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Lezione di metodo

IL FILO E LE TRACCE. Vero, falso, finto: lo storico CARLO GINZBURG, in navigazione, tra lo Scilla del relativismo assoluto e il Cariddi del realismo fondamentalista

sabato 22 luglio 2006 di Federico La Sala
[...] In sostanza, Ginzburg è distante dall’ipotesi scientista, ovvero dogmaticamente razionalista, ma non è neppure per quella relativista che riduce tutto alla narrazione. [...]
VIDAL-NAQUET PONE LA QUESTIONE "CRITICA"(KANT), MA GLI "EICHMANN DI CARTA" NON HANNO SMESSO DI VINCERE: NESSUNO ANCORA LO ASCOLTA! Per non dimenticare, alcune sue riflessioni dal suo libro "Gli assassini della memoria"

Una riflessione sulle contraddizioni e la (...)

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> IL FILO E LE TRACCE. ---- uno stralcio del dialogo tra Carlo Ginzburg e Arnold I. Davidson, sul tema «Il mestiere dello storico e la filosofia», contenuto nel numero in uscita della rivista «Aut Aut», edita dal Saggiatore e diretta da Pier Aldo Rovatti.

giovedì 24 luglio 2008

colloquio tra Carlo Ginzburg e Arnold I. Davidson *

-  Su «Aut Aut». Dibattito tra lo studioso italiano e l’americano Arnold I. Davidson.
-  Metodi, obiettivi e pericoli nella lettura critica dei documenti
-  Ginzburg: il pre-giudizio aiuta la ricerca storica
-  «Se non si parte da una ipotesi si rischia di non capire nulla, bisogna saper imparare dal testo»

Pubblichiamo uno stralcio del dialogo tra Carlo Ginzburg e Arnold I. Davidson, sul tema «Il mestiere dello storico e la filosofia», contenuto nel numero in uscita della rivista «Aut Aut», edita dal Saggiatore e diretta da Pier Aldo Rovatti. In questa conversazione- organizzata dal festival «vicino/lontano» di Udine, lo storico italiano affronta con il suo interlocutore (studioso americano di Foucault e autore del saggio The Emergence of Sexuality, Harvard University Press) i problemi cognitivi ed etici con cui si confronta la storiografia nel ricostruire il passato sulla base dei documenti.

Arnold I. Davidson: Il tema dello straniamento, vale a dire entrare in un’altra prospettiva per riesaminare la nostra e capirne i presupposti epistemologici, mostra molto bene il ruolo di un certo tipo di pratica all’interno della storia, ma anche all’interno della filosofia. Lo straniamento ci consente di mettere in risalto la nostra prospettiva, e poi di esaminare, di discutere e di accettare in modo più conscio, oppure di rifiutare, la prospettiva altrui. Carlo Ginzburg ha insistito tantissimo sull’aspetto cognitivo della prospettiva. Il fatto che abbiamo tutti una prospettiva, che c’è sempre una prospettiva particolare, locale, non esclude che possiamo discutere le nostre prospettive, dibattere filosoficamente. Non si va dalla prospettiva particolare al relativismo assoluto: certo, c’è una prospettiva, ma si può argomentare intorno ad essa per valutare qualcosa che di solito non vediamo. Quindi la prospettiva ha questo aspetto conoscitivo.

Ma lo straniamento non è la sola posta in gioco, perché c’è anche una posta in gioco morale ed etica. Io penso sinceramente che lo storico non possa e non debba evitare nella sua scrittura, sempre, una prospettiva di valutazione; non soltanto di cognizione, ma di valutazione. Ogni frase scritta da uno storico implica una prospettiva di valutazione, per cui il problema è come mettere insieme il lavoro storico e la necessità di una prospettiva di valutazione. L’idea che il sapere sia sempre prospettico è un’idea fondamentale. Tuttavia, il problema per Ginzburg è che la prospettiva non si riduce a un rapporto di forza, non è soltanto politica: c’è un aspetto conoscitivo, ma c’è anche un altro aspetto che riguarda la prospettiva di valutazione.

La prospettiva di valutazione ha un ruolo nella storia che è molto diverso da quello che assume in un trattato di filosofia morale, dove troviamo i concetti classici di bene, male, giustizia, ingiustizia. Si tratta sempre di un giudizio, per così dire, che viene pronunciato dalla cattedra - questo è il bene, questo è il male - e implica il tentativo di giustificare con l’argomentazione filosofica il giudizio morale. Ma chi esprime un giudizio morale di questo tipo in un libro di storia perde un certo compito della storia, che non è quello di emettere giudizi morali di genere filosofico, anche se il giudizio morale non si può evitare.

