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Dio, Amore (charitas)? No, "Deus caritas est" (2006)!!! Eu-angélo? No, Van-gélo!!!

Papa e Vescovi, tutta la Gerarchia della Chiesa "cattolico-romana" senza più la Parola eu-angélica !!! "Potranno tagliare tutti i fiori / mai saranno i padroni della primavera"!!! Linee di analisi del gesuita p. Felice Scalia

mercoledì 12 novembre 2008 di Federico La Sala
[...] Abbiamo assistito con sbigottimento, continuiamo anzi ad assistervi, alla divisione che si è verificata nella Chiesa quando qualche "principe" di questo mondo decise di dividere il pianeta in due grandi settori, in due "assi": quello del "bene" e quello del "male". E decise pure, questo "principe", quali popoli appartenessero all’uno o all’altro "asse". Poi stabilì che farne degli "Stati canaglia", e ritenne anche suo dovere - per mandato divino - sterminare il male dalla terra (...)

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> Papa e Vescovi, tutta la Gerarchia della Chiesa "cattolico-romana" senza più la Parola eu-angélica !!! --- Da sudditi a fratelli. Ma quando? (di Felice Scalia).

martedì 11 settembre 2012

Da sudditi a fratelli. Ma quando?

di Felice Scalia *

Ad uno sguardo superficiale, l’attuale innegabile rimonta anticonciliare è dovuta quasi soltanto a “problemi di parole”, a sottigliezze di dottrina, ad accessori liturgici, oppure a beghe personali. Parlare in latino o in italiano al buon Dio? Celebrare col popolo o per il popolo? Fossero questi, o simili a questi, i termini del problema, potremmo lavarcene le mani. Ma non è così. Qui si tratta di sapere se un prete possa dire «la Chiesa sono io» e se un uomo (nominato papa) lo si possa chiamare o no quodammodo Deus, Dominus noster, Alter Deus in terris, come si esprimeva nei riguardi di Giulio II il Concilio Lateranense V nel 1512. Si tratta di sapere se siamo “gregge” di pastori che si credono Dio, o semplicemente “popolo di Dio”.

C’è una questione storica. Dall’editto di Costantino (313) in poi, coloro che prima erano candidati martiri divennero candidati signori: splendidi vescovi e benestanti preti. L’organizzazione della Chiesa diventò sempre più imperiale e si passò dal servizio tra fratelli al potere sui sudditi. Il frutto fu un’istituzione ecclesiastica sempre più piramidale, simile alla istituzione assolutista della società, nei pregi e negli ovvii difetti. Nella Chiesa divennero inevitabili gelosie, odi, caccia all’ordinazione e alla prebenda, sete di denaro e prestigio, congiure, coartazioni nepotistiche, scandali, “partiti”, diplomazie e “ragion di Chiesa”. Ci domandiamo: il modo in cui la Chiesa si organizza, e che vede il suo acme nella riforma di Gregorio VII, appartiene o no alla rivelazione divina definitiva? È di diritto divino?

Si legge spesso che il Vaticano II scombussolò quella Chiesa. Fu chiamato “nuova Pentecoste”, con tanto di fuoco, vento gagliardo, rischio di essere creduti «completamente ubriachi» (At 2,13). Ed è vero. Il Vaticano II ha scosso dalle fondamenta l’organizzazione esterna della Chiesa giungendo a problematizzare ciò che essa pensava e diceva di se stessa. Ha contestato l’assetto assolutistico e piramidale del papato e, per conseguenza, del potere e dell’autorità nella Chiesa. Ha reagito contro una visione istituzionale meramente giuridica e sociologica per affermare che la Chiesa è mistero della salvezza che viene dal Padre.

Senza occupare nessuna Bastiglia, senza stravolgere nulla nei dogmi, nella dottrina trinitaria o cristologica o nella visione del Regno. È bastato che i Padri Conciliari prendessero più contatto con la Scrittura, con la Patristica, col movimento liturgico ed ecumenico, che ci si rendesse meglio conto dell’evoluzione storica della teologia, per essere in grado di scrivere i primi due capitoli della Lumen Gentium e dare in essi la chiave di lettura dell’intera Costituzione come degli altri documenti conciliari: la Chiesa è primariamente “popolo di Dio”.

