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Ex - "Impero"...

ISTITUIRE LA GIORNATA DELLA MEMORIA per 500mila Africani uccisi dalla presenza coloniale italiana in LIBIA, ETIOPIA, E SOMALIA. UNA PROPOSTA DELLO STORICO ANGELO DEL BOCA

venerdì 14 luglio 2006 di Federico La Sala
[...] Quanto alla Giornata della memoria per i 500mila africani uccisi, ci sembra che essa abbia un valore non soltanto simboli­co. Noi siamo convinti che potrebbe avere riflessi non effi­meri su popolazioni che non soltanto lottano contro la povertà e l’Aids, ma anche cercano disperatamente anche una propria identità [...]
IL MITO DELLA ROMANITÀ E IL FASCISMO: MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.

La giornata della memoria
In (...)

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> ISTITUIRE LA GIORNATA DELLA MEMORIA per 500mila Africani uccisi dalla presenza coloniale italiana in LIBIA, ETIOPIA, E SOMALIA. --- I bimbi italiani strappati alla Somalia. E un’intervista al prof. Angelo Del Boca (di francesca Caferri).

martedì 17 giugno 2008

I bimbi italiani strappati alla Somalia

"Voglio scuse per chi si è suicidato. Per chi è depresso. Per mia madre e per i nostri figli"

di Francesca Caferri (la Repubblica, 17.06.2008)

Le cronache del tempo raccontano che negli anni dell’Afis - fra il 1950 e il ‘60 - le relazioni miste erano una questione ben nota alle autorità italiane: «Non esagero dicendo che la maggior parte ha la madama, qualcuno anche sposato», scriveva nel 1951 riferendosi agli italiani di Somalia l’arcivescovo di Mogadiscio, Venanzio Filippini. Da quelle relazioni nacquero centinaia - almeno 600 secondo i documenti dell’epoca - di bambini, tutti con un destino segnato: «I funzionari italiani arrivavano dalle nostre madri quando noi avevamo uno, due anni - racconta Gianni Mari, presidente dell’associazione italo-somali - il discorso era sempre lo stesso: il bimbo avrebbe avuto un destino migliore con gli italiani. Promettevano un’educazione, un lavoro futuro, cibo tutti i giorni. E le nostre madri, giovani e allontanate dalle comunità per aver avuto una storia con uno straniero, dicevano sì». Così la maggior parte dei bambini figli di coppie miste finì nei collegi cattolici della Somalia, dove venivano battezzati ed educati secondo i programmi scolastici di Roma: «Dovevamo parlare solo italiano, dimenticare la lingua delle nostre madri e il loro paese. Non c’era nulla a ricordarci l’altra metà di noi. La nostra parte somala doveva semplicemente sparire», ricorda ancora Mari. Nel corso degli anni le madri diventavano fantasmi lontani mentre i padri spesso non erano mai esistiti.

La storia andò avanti così fino alla fine del mandato italiano in Somalia: di lì in poi si pose il problema di rimpatriare i minori, ormai sradicati nel loro stesso paese. «Arrivammo in Italia. Soli. Qui scoprimmo che non eravamo neanche italiani: la maggior parte di noi era apolide, perché senza riconoscimento paterno non c’era nazionalità. Eravamo malvisti nei collegi religiosi, perché considerati bastardi e in più di pelle scura. Subimmo insulti razziali, violenze, soprusi, pedofilia. Chi di noi ne è uscito è una persona forte. Ma molti non ce l’hanno fatta: si sono suicidati o sono in preda alla depressione», conclude Mari.

Oggi, a distanza di quasi 60 anni, lo Stato è pronto ad ammettere per la prima volta la propria responsabilità per le sofferenze della signora Lucia, del signor Mari e di centinaia di bambini come loro. Lo fa con l’ufficialità di un disegno di legge firmato dal Viminale: un risultato importante paragonato ai decenni di silenzio. Un risultato che però non basta a molti dei protagonisti di questa storia. «Pretendo che ci si chieda scusa», dice Antonio Murat, 59 anni. Il signor Murat è uno dei pochi "fortunati" che alla nascita fu riconosciuto dal padre e porta il suo cognome. «Mi portarono in collegio in Somalia che avevo 3 o 4 anni - racconta - mio padre mi riconobbe, ma non fu mai presente. Venni in Italia da solo, quando diventai maggiorenne, e poco dopo mia madre morì, senza che l’avessi rivista. Dei soldi non mi importa nulla, ma qualcuno deve chiedere scusa a me e a lei per averci divisi». La voce di Antonio si incrina, dal portafoglio tira fuori una vecchia foto in bianco e nero: è la mamma, giovanissima e bellissima. «Io invece voglio tutto, voglio anche i soldi - interrompe Mauro Caruso - e di una pensione minima Inps, come quella che prevede la legge (500 euro circa, ndr) non so cosa farmene». Il signor Caruso si presenta come «un italiano con la pelle di pigmentazione scura». In lui, il dolore che in Muras è sfociato in malinconia si trasforma in rabbia: a differenza di molti altri italiani, suo padre non fece mancare nulla alla compagna somala e ai quattro figli avuti da lei. Compresa la cittadinanza italiana. Ma un giorno morì e alla porta suonarono i funzionari di Roma: il fratello e le sorelle di Mauro furono portati in Italia. Lui, che aveva un anno, rimase con la madre fino al 1974 quando fu costretto a partire a suo volta. «Entrai in collegio a Roma e ne uscii a 18 anni: ero solo. Mia madre era in Somalia, i miei fratelli erano estranei di cui non ricordavo nulla. Avevo sulle spalle un carico di soprusi che avrebbe potuto trasformarmi in un killer: invece ho fatto mille lavori, ma la mia fedina penale è sempre rimasta immacolata. È l’unica cosa bianca che ho», conclude tagliente.

