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Lezione di metodo

IL FILO E LE TRACCE. Vero, falso, finto: lo storico CARLO GINZBURG, in navigazione, tra lo Scilla del relativismo assoluto e il Cariddi del realismo fondamentalista

sabato 22 luglio 2006 di Federico La Sala
[...] In sostanza, Ginzburg è distante dall’ipotesi scientista, ovvero dogmaticamente razionalista, ma non è neppure per quella relativista che riduce tutto alla narrazione. [...]
VIDAL-NAQUET PONE LA QUESTIONE "CRITICA"(KANT), MA GLI "EICHMANN DI CARTA" NON HANNO SMESSO DI VINCERE: NESSUNO ANCORA LO ASCOLTA! Per non dimenticare, alcune sue riflessioni dal suo libro "Gli assassini della memoria"

Una riflessione sulle contraddizioni e la (...)

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> IL FILO E LE TRACCE. --- CARLO GINZBURG. Cinquant’anni di mestiere di storico. Una storia con additivi, tra il caso e la prova. Intervista (Cora Presezzi, Marie Rebecchi)

sabato 16 luglio 2016

      • CONTINUAZIONE E FINE

Come avvenne invece l’incontro con la morfologia?

La morfologia è subentrata quando ho cercato di rispondere alla domanda rimasta inevasa nei Benandanti: l’ipotesi, formulata in una mezza frase della prefazione, di un rapporto storico (e non di pura analogia) tra benandanti e sciamani siberiani. In realtà a quella domanda (mascherata da affermazione) non ero in grado di rispondere: mi mancavano, letteralmente, gli strumenti. Quando ho cominciato a lavorare sul libro che è diventato poi Storia notturna, mi sono messo a vagare alla cieca tra testimonianze e ricerche diversissime, senza rendermi conto di cosa realmente cercavo. Ricordo ancora il senso di illuminazione improvvisa che ebbi nel leggere la pagina delle Note di Wittgenstein al Ramo d’oro di Frazer, in cui la morfologia - nel senso di Goethe - è contrapposta all’ipotesi genetica à la Frazer. Partendo da questa contrapposizione rilessi la Morfologia della fiaba di Propp.

L’idea di una morfologia ispirata a Goethe, astorica e atopica, mi si presentò anche in un ambito diverso, quello dello studio delle immagini e delle tecniche dell’attribuzione degli storici dell’arte, a cominciare da Longhi: l’idea cioè che l’attribuzione possa essere avanzata sulla base di elementi puramente formali, per poi trovare eventualmente conferma in elementi di contesto. (Ma il giovane Longhi parlava di storia dell’arte «senza nomi e senza date»).

Così, mentre lavoravo sullo stereotipo del sabba, mi trovai a fare una deviazione - che poi si sarebbe rivelata non esser tale - e mi misi a lavorare su Piero della Francesca (Indagini su Piero, 1981). Lì gli elementi legati al contesto (l’iconografia, i committenti) venivano contrapposti a un’indagine puramente stilistica. Retrospettivamente, sono portato a vedere in quel libro qualcosa che mi è diventato chiaro soltanto dopo: e cioè l’importanza, dal punto di vista della ricerca, dell’elemento sperimentale, artificiale. L’artificio, che mette a fuoco certi elementi e non altri, ci permette di cogliere la ricchezza della realtà. In un saggio recente, Microhistory and World History, cito una battuta pronunciata da Franco Venturi in polemica con la microstoria (è stata riferita da Giovanni Levi): «Io sono per la storia senza additivi». È una battuta che io sono portato a rovesciare. L’elemento «micro», aggiunto alla storia, l’elemento additivo, è un elemento artificiale. E si riconnette alla morfologia: ossia un esperimento, un artificio, un additivo, che mette tra parentesi tempo e spazio.

Il libro in cui la morfologia viene sistematicamente chiamata in causa è Storia notturna.

La morfologia lì è uno strumento di ricerca e si combina con il tentativo di tradurre i dati scoperti per via morfologica in una serie di connessioni storiche - cosa che è stata respinta e criticata da molti. È un problema aperto, che continua ad appassionarmi molto.

Al cuore di Storia notturna c’è un passaggio che Ginzburg ha voluto successivamente indicare come una «svolta» nella costruzione generale del libro: il dialogo tra Niccolò Cusano e due vecchie contadine della Val di Fassa. Cosa si condensa in questo scambio tra uno dei massimi esponenti del sapere alto del suo tempo e due figure, quasi umbratili, convocate a raccontare un’esperienza di contatto con una presenza in cui Cusano vide un’immagine demoniaca?