I Padri conciliari sanno bene che si possono avere molte definizioni di Chiesa e sanno che nessuna definizione ne esaurisce il mistero. E tuttavia privilegiano il concetto-chiave di “popolo di Dio”. La Chiesa dunque non è al suo sorgere, per volere divino, una societas perfecta dotata di potere legislativo, dottrinale e giudiziario con a capo un uomo che si insedia da monarca assoluto per decidere da solo sulle cose spirituali e materiali del mondo. Non è l’arca di Noè, in cui tutti si devono imbarcare se vogliono sfuggire al “diluvio”. Non è il fine della fede, e neppure una sorta di sigillo impresso nell’anima come lasciapassare per il paradiso. Chiesa è un popolo di “fratelli” adunato dal Signore stesso. È il raduno del “popolo salvato” di fronte a Jhwh, che il Padre manda per la liberazione di ogni suo figlio. Un popolo costituito in vista del Regno di Dio, dotato di carismi vari distribuiti dall’unico Spirito per l’edificazione della stessa Chiesa e della pace nel mondo.

Nella Chiesa allora non c’è un “potere-dominio” ma un “ordine di servizio”. Se si vuole, c’è un “potere-servizio”, il dono di “poter servire”. La Chiesa è popolo di Dio in cammino, un popolo sacerdotale, regale, profetico che rende necessario ed attuale il carisma del “reggere”, ma questo non è fonte né della fede né della chiamata. Nella Chiesa insomma ci sono i carismi dell’ammaestrare ed ammonire, ma solo per l’edificazione del popolo intero, non per spadroneggiare sulla fede dei fedeli (1 Ptr 5,1-4). C’è inoltre una guida, ma è plurale. Si tratta del collegio dei vescovi, testimoni del Risorto uniti al papa. Oppure - ed è lo stesso - tra il “popolo di Dio” c’è il papa a reggere la Chiesa ma in unione collegiale coi vescovi del mondo.

Pur sapendo che l’espressione può suscitare perplessità, si può dire che il Concilio “relativizzò” il potere clericale facendo dei battezzati un soggetto di salvezza, non più un mero e passivo gregge. Relativizzò anche il potere dei papi, parlando di collegialità. In altri termini, mettendo il “popolo di Dio” al primo posto, relativizzò il potere della e nella Chiesa, mentre abilitava ogni cultura a trovare risposte di fede e ripensare la propria storia alla luce della Parola.

Sempre secondo il Concilio, la Chiesa vive la realtà di tutti gli esseri umani, legge e giudica quindi la storia in una prospettiva di fede, è una comunità limitata e peccatrice, e tuttavia in essa si rende presente la salvezza portata dal Cristo ed offerta ad ognuno. È casta et meretrix, sempre bisognosa di riforma e tuttavia santa (LG 9).

Che la Chiesa sia “popolo di Dio” non è che piaccia a tutti i christifideles. Per diversi motivi non si è lieti di sapere che anche la base è inviata al mondo. Lo notiamo ogni giorno non solo nelle lotte e faide interne alla comunità e alle curie, ma anche nelle sacche di resistenza allo Spirito che ci sembra pericoloso ascoltare. Nella prospettiva conciliare la Chiesa, in effetti, è una realtà scomoda. È il luogo della nostra fede nel Dio del Regno che sente le urla dei suoi figli e porta salvezza; ma non è il fine ultimo della nostra consegna a Dio. In essa testimoniamo la nostra fede cristiana nel Risorto, purché nella comunità credente tutta intera, chi presiede e le membra, si sia testimoni che un mondo “altro” è possibile, una vita “altra”; che l’ultima parola è la risurrezione e non la putrefazione della morte di ogni anelito umano. In essa nessun individuo solitario (fosse anche il papa) è Chiesa, ma tutto il popolo di Dio lo è nella valorizzazione dei carismi dati per l’edificazione di tutti.

Se questo è vero non dovremmo poi tanto scandalizzarci se oggi viviamo gomito a gomito con chi di potere-servizio non vuole sentir parlare, mentre il “potere-dominio” se lo vuole riprendere ufficialmente. Anche perché, in effetti, una parte numericamente poco consistente ma di grande prestigio, ha lottato, dentro l’aula conciliare e dopo, per non abbandonarlo affatto. Dalle titubanze di Paolo VI ad oggi, la storia della Chiesa ha scritto pagine problematiche e grigie di questo tentativo di riappropriazione e restaurazione di un potere assoluto e piramidale.