«Erano ragazzini rifiutati sia dall’uno che dall’altro lato», ricorda Don Antonio Allais, sacerdote torinese che negli ‘70 assunse la patria potestà di decine di piccoli apolidi di origini somale e imbastì cause su cause perché fosse riconosciuta loro la cittadinanza italiana. Le vinse, regalando ai suoi protetti un’identità su cui cominciare a costruirsi una vita: «Ma un passaporto non sana le ferite: restarono degli sradicati, senza affetti e trattati male da tutti». Negli anni, il caso degli italo-somali è rimasto a galleggiare nelle pastoie della burocrazia italiana: qualche interrogazione parlamentare negli anni ‘60, lettere degli ex bambini alla presidenza della Repubblica e al Parlamento europeo. Carte bollate, promesse e nessun fatto, fino a quando due anni fa il Comitato contro la discriminazione e l’antisemitismo del Viminale non decise di prendere in mano il loro dossier e, dopo decine di controlli e audizioni, mise a punto il disegno di legge sugli indennizzi: «Lo Stato è arrivato tardi - ammette il prefetto Mario Morcone, presidente del Comitato - speriamo con questa legge di rimediare almeno in parte alle sofferenze». La speranza del prefetto lo scorso anno è andata frustrata, perché non i due milioni di euro necessari per dare copertura finanziaria al disegno di legge non si trovarono: Morcone è pronto riprovare a settembre, quando si comincerà a discutere della prossima finanziaria.

Come tutti, la signora Lucia spera che i soldi vengano fuori, ma per lei è chiaro che questo non basterà a chiudere i conti con il passato: «Voglio delle scuse per chi ha vissuto la mia stessa storia e si è suicidato. Per chi è depresso. Per le nostre madri, stritolate da questa vicenda quando erano poco più che bambine. Per i nostri figli, che non devono vederci come dei bastardi. Un misero foglio di carta in cui si parla di soldi e non di responsabilità di certo non mi basta».


L’intervista.

Angelo Del Boca, storico del colonialismo

"Mai fatti i conti con il passato"

Angelo Del Boca, storico del colonialismo, è il maggiore esperto delle relazioni fra l’Italia e le sue colonie sia negli anni del fascismo che in quelli successivi alla Seconda guerra mondiale.

Professor Del Boca, come nasce l’idea di affidare all’Italia appena uscita sconfitta dalla guerra l’amministrazione della Somalia?

«Fu l’Italia a chiederlo all’Onu. In realtà il governo aveva chiesto l’amministrazione di tutte le ex colonie, sia quelle fasciste che quelle pre-fasciste. L’Onu fece capire che non c’era speranza, avevamo perso la guerra e Stati Uniti e Gran Bretagna si opponevano. Come premio di consolazione, ci diedero la Somalia. Lì furono spediti funzionari dell’ex ministero per l’Africa, per la maggior parte fascisti di provata fede. Questo nonostante l’Italia fascista avesse lasciato un pessimo ricordo di sé: la Somalia uscì dal colonialismo depredata».

Perché furono mandati ex fascisti a governare il paese?

«Quando lo chiesi a un alto funzionario di allora mi rispose: "Si fa il fuoco con la legna che si trova". Non è certo stata una bella cosa. Non a caso, fu messa a punto una Costituzione che non era adatta per la Somalia e che fu alla base della successiva disgregazione del paese».

Come erano i rapporti fra gli italiani e i somali?

«Tesi, eravamo gli ex colonizzatori, non ci amavano».

Dunque le relazioni fra gli italiani e le donne locali non erano gradite...

«Certo che no, anche se furono numerose, soprattutto fra i militari del corpo di spedizione. Gli italiani non godevano di buona fama e in più non sposavano quasi mai le ragazze che mettevano nei guai. Per le giovani la gravidanza era motivo di vergogna e i figli non erano ben visti dalle comunità locali».

I bambini di allora denunciano di essere stati sottratti alle madri: perché avvenne?

«Immagino che fu il frutto di una pietà tipicamente cattolica. Si pensò "questi bambini non sono il frutto di amori consacrati ma non possiamo abbandonarli". Senza dubbio furono discriminati nei collegi e in Italia ma non so quanto sarebbe stato meglio in Somalia».

Perché c’è voluto tanto tempo perché questa storia diventasse pubblica e ci fosse una legge di compensazione? E perché anche ora non si chiede scusa a queste persone?

«Ci sono moltissime storie ancora sepolte negli archivi: ogni tanto escono. Non c’è un perché vero sul silenzio di questi anni. Per quanto riguarda la legge, posso dire che in Italia non c’è mai stata la volontà di fare i conti con il passato delle colonie, con gli errori di allora. Tanto meno con quello successivo».

(fr. caf.)

la Repubblica, 17.06.2008


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