[...] Berlusconi è infatti l’uomo che ha unito pubblico e privato fino a confonderli, con la sua biografia trasformata in programma elettorale per gli italiani e spedita nelle case di 50 milioni di elettori all’inizio della sua avventura politica: mentre oggi, quindici anni dopo, continua a vendere sul rotocalco di famiglia gli ex voto elettorali della sua infanzia aureolati nella patina reale del fotoromanzo, con l’immagine adolescente della Prima Comunione poche pagine prima del brindisi anziano di Casoria [...]
Una risposta al premier
di EZIO MAURO *
È MOLTO facile rispondere alle parole di Silvio Berlusconi pronunciate ieri contro "Repubblica", che nell’inchiesta-documento di Giuseppe D’Avanzo gli aveva rivolto dieci domande per chiarire gli aspetti più controversi del caso politico nato attorno alle candidature delle veline nelle liste Pdl, alla denuncia di "ciarpame politico" di Veronica Lario, alla festa di compleanno della giovane Noemi alla presenza del Premier, nel ruolo indiscusso di "Papi". Molto più difficile, per il Cavaliere, rispondere alle domande del nostro giornale. Anzi, impossibile. Berlusconi non sa rispondere, davanti alla pubblica opinione, perché con ogni evidenza non può. Ciò che ha detto su questa storia, nei lunghi monologhi mai interrotti da una vera richiesta di chiarimento, cozza fragorosamente con ciò che hanno raccontato gli altri protagonisti, e soprattutto con quel che la moglie sa e ha denunciato. Meglio dunque tacere, rifiutare la verità, la trasparenza e il confronto, il che per un uomo pubblico equivale alla fuga. Una fuga accompagnata ovviamente da insulti per il nostro giornale, perché il rumore (domani amplificato dai manganelli di carta al suo servizio) copra il vuoto, la mancanza di coraggio e la scelta necessitata dell’ambiguità.
Ma l’uomo in fuga è il Presidente del Consiglio. Dunque questa incapacità o impossibilità di fare chiarezza, cercando la verità, è immediatamente un fatto politico, un handicap della leadership, una macchia istituzionale qualsiasi cosa nasconda, fosse anche soltanto l’incapacità di accettare un contraddittorio sui lati che restano poco chiari di una vicenda che ha fatto il giro dei giornali e dei siti di tutto il mondo. Una storia nella quale l’unica cosa che non c’entra proprio nulla è la privacy.
Berlusconi è infatti l’uomo che ha unito pubblico e privato fino a confonderli, con la sua biografia trasformata in programma elettorale per gli italiani e spedita nelle case di 50 milioni di elettori all’inizio della sua avventura politica: mentre oggi, quindici anni dopo, continua a vendere sul rotocalco di famiglia gli ex voto elettorali della sua infanzia aureolati nella patina reale del fotoromanzo, con l’immagine adolescente della Prima Comunione poche pagine prima del brindisi anziano di Casoria.
Le domande di "Repubblica" volevano appunto bucare questa nuvola nazional-popolare dove si sta cercando di trasportare nottetempo il caso Berlusconi, lontano dalla responsabilità istituzionale e politica di dire il vero agli italiani. Nascevano semplicemente, come abbiamo detto a Palazzo Chigi proponendo un confronto diretto col Premier, dalla constatazione che a due settimane dall’inizio della vicenda troppe cose rimanevano da spiegare, anche perché nessuna vera richiesta di chiarimento era stata rivolta al Cavaliere, e la sede televisiva del "rendiconto" - quella del suo personale notaio a "Porta a Porta" - si era in realtà rivelata la sede di un lungo monologo: per accusare la moglie ed esigerne le scuse, invece di rispondere alla sua denuncia (la politica che seleziona veline diventa "ciarpame senza pudore", "mio marito frequenta minorenni", "mio marito non sta bene, ho implorato coloro che gli stanno accanto di aiutarlo") rovesciando la realtà davanti agli italiani.
