«non accetto che un potere dello Stato voglia cambiare chi sta al governo»
«Vogliono darmi 6 anni e farmi dimettere»
Lo sfogo di Berlusconi con i suoi: come potrei continuare a governare con una condanna?
ROMA - Forse è l’unica parola che non ha ancora pronunciato in pubblico, che non è entrata nello sfogo di ieri, o in quello della settimana scorsa a Bruxelles. Ma è una parola che illustra un incubo, che spiega lo stato d’animo del premier meglio di qualsiasi discorso sul diritto di governare o sulla sovranità popolare minacciata dalle toghe. La parola è «dimissioni », e il Cavaliere non ha dubbi: «Questi magistrati vogliono darmi 6 anni e un istante dopo sarei obbligato a dimettermi ».
Non l’ha ancora detto in pubblico, ha girato intorno al concetto, ma chi chiacchiera in modo riservato con Berlusconi è proprio questo ragionamento che ascolta: «Come potrei continuare a fare il capo del governo con una condanna, con i risvolti interni e internazionali che avrebbe? Non potrei. E conterebbe poco il fatto che l’accusa dei magistrati milanesi è ridicola, che persino all’estero - compreso il liberalissimo Financial Times - si sono accorti che i magistrati italiani tengono da troppo tempo sotto ricatto la democrazia del nostro Paese ».
Ieri mattina, calcolo o meno, è anche questa paura che ha fatto da molla alle parole di Berlusconi davanti alla platea di Confesercenti. Alla definizione di una parte dei giudici come «metastasi della democrazia». Al gesto mimato delle manette: «Certi giudici vorrebbero vedermi così...». Appena finito di parlare il Cavaliere ha preso sotto braccio il presidente di Confesercenti, Marco Venturi, e ha continuato lo sfogo, anche per rispondere ai fischi: «Voi non avete ancora capito nulla, non avete capito che io difendo anche voi, i vostri interessi a vivere in un Paese non soffocato da un potere che non ha più nulla di legittimo, che tiene sotto scacco il Paese dal ’94: prima con me, poi con Mastella e Prodi, ora di nuovo con il sottoscritto ». C’era Veltroni in prima fila: poteva essere un deterrente, non lo è stato. Berlusconi è entrato pienamente, o rientrato se vogliamo, in quella fase che gli è caratteristica, congeniale, naturale: dire quello che pensa. Da alcune settimane ormai è in totale disaccordo anche con il suo primo consigliere, quel Gianni Letta che lui stesso tributa di onori ad ogni possibile occasione.
In queste ore Letta dice agli alleati che «Silvio sbaglia», che «ci vorrebbe meno aggressività », che «non è questo il metodo giusto». E in queste ore Berlusconi continua a fare di testa sua, a respingere i tentativi di mediazione condotti con un occhio alle ragioni del Colle, ai possibili obiettivi da raggiungere con un approccio più soft. Si è rimesso in moto il meccanismo che due legislature fa divideva la corte del premier in falchi e colombe. La differenza con il passato è il Cavaliere, che non ha più voglia di ascoltare grandi discorsi. Ieri lo ha spiegato anche dal palco di Confesercenti, per rispondere ai fischi. Ha reagito alle critiche con un «mi avete invitato voi...». Poi ha concluso avvertendo, assimilando il proprio disastro a quello del Paese: «Dicono che faccio leggi nel mio interesse. Ma io in politica sono sceso per difendere gli interessi degli italiani. Il mio interesse semmai sarebbe quello di lasciare il Paese e godermi i soldi meritatamente guadagnati».
E se questa è la cornice la presenza di Veltroni diventa invisibile: «Se questa opposizione non capisce, il dialogo si spezza. Lo hanno voluto spezzare loro, ma adesso non lo vogliamo più noi, sono ancora giustizialisti». L’Italia, conclude Berlusconi, è ormai «una democrazia in libertà vigilata, tenuta sotto il tacco da giudici politicizzati, ma i cittadini hanno il diritto a esser governati da chi scelgono democraticamente: non posso accettare che un ordine dello Stato voglia cambiare chi è al governo, con accuse fallaci».