è un documento straordinario, che ci riporta alla questione della lettura. Le vecchie parlano di una divinità che le ha visitate e che chiamano Richella; Cusano nella predica latina racconta tutto questo, identificando Richella con il demonio, e però tramandandoci qualcosa di Richella. Questo ci consente di leggere tra le righe la predica di Cusano, che per cercar di capire qualcosa che Cusano, che pure aveva capito moltissimo, potrebbe non avere capito. Nel mio saggio L’inquisitore come antropologo racconto di come fossi a un certo punto reso conto che, accanto alla mia contiguità emotiva con le vittime - non empatia ma sympathia, cioè un tentativo di capirle - c’era una contiguità intellettuale tra me e gli inquisitori. L’Inquisizione mi ripugna, e tuttavia ammiro il tentativo degli inquisitori di capire - quando c’era. Naturalmente la loro era una conoscenza finalizzata alla persecuzione: e qui le strade dell’inquisitore e dello storico (o dell’antropologo) divergono di nuovo. Se non sbaglio, qui si tocca un’ambiguità profonda, che ha a che fare con la questione della prospettiva storica.

La questione della prospettiva è centrale in Occhiacci di legno (1998), raccolta di saggi orchestrata attorno a due nodi concettuali: la distanza e l’estrema vicinanza o adesione alla fictio auto-prodotta. Da dove viene l’impulso a ragionare in modo sistematico sulla triade storia-distanza-finzione?

Il libro è il risultato del mio insegnamento alla UCLA; c’è la polemica - iniziata qualche anno prima e acutizzatasi nel periodo passato lì - contro lo scetticismo post-moderno e contro l’idea che sia impossibile tracciare un confine rigoroso tra narrazioni di finzione e narrazioni storiografiche. Mi è capitato di citare, per descrivere il mio atteggiamento al riguardo, la metafora gramsciana della guerra di posizione e di movimento: se trasponiamo questa metafora - in un contesto minimo! - possiamo dire che scavare delle trincee contro lo scetticismo postmoderno, continuando a ripetere che la verità storica è diversa dalla finzione, è una strategia del tutto inefficace. Ho cercato invece di usare le armi del nemico, attaccandolo sul proprio campo, per continuare a usare la metafora bellica. In un altro libro, Rapporti di forza, ho dunque lavorato sulla contrapposizione tra due tradizioni retoriche: quella antica, che comincia con la Retorica di Aristotele e continua con Quintiliano e Valla, per la quale le prove sono fondamentali e quindi si interroga sulla natura delle prove. L’altra tradizione retorica, anti-aristotelica, cioè ostile all’idea di prova, è quella di Nietzsche e dei suoi epigoni - quella cara ai postmoderni.

Rispetto a questa seconda tradizione ho tentato due mosse (per usare questa volta il linguaggio degli scacchi). Da un lato, ho affrontato in maniera analitica la questione della retorica, arrivando a ritorcere contro i postmoderni una delle principali armi della loro argomentazione. Dall’altro, ho lavorato sul rapporto tra narrazioni di finzione e narrazioni storiografiche, considerato come un rapporto di competizione la cui posta è la rappresentazione della realtà. In altre parole, ho risposto alla tesi secondo cui «tutto è finzione» mostrando che la finzione ha un rapporto con la realtà, e che la nostra tradizione (diciamo da Omero in poi) è caratterizzata dalla competizione e dall’intreccio tra narrazioni di finzione e narrazioni storiografiche. Ho cercato di analizzare questi temi lavorando su testi e su temi precisi.

Qui ritrovo qualcosa che ho imparato da mia madre: e cioè la convinzione che i romanzi hanno a che fare con la realtà, a partire dal modo in cui sono costruiti. E qui compare anche la figura di mio padre, perché il romanzo che mi ha messo di fronte per la prima volta di fronte a questo rapporto complesso tra finzione e realtà è stato Guerra e pace, di cui mio padre rivedeva la traduzione negli anni del confino. Ho letto Guerra e pace nella traduzione di Enrichetta Carafa D’Andria, rivista da mio padre, e preceduta da una prefazione che egli firmò con un asterisco (essendo ebreo, il suo nome non poteva comparire). Questo lavoro sulla traduzione di Guerra e pace negli anni del confino di mio padre si intrecciava profondamente al presente: allora c’era la campagna di Russia, Stalingrado ecc.

Cosa significa «provare» in termini storiografici?

La nozione di prova è qualcosa con cui ho certamente avuto a che fare fin da quando ho cominciato a far ricerca; ma che come tema di riflessione è emerso molto più tardi. Scrivendo vent’anni dopo la pubblicazione del saggio Spie (1979) mi sono reso conto che lì una riflessione sulla prova non c’era, perché ero stato tutto preso dall’euforia dal lavorio sugli indizi. L’impulso a riflettere sulla prova è emerso dopo, quando mi sono reso conto che il contesto era cambiato, e che si era diffuso un atteggiamento scettico, postmoderno che doveva essere combattuto. Così, nelle lezioni di Gerusalemme - che sono state poi pubblicate in italiano con il titolo Rapporti di forza - la «prova» veniva messa polemicamente accanto alla «storia» e alla «retorica» fin dal sottotitolo (Storia retorica prova).

Ma non si può cioè parlare delle prove in generale: le prove vanno sempre calibrate in rapporto con la documentazione esistente. Penso che lo storico debba cercare di rovesciare l’onus probandi - l’onere della prova - sui propri avversari, spostando il rapporto di forza nella discussione. Quando si tratta di dimostrare qualcosa che non è scontato, l’argomentazione deve essere sorretta da prove - prove falsificabili, diciamo con Karl Popper, e dunque in linea di principio mai definitive. Su tutto questo naturalmente c’è molto da discutere. Ho l’impressione che nell’accademia italiana la disponibilità alla discussione analitica sia purtroppo poco diffusa. Per una serie di ragioni storiche si preferisce discutere i presupposti ideologici di determinate affermazioni, anziché dimostrarne la debolezza sul piano analitico: scomponendole, individuandone gli anelli deboli etc.