Questa mancanza di chiarezza e di confronto, con domande precise e risposte nette, ha ingarbugliato le cose. Tra il racconto del Premier e i racconti degli altri protagonisti di questa vicenda si sono allargate incongruenze evidenti, pubbliche, inseguite da spiegazioni postume che aprivano nuovi fronti controversi e dunque suscitavano altre domande. In tutto il mondo civile, dove esiste una pubblica opinione e la funzione autonoma della stampa, le contraddizioni del potere e la mancanza di chiarezza sono lo spazio naturale del giornalismo, del suo lavoro d’inchiesta, del suo sforzo documentale e infine delle sue domande.
Questo abbiamo provato a fare, senza dare giudizi e senza una tesi finale da dimostrare. Ci interessa il percorso tra le contraddizioni di un uomo pubblico in una vicenda pubblica, mettendo a confronto versioni e racconti che vanno tra loro in dissonanza, per domandare infine al protagonista di spiegare perché, proponendo la sua verità dei fatti.
Oggi dobbiamo prendere atto che il Presidente del Consiglio, invece di rispondere alle domande, scappa dalle vere questioni aperte che chiamano in causa la sua credibilità, e lo fa insultando, cioè cercando di parlar d’altro. "Invidia e odio", a suo parere, sono i motivi della "campagna denigratoria che "Repubblica" e il suo editore stanno conducendo da giorni" contro il Presidente. Che c’entra l’editore con l’inchiesta di un giornale? Non esistono scelte autonome da parte di un quotidiano nella cultura proprietaria del Premier? Cosa bisogna dunque pensare delle domande che proprio ieri il "Giornale" berlusconiano rivolgeva in prima pagina a Di Pietro? E soprattutto, cosa c’entrano con un’inchiesta giornalistica i sentimenti dell’odio e dell’invidia? Può il Cavaliere concepire, per una volta, che si possa indagare sui suoi atti e persino criticarli senza odiarlo, ma semplicemente giudicandolo? Può rassegnarsi a pensare che esiste ancora qualcuno, persino in questo Paese, che non lo invidia affatto, né a Roma né ad Arcore né a Casoria? Può infine ammettere che dieci domande non costituiscono una denigrazione, soprattutto se le si può spazzare via dal tavolo con la semplice forza della verità?
Il Cavaliere denuncia infine che "attacchi di così basso livello" giungano in prossimità del voto europeo: ma i tempi e soprattutto il livello di questa vicenda non li abbiamo scelti noi, nemmeno la location di Casoria, le luci delle fotografie festose e i comprimari, i monili, la favola bella dei genitori che si baciano in esclusiva per "Chi", la ragazza incolpevole di tutto ma soprattutto sicura che approderà negli show televisivi o in Parlamento, l’uno o l’altro intercambiabili, l’importante è sapere che "deciderà Papi". Non abbiamo deciso noi che tutto questo valesse prima la critica della Fondazione "Farefuturo" di Fini e poi lo strappo di un divorzio pubblico come l’offesa ricevuta, dunque politico come tutto ciò che accade al Cavaliere: da parte di una moglie che il grande rotocalco con cui si impagina oggi l’Italia dipinge come incapace di autonomia, fragile e sola, dunque preda di suggeritori mediatici e politici, unica spiegazione che ripristini la sacralità mistica del carisma intaccato dall’interno, quando una donna ha deciso (prima e unica, in un quindicennio) di rompere il cerchio magico dell’intangibilità sciamanica del Capo.
Per il Cavaliere, chi lo critica non può avere autonomia. Per lui, l’adesione è amore e fede, dunque la critica è tradimento e follia, le domande - non essendo contemplate e per la verità neppure molto praticate, nel conformismo del 2009 - diventano "odio e follia", in un discorso pubblico fatto di vibrazioni, dove tutto è emotivo.
Che cosa concludere? La storia che ha fatto il giro del mondo resta tutta da chiarire, perché il Presidente del Consiglio sa solo minacciare, ma non può spiegare. Dunque continueremo a fare domande, come fossimo in un Paese normale, per quei cittadini che chiedono di sapere perché vogliono capire, rifiutando di entrare nel grande fotoromanzo italiano che sta ingoiando quel che resta della politica.