Marco Galluzzo
* Corriere della Sera, 26 giugno 2008
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’AVVENTURA DI "FORZA ITALIA" E’ FINITA. BERLUSCONI LO ANNUNCIA A MILANO.
Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico ....
Dopo il "magnaccia" rivolto ieri al Cavaliere, in riferimento alle intercettazioni
il leader dell’Idv non fa marcia indietro: "Obbliga il Parlamento a fare leggi per lui"
Di Pietro, niente scuse a Berlusconi
"Lui deve chiederle agli italiani" *
ROMA - Il giorno dopo la bufera scatenata dalle sue dichiarazioni su Silvio Berlusconi, Antonio Di Pietro non chiede scusa al premier, per averlo definito "un magnaccia". Anzi. Infatti il leader dell’Italia dei valori, ospite di Lucia Annunziata nel programma tv In mezz’ora, sostiene che è il Cavaliere a doversi "scusare con gli italiani, perché in campagna elettorale ha detto che si sarebbe attivato per farli stare bene. E invece sta obbligando il Parlamento a fare leggi che servono a lui per suo interesse".
"Il mio sarà pure un linguaggio crudo - aggiunge Di Pietro - ma il suo è un insulto agli italiani perché quando ha un processo in corso si fa una legge per farsi salvare". Quindi "è il premier che si deve scusare con gli italiani anche perché non può fare telefonate al direttore della rete pubblica per cui noi paghiamo il canone per dire piazza questo, piazza quello".
Ieri il presidente del Consiglio, dalla Sardegna, ha reagito a quel "magnaccia" di Di Pietro dicendo ai suoi amici presenti "è un mascalzone". Mentre il suo avvocato difensore nonché parlamentare del suo partito, Nicolò Ghedini, ha annunciato querele.
* la Repubblica, 29 giugno 2008.
Zingari
di Furio Colombo (l’Unità, 27.06.2008)
Uno strano errore è stato commesso e ripetuto dai diversi schieramenti che, nel corso di 15 anni, si sono opposti, spesso con tollerante mitezza all’impero di Berlusconi (nel senso di tutti i soldi e tutte le televisioni con cui fa politica). È stato l’errore di dire e pensare che Roberto Maroni fosse il più umano e normale dei leghisti, niente a che fare con vergognose figure come Borghezio e Gentilini.
Un errore grande. Non c’è alcuna differenza fra Maroni e Borghezio o Gentilini. Il ministro degli Interni di un Paese democratico che ordina di prendere le impronte digitali di migliaia di bambini italiani o ospiti dell’Italia, solo perché quei bambini sono Rom, è fuori dalla nostra storia di paese libero. È estraneo allo spirito e alla lettera della nostra Costituzione, è ignaro del fascismo da cui ci siamo liberati e di cui ricordiamo con disgusto, fra i delitti più gravi, l’espulsione dei bambini italiani ebrei dalle scuole italiane.
È stato uno dei peggiori delitti perché quella umiliazione spaventosa a cui sono stati sottoposti i più piccoli fra i nostri concittadini ebrei, alla fine ha generato lo sterminio. Il ministro degli Interni non è così giovane e così ignaro, per quanto la sua formazione sia immersa nella barbara e claustrofobica visione leghista.
Il ministro dell’Interno sa, e non può fingere di non sapere che obbligare i bambini di un gruppo etnico (molti radicati in Italia da decenni, alcuni da secoli) alle impronte digitali vuol dire lacerare la nostra vita, spaccare e isolare dal resto del Paese una parte di coloro che vivono e abitano con noi. Vuol dire indicare a tanti, che hanno più o meno la sensibilità morale del ministro, “gli zingari” compresi “i bambini zingari” come estranei, reietti e degni di espulsione. Chi è indicato come “da escludere” diventa per forza qualcuno da perseguitare.
Si noti un particolare davvero disgustoso e non accettabile: l’impronta verrà presa prima di tutto e più facilmente ai bambini che vanno a scuola e verranno che marchiati di fronte ai compagni. E sarà una umiliazione grave per la Polizia italiana. L’ideologia conta poco e nessuno, salvo xenofobia e razzismo, conosce uno straccio di ideologia della Lega. Ma la decisione di sottoporre i bambini di un gruppo selezionato come nemico all’umiliazione delle impronte digitali è una decisione fascista.