C’è da auspicare che i laici smettano di avere paura della responsabilità-libertà, e che i chierici non portino avanti una lotta di “liberazione” per acquisire più potere. Sarebbe una gran magra vittoria ed il “popolo di Dio” risulterebbe di nuovo scippato della sua dignità. Sul tappeto c’è ben altro che mire di caporali in carriera. C’è un maggiore accostamento alla Chiesa così come l’ha voluta il suo Fondatore e non come l’abbiamo manipolata noi. E c’è la preminenza, su tutto, di questo mistero di immersione nell’Amore che è il battesimo (LG 10). Del resto proprio il battesimo rende sensata non solo la missione laicale di laici-protagonisti nella Chiesa e nel mondo, ma anche la consacrazione presbiterale, la professione religiosa, la consacrazione-nuziale. Questi non sono che modi, strade, viae quaedam, sentieri possibili dell’unica via che è il Cristo.

Alla ecclesiologia dell’ubbidienza assoluta, unica garante di affidabilità, si contrappone una ecclesiologia di comunione in cui tutti cercano il volto di Dio, tutti si esprimono da fratelli con parresia, tutti sanno che Dio è più grande dei nostri pensieri e di qualsiasi elaborazione teologica, tutti sono in ascolto della Parola, tutti sono legati in unità misteriosa e reale dall’unico Spirito.

Questo modello di “Chiesa-comunione” e di “Chiesa-popolo-di-Dio” può essere marchiato di “relativismo” anarcoide. In questo caso la teologia e la “retta dottrina” diventano paravento di sete di potere. La storia ci dirà se questo non è già avvenuto presso i lefebvriani ed i vari movimenti autoritari che sono sorti nella Chiesa in questi ultimi decenni: dall’Opus Dei a Comunione e Liberazione, agli Araldi del Vangelo ai Legionari di Cristo.

In poche parole, il problema tanto agitato al Concilio della preminenza della “Chiesa-popolo” sulla “Chiesa-gerarchia”, aveva come oggetto reale il ridimensionamento del potere degli ecclesiastici, così come si era configurato almeno da un millennio. Mentre noi benediciamo questo passaggio alla “Chiesa-comunione”, per altri esso è l’inizio della caduta dello splendore, della ricchezza, della sicurezza, della scalata sociale. Siamo convinti che non servono a nulla le prediche sulla “sporcizia nella Chiesa”, a nulla le sofferenze del papa, di tanti vescovi, di tantissimi laici smarriti per quanto accade di losco e di vergognoso.

Per uscirne la via c’è. Accettiamo di essere senza potere/dominio nella Chiesa, accettiamo di non essere padroni della fede di nessuno, che l’unico potere che abbiamo dal Cristo è quello di “servire”, e di colpo scomparirà ogni sgambetto per nomine di prestigio, ogni scandalo, ogni velleità di percorrere fino al massimo grado il cursus honorum ecclesiastico. E scopriremo d’un colpo che non c’è nessun massimo grado nella Chiesa, perché non esistono piramidi, ma un Dio che si è fatto carne, ha camminato per le nostre strade, ci ha detto di non chiamare nessuno padrone, padre e maestro, perché «nos autem fratres sumus», «nos autem non sic». Dopo la luce di Galilea noi non possiamo conformarci alla mentalità di questo mondo, non possiamo vivere alla maniera di esseri umani-padroni che, credendosi quasi dei, vengono sempre per farsi servire e mai per servire.

*

Felice Scalia, gesuita dal 1947, teologo dell’Istituto Ignatianum di Messina, ha insegnato alla Facoltà Teologica dell’Italia meridionale e all’Istituto superiore di Scienze umane e religiose di Messina. Attualmente svolge attività di animazione di gruppi, di comunità e di accompagnamento spirituale di sacerdoti e persone consacrate. È impegnato nell’associazione "Nuovi orizzonti" e animatore del Movimento eucaristico giovanile. Collabora con varie riviste.


Fonte: Adista Notizie n. 32 del 15/09/2012


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