Nell’ultimo libro, Paura reverenza terrore, raccolta di saggi accomunati da un riferimento all’iconografia politica, Ginzburg ricorre a una categoria dibattuta nel Novecento filosofico: quella di secolarizzazione. In che termini?

Di secolarizzazione si è molto parlato, sia in ambito tecnico, da parte dei filosofi, sia in termini non tecnici. Io ho fatto due affermazioni, forse non del tutto ovvie, riguardo alla secolarizzazione: la prima è che si tratta di un fenomeno in atto, tutt’altro che concluso; la seconda, legata alla prima, è che la secolarizzazione invade il campo delle religioni, e dunque non è affatto un fenomeno pacifico. Tutto ciò non legittima in nessun modo gli orrori che vengono perpetrati dalle religioni contro l’invasione della secolarizzazione.

Se c’è un motto che detesto è il motto: Tout comprendre c’est tout pardonner. Non si tratta affatto di perdonare. Ma comprendere che c’è uno scontro in atto è doveroso. Si tratta di uno scontro iniziato da secoli: se pensiamo ai tempi lunghissimi delle religioni, i tempi della secolarizzazione saranno per lo meno altrettanto lunghi.

Invadere il campo delle religioni significa che il potere statale utilizza gli strumenti di legittimazione della religione: il Leviatano di Hobbes brandisce sia la spada sia il pastorale. Ed è quello che intendeva Machiavelli quando diceva che il cristianesimo è una religione mite che dovrebbe invece ispirarsi alla religione feroce del mondo romano. Machiavelli pensava che ci si dovesse servire della religione in una prospettiva politica.

Esempi di questa appropriazione sono innumerevoli, e molto diversi tra loro. Io ho analizzato il caso del Marat di David, in cui Marat è rappresentato come un martire della rivoluzione (dove «martire», che significa letteralmente «testimone», rinvia a una tradizione religiosa). Il Marat di David non solo evoca Cristo ma riecheggia, come cerco di dimostrare, una scultura in marmo policromo di Pierre Legros che David aveva sicuramente visto a Roma. La statua rappresenta il beato - poi santificato - gesuita polacco Stanislas Kostka. Elementi legati all’iconografia cattolica e alla fase rococò della formazione di David si fondono con l’iconografia legata alla figura di Gesù morto, che a sua volta rinvia a Meleagro. Di questo intreccio David è perfettamente consapevole: reagisce al culto che si era manifestato dopo l’uccisione di Marat, trasformato in martire rivoluzionario, e propone una sorta di contro-culto rivoluzionario, controllato dall’élite dirigente di cui fa parte.

Ci sono due «definizioni» di storia proposte da Marc Bloch: la storia come «artigianato» e la storia come «vittoria dell’intelligenza sul dato». In quali termini Ginzburg si colloca in continuità con quelle idee?

Lo storico che mi ha convinto a fare questo mestiere è stato Marc Bloch: in particolare il Bloch de I re taumaturghi: un libro che ho avuto il privilegio di introdurre ai lettori italiani. Una sorta di discussione con Bloch è una costante che mi ha accompagnato fino ad ora. La definizione che Bloch propone dell’elemento artigianale mi pare assolutamente da condividere: nella ricerca storica non esistono ricette, perché ogni caso è diverso dall’altro; è vero però che certi casi si prestano più di altri alla generalizzazione. La riflessione sul metodo, quindi, non può essere slegata dalla dimensione empirica (molto spesso avviene il contrario).

L’altro passo - la «vittoria dell’intelligenza sul dato» - che cito nell’introduzione a Il filo e le tracce, tocca un tema cui abbiamo accennato parlando di Cusano e delle vecchie della Val di Fassa. Bloch diceva che leggere i documenti per cercare di rintracciarvi qualcosa che non faceva parte delle intenzioni di chi li aveva prodotti, è una grande vittoria «dell’intelligenza sul dato». Per l’inaugurazione di una cattedra dedicata a Marc Bloch all’Universidad de San Carlos de Guatemala ho scritto un saggio che parte dal passo di Bloch che ho appena citato, cercando di situarlo in una prospettiva più ampia. Il titolo è Revelaciones involuntarias. Leer la historia a contrapelo. Penso che la riflessione sugli strumenti della ricerca debba accompagnare la ricerca, senza interrompersi mai.

* ALFABETA2 il 16 luglio 2016. Speciale Carlo Ginzburg. Cinquant’anni di mestiere di storico.
-  Nello speciale: Una storia con additivi, tra il caso e la prova Intervista a Carlo Ginzburg
-  Spazi bianchi. Carlo Ginzburg e la storia «par l’autre sens»
-  Immagini e scrittura della storia L’icono-storiografia di Carlo Ginzburg


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