Mi impegno a tentare con le mie prerogative di parlamentare di impedirlo. Chiedo ai colleghi Deputati e Senatori che si riconoscono nella Costituzione di volersi unire per difendere i bambini Rom, l’onore della nostra Polizia, ciò che resta della nostra civiltà democratica. Il ministro dell’Interno sa, e non può fingere di non sapere che obbligare i bambini di un gruppo etnico (molti radicati in Italia da decenni, alcuni da secoli) alle impronte digitali vuol dire lacerare la nostra vita, spaccare e isolare dal resto del Paese una parte di coloro che vivono e abitano con noi. Vuol dire indicare a tanti, che hanno più o meno la sensibilità morale del ministro, “gli zingari” compresi “i bambini zingari” come estranei, reietti e degni di espulsione. Chi è indicato come “da escludere” diventa per forza qualcuno da perseguitare.
Si noti un particolare davvero disgustoso e non accettabile: l’impronta verrà presa prima di tutto e più facilmente ai bambini che vanno a scuola e verranno che marchiati di fronte ai compagni. E sarà una umiliazione grave per la Polizia italiana. L’ideologia conta poco e nessuno, salvo xenofobia e razzismo, conosce uno straccio di ideologia della Lega. Ma la decisione di sottoporre i bambini di un gruppo selezionato come nemico all’umiliazione delle impronte digitali è una decisione fascista.
Mi impegno a tentare con le mie prerogative di parlamentare di impedirlo. Chiedo ai colleghi Deputati e Senatori che si riconoscono nella Costituzione di volersi unire per difendere i bambini Rom, l’onore della nostra Polizia, ciò che resta della nostra civiltà democratica.
furiocolombo@unita.it
Il danno e la beffa
di Gabriele Polo (il manifesto, 25.06.2008)
Bisogna dare atto a Silvio Berlusconi di aver compiuto un capolavoro. Malefico, ma un capolavoro. Va anche detto che non ha trovato molti contrasti, da un’opposizione parlamentare edulcorata a un presidente della Repubblica timorosissimo. Ma resta la sostanza del primo via libera parlamentare a un decreto sicurezza che mette insieme il danno e la beffa: il danno di misure repressive e a-costituzionali (ronde militari, espulsioni a pioggia, immigrazione concepita come pericolo sociale) con la beffa dell’impunibilità personale del premier spacciata come operazione di pubblica sicurezza.
Il capolavoro di Berlusconi consiste nell’aver creato (con la complicità di tv e giornali, e non solo quelli di proprietà) una doppia emergenza - pubblica e privata - su cui far passare un apparato di norme per cui i presidenti dei tribunali dovrebbero smontare dai loro tavoli quella vecchia scritta che recita «la legge è uguale per tutti». Di più. Il premier è riuscito a catalizzare su di sé (e sui provvedimenti che lo riguardano) tutte le attenzioni mediatiche e politiche del decreto sicurezza, facendo passare in secondo piano le misure altrettanto gravi che riguardano il resto degli umani. In questo modo l’opposizione parlamentare è rimasta ancora una volta vittima di un antiberlusconismo superficiale, tutto legato al Berlusconi-persona e del tutto scollegato al Berlusconi-soggetto politico.
Il guaio è che sembra essere passata la logica di scambio che il premier ha proposto all’opinione pubblica: «Io vi garantisco la sicurezza di strada e voi mi concedete l’immunità personale». Un po’ come accadeva per l’antico istituto della dittatura romana: pieni poteri al dux di fronte al nemico che bussa alle porte. Non importa che il nemico sia una creazione ideologica, né che le misure securitarie proposte servano a nulla, quel che conta è l’opinione comune che si viene a creare e i benefici effetti che il «dittatore» ne trarrà. Siano essi quelli dei processi cancellati votati dal senato (soluzione tirannico-personale) o quelli di un novello lodo Schifani per l’immunità temporanea offerta alle alte cariche dello stato (soluzione oligarchico-castale).
