosso fraintendimento linguistico e semantico dei prefetti piemontesi: “ta agata andria”, un consiglio di anziani che nelle comunità grecaniche della locride era chiamato a prendere le decisioni collettive più importanti e a dirimere le controversie, fu lessicalmente storpiato e appioppato alle organizzazioni di affiliati volti a delinquere. Ma, in realtà, la ‘ndrangheta non ha né un’origine urbana, né è legata al latifondo (che nel reggino non esisteva), né tantomeno dall’eredità dei briganti, bensì nasce come evoluzione di quelle bande di sicari che, in provincia di Reggio ossia nella Calabria Seconda Ultra, stavano al servizio dei nobili e dei “galantuomini”. E infatti - molto più tarda della camorra e della Mafia siciliana - si costituisce e appare dopo l’Unità d’Italia, tra il 1887 e il 1890, e si definisce come una società di affiliati, ossia “picciotteria”, che trovò terreno fertile per crescere proprio nei vuoti di potere e nelle ingiustizie che produceva il nuovo Stato italiano.

GIUSEPPE CASAMASSIMA


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