* la Repubblica, 15 maggio 2009
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
La verità come arma
di GIANNI VATTIMO (La Stampa, 16/5/2009)
Ciò che ha scandalizzò gli elettori americani nell’affare Lewinski-Clinton, e prima, quel che provocò le dimissioni di Nixon per il Watergate non furono tanto le malefatte di cui i due presidenti si erano resi colpevoli. Clinton aveva tenuto una condotta «inappropriata» con la stagista (allora non si chiamavano ancora veline), ma erano fatti suoi e della sua signora; Nixon aveva «spiato» il quartier generale degli avversari democratici, ma non sembra fossero stati rubati segreti tanto decisivi per la vittoria dell’uno o dell’altro candidato.
No, quel che costituiva una macchia intollerabile per l’immagine dei due presidenti era che avessero mentito ai concittadini. Merita di ricordarlo oggi, in Italia ma non solo, quando sembra che la sopravvivenza di un governo dipenda dal fatto che il suo massimo esponete si sia reso colpevole o no di comportamenti «inappropriati» nei confronti di una minorenne o appena maggiorenne. Se di questo si trattasse, avrebbero ragione coloro che si rifiutano di scendere a un così basso livello della polemica politica.
Ciarpame, come è stato definito il tutto, non è solo il tema delle passioni private d’un esponente governativo, ma il fatto stesso di interessarsene, violando il limite della privacy e della decenza. Non possiamo però considerare inessenziale, e parte dello stesso ciarpame, stabilire se le notizie che abbiamo della vicenda siano esatte o manipolate nell’interesse d’una delle parti in causa. Sapere se un’alta autorità governativa ha frequentazioni non conformi alla morale dei più è assai meno importante che stabilire se ci menta o no. Non è questione da lasciare alla privacy, diventa un fatto di enorme rilevanza politica.
Ma, osserverà qualche mente politica molto europea e disincantata, solo un pubblico ingenuo e di tradizioni puritane come quello americano può pensare che i politici (e i detentori di potere economico o spirituale) non debbano mentire. Andiamo, persino Kant pensava che fosse legittimo mentire in nome di una causa superiore: per salvare lo Stato, la pace, l’ordine sociale. Davvero la verità è un valore così assoluto da diventare il criterio per la stessa legittimità delle istituzioni? Nella Morte a Venezia di Mann le autorità tengono nascosta la gravità dell’epidemia che fa strage per evitare la fuga dei villeggianti e la rovina del turismo.
Tutti accettiamo come una triste necessità l’esigenza di non creare panico, e danni maggiori, in caso d’imminenti catastrofi naturali che non abbiamo il potere di evitare. La famosa distinzione di Max Weber tra etica della convinzione e etica della responsabilità vale anche in casi come questi. Paradossalmente, può essere un affare di convinzione morale personale il dovere di dire in ogni caso la verità; ma è altrettanto legittima una convinzione morale che antepone il bene comune al dovere di dire il vero. Però, anche per un convinto assertore di quest’ultima posizione, e tanto più in quanto si preoccupa del bene comune, diventa un dovere prevalente quello di dire il vero se la legge dello Stato glielo impone.
Ha poco senso, dunque, rimproverare a qualcuno di mentire, come se il dovere di dire la verità fosse un dovere assoluto precedente ogni legge positiva. Solo se viola qualche legge sancita e perciò necessariamente condivisa dai membri della comunità (l’ignoranza della legge non è ammessa) la menzogna esce dalla sfera della «convinzione» e entra in quella della «responsabilità», anche giudiziaria. Non valore naturale assoluto, la verità è piuttosto un’arma. Persino per il Vangelo: «La verità vi farà liberi».
Ma appunto quella che serve a chi non è libero per diventarlo. Mostrare (veracemente?) che il potente è un bugiardo è un modo di prendere sul serio la verità molto più che andare tra gli scioperanti a insegnare la tavola pitagorica o le leggi di Newton. Senza questa consapevolezza, davvero solo ciarpame.