Rimediare a un simile disastro non sarà facile. Servirebbe una mobilitazione non ridotta a testimonianza di pochi, una politica capace di ammettere i propri errori, un’informazione non asservita, una cultura capace di una comunicazione non elitaria. O, almeno, un segnale, un gesto di coraggio che dall’alto di un Colle dica «siamo una repubblica democratica, non una tirannia né un’oligarchia». O è pretendere troppo?
Salvapremier, il Pdl chiede le dimissioni di Mancino *
Non è bastato alla maggioranza il monito del vicepresidente del Csm Nicola Mancino «alla riservatezza degli atti non ufficiali» della Magistratura. Il Pdl, dopo il parere sfavorevole dei giudici sul dl sicurezza per la parte che riguarda la sospensione dei processi ne chiede le dimissioni. «Il vicepresidente del Csm Nicola Mancino deve trarre le conseguenze di quanto sta succedendo e si deve dimettere. Sarebbe un atto dovuto di elementare sensibilità istituzionale». Così il presidente della Commissione Giustizia del Senato, Filippo Berselli, a proposito della fuga di notizie sulla bozza di parere negativo del Consiglio alla norma che blocca i processi, inserita nel decreto sulla sicurezza, considerata come «un’amnistia occulta».
Berselli spiega che il problema non è «il merito del parere che è legittimo ed è previsto da una legge dello Stato del 1958» ma «le indiscrezioni che trapelano riportate da tutti i giornali che - precisa Berselli - screditano direttamente il presidente del Csm che è il Capo dello Stato e ha la funzione di promulgare le leggi». Per Berselli «si tratta di un atto di assoluta, gravissima scorrettezza istituzionale verso il Quirinale» dunque.
Al presidente della commissione giustizia al Senato, infatti, non basta, dice, apprendere dai giornali che «Nicola Mancino è infuriato per le indiscrezioni» finite sulle stampa. Quello che ci vorrebbe «a questo punto - dice Berselli- è che Mancino «traesse le conseguenze istituzionali» perché ha la responsabilità del Csm, cioè si dimetta «subito».
Le indiscrezioni niente hanno a che vedere con le difficoltà della maggioranza, dice ancora Berselli, «visto che il parere che viene dato per legge al ministro non è vincolante. Ma mettono in difficoltà il Quirinale perché non viene garantito il principio di riservatezza del Csm».
Il vicepresidente del Csm, che già aveva dichiarato che il Consiglio superiore della Magistratura è «obbligato alla riservatezza» e che le indiscrezioni uscite nei giorni scorsi sul parere al dl sicurezza screditavano la Magistratura» avanza l’ipotesi di nuove regole contro indiscrezioni e fughe di notizie dal Csm.
In apertura del plenum del Csm di giovedì, infatti, Mancino ha dato incarico al presidente della II commissione di Palazzo dei Marescialli Giuseppe Maria Berruti di stabilire delle regole a tutela della riservatezza degli atti e del lavoro dell’organo di autogoverno della magistratura, ed eventuali sanzioni da adottare i caso di violazione.
Mancino poi risponde alle accusa del Governo dicendo che il suo è sempre stato un tentativo «di presentare il Consiglio Superiore della Magistratura come istituzione dialogante che colloquia col Governo corrispondendo puntualmente alle funzioni e alle prerogative che la Costituzione gli assegna. Non ho mai pensato - continua Mancino - che possiamo essere una terza Camera, come pure qualcuno ci rimprovera. «Gia due sono troppe, spiega il vicepresidente, una terza, con 26 componenti per quanto tutti autorevoli, presieduta dal Capo dello Stato è una invenzione di chi non vorrebbe un Csm autonomo, non collegato a maggioranze politiche, che, richiesto o non richiesto fa lo stesso, avanza una proposta in tema di ordinamento e di organizzazione giudiziaria, che formula un parere, ai sensi dell’art. 10 della legge istitutiva del 1958».
«Mi rendo conto - ha ribadito Mancino - che un Csm come lo descrivono la Costituzione e la migliore dottrina, può dare fastidio: amicus Plato sed magis amica veritas», mi è amico Platone ma mi è più amica la verità.
«L’attendibilità dei documenti - ha continuato il vicepresidente del Csm - non è l’opinione di ciascuno di noi, per quanto argomentata essa possa essere, studiata e autorevole. L’attendibilità è quella che emerge, quando emerge, dal confronto di tutte le opinioni che si esprimono con l’intento di formare quel sentire comune che, poi, diventa risoluzione. Ecco: un documento in bozza non è mai una risoluzione, è un testo in fieri, può diventare ma può anche non diventare una risoluzione».
Prende spunto dal richiamo di Mancino il presidente dei senatori del Pdl Maurizio Gasparri secondo il quale le esternazioni del vicepresidente del Csm confermerebbero che «il ruolo che taluni esponenti del Csm svolgono. «Sembra trattarsi - dice Gasparri - più di una funzione di militanza politica di parte a sinistra, che non un ruolo di garanzia. Il Parlamento è sovrano e il Csm dovrebbe semmai occuparsi degli enormi ritardi della giustizia che sono il vero scandalo dell’Italia».
* l’Unità, Pubblicato il: 26.06.08, Modificato il: 26.06.08 alle ore 13.37
Incostituzionale per il Csm la norma blocca processi
Prima bocciatura quasi unanime
Quasi all’unanimità la Sesta Commissione del Csm ha approvato il parere che boccia come incostituzionale la parte del decreto sicurezza con le norme "blocca processi". Nel documento , che ora passerà così al vaglio del plenum dell’organo di autogoverno della magistratura non sarebbero state introdotte modifiche sostanziali rispetto alla bozza già diffusa sugli organi di stampa e che hanno provocato la richiesta di dimissioni del vicepresidente Nicola Mancino da parte del Pdl.
L’alzata di scudi del centrodestra non ha spaccato il Consiglio Superiore della Magistratura che ha finora difeso le sue ragioni. L’unico voto contrario al parere è venuto nella Sesta Commissione dal consigliere laico del centrodestra Michele Saponara. Non un togato.
Nel parere approvato che passerà al vaglio del plenum martedì prossimo - è stato già convocato in seduta straordinaria il 1 luglio alle 15.30 - sono confermati tutti i giudizi di incostituzionalità. I consiglieri di Palazzo dei Marescialli confermano che la violazione di due articoli della Costiutuzione per la norma "blocca-processi": non solo non rispetta il principio della ragionevole durata del processo, tutelato dall’articolo 111, ma «pone delicati problemi di compatibilità» anche con l’obbligatorietà dell’azione penale sancita dall’articolo 112 della Carta fondamentale.
Nell’ultima versione del testo sarebbe rimasta anche la parte che riguarda i «profili di irragionevolezza» della disposizione: in particolare, lo «spartiacque temporale» fissato al 30 giugno 2002 per stabilire i processi che devono essere sospesi viene giudicato «casuale a arbitrario». Così come «appare ugualmente non ragionevole» la scelta dei reati, tra i quali vi sono «numerosi delitti che, secondo altre previsioni dello stesso decreto, determinano particolare allarme sociale».
La norma "salvapremier" come è stata ribattezzata, che blocca i processi per i reati puniti con meno di 10 anni e commessi prima del 30 giugno 2002 presenta secondo questo primo pronunciamento del Csm «profili di irragionevolezza» sia sullo spartiacque temporale «causale e arbitrario» tra i processi che devono essere sospesi e quelli che invece devono proseguire, come appare «irragionevole» la scelta dei reati per cui va disposta la sospensione dei procedimenti visto che tra questi ci sono «numerosi delitti che determinano particolare allarme sociale». Inoltre nel parere approvato si ribadisce il concetto che la norma che sospende i processi produrrà una «ulteriore dilatazione» dei tempi della giustizia.
I relatori della Sesta sezione del Csm erano Livio Pepino (Md) e Fabio Roia (Unicost) e quindi uno della corrente centrista e l’altro della corrente più a sinistra della magistratura: Magistratura Democratica. Ma lo stesso i rappresentanti del governo continuano lo scontro frontale con le toghe.
«Ci vorrebbe più serenità da parte della politica verso la magistratura e viceversa. Quando il Csm parla di "amnistia occulta" compie un’azione politicamente aggressiva», ha sostenuto il sottosegretario all’Interno Francesco Nitto Palma, ex magistrato.
* l’Unità, Pubblicato il: 26.06.08, Modificato il: 26.06.08 alle ore 19.30