Il problema allora è questo: cosa fa uno storico, che non può evitare impliciti giudizi etici, morali, quando questi giudizi sono al centro di un dibattito? Come può giustificare, non l’indagine storica in quanto tale, cioè i fatti, la descrizione degli eventi - perché per la prospettiva cognitiva c’è un legame con la verità che in un certo senso controlla e regola la prospettiva, che dice questo è vero, questo non lo è. C’è, insomma, un modello di verità che regola la prospettiva. Ma nel caso della moralità, qual è il quadro di regolazione? E qual è il rapporto tra la prospettiva conoscitiva, al centro del lavoro di Ginzburg, e la prospettiva di valutazione, dove c’entrano la filosofia morale e la politica?

Carlo Ginzburg: Bisogna superare l’idea illusoria che il rapporto con i testi o con le persone sia facile: la trasparenza è un inganno. Il primo aiuto forse ci viene dalla nozione di straniamento, che è stata evocata prima: un atteggiamento che ci fa guardare a un testo come a qualcosa di opaco. È un atteggiamento che può essere spontaneo; più spesso, è il frutto di una tecnica deliberata: non capire un testo come premessa per capirlo meglio, non capire una persona come premessa per capirla meglio. Diffido profondamente delle metodologie che trapassano i testi come un coltello taglia il burro. La loro apparente potenza è illusoria.

In realtà l’interprete trova solo se stesso. La stessa cosa succede con le persone. L’idea che tutti si capiscano è illusoria. Al contrario, il fraintendimento, la difficoltà di comprensione fa parte dei rapporti normali, anche fra persone che appartengono alla stessa cultura. Questo sforzo, quindi, è necessario e passa attraverso il riconoscimento dell’opacità. Cosa dice questo testo? Cosa mi dice questa persona? Perché fa così? Io credo che domande di questo tipo debbano essere continuamente poste. Quindi bisogna autoeducarsi a farsi domande: nei confronti dei testi, per chi fa questo mestiere; nei confronti delle persone, per chiunque - perché questo fa parte del mestiere di vivere.

Ora cerco di rispondere alla domanda che mi ha posto Arnold Davidson. Direi che, anche se ammettiamo che prospettiva cognitiva e giudizio morale siano intrecciati, nel momento in cui si fa il mestiere di storico, meno si parla di morale meglio è. Ma credo che nell’idea di prospettiva ci sia anche la prospettiva morale. Nel libro del grande storico dell’arte Ernst Gombrich Arte e illusione, l’autore evoca un aneddoto: all’inizio dell’Ottocento un gruppo di pittori va nella campagna romana a dipingere lo stesso luogo e ne vengono fuori molti quadri diversi. Come mai? Ognuno di loro si accostava allo stesso paesaggio non solo con un bagaglio tecnico, ma con qualcosa che era legato alla propria formazione. In questa specie di griglia, in questo filtro mentale entrano, io credo, anche i valori morali. Bisogna sottolineare da un lato la diversità; dall’altro, la traducibilità.

Il lavoro che facciamo di fronte a un testo è di interpretarlo, e cioè, anzitutto, di tradurlo. Possiamo dire allora che c’è un conflitto fra giudizio morale e prospettiva cognitiva? Io credo di no, a patto di ammettere che la prospettiva cognitiva non è mai neutra, sebbene sia traducibile. Molti elementi entrano nella prospettiva cognitiva, inclusi gli elementi morali, politici ecc. Tutti devono, per quanto è possibile, entrare a far parte della consapevolezza. Dobbiamo diventare consapevoli dei nostri pre-giudizi. Stacco pre-giudizi, perché siamo abituati a dare alla parola pregiudizio una connotazione negativa: mentre qualche forma di pre-giudizio, cioè di giudizio anticipato, è auspicabile, come sa bene chi studia testi. Se non si parte da un’ipotesi non si capisce nulla. Certo, dobbiamo evitare di imporre il nostro pre-giudizio. Dobbiamo essere disposti a imparare dal testo.

Davidson: Vorrei ritornare sullo straniamento, perché il problema principale sta nel fatto che è difficile da attuare. È un esercizio, una pratica, una tecnica difficile, dato che non si può stare sempre nell’atteggiamento dello straniamento.

C’è però una cosa più profonda: la prospettiva cognitiva è anche una prospettiva di valutazione. A questo proposito, leggendo un testo del grande storico italiano Arnaldo Momigliano, mi ha colpito il suo atteggiamento opposto. Egli dice: «O possediamo una fede religiosa o morale, indipendente dalla storia, che ci permette di emettere giudizi sugli avvenimenti storici, oppure dobbiamo lasciare perdere il giudizio morale. Proprio perché la storia ci insegna quanti codici morali ha avuto l’umanità, non possiamo derivare il giudizio morale dalla storia». Su quest’ultima affermazione sono d’accordo: non possiamo derivare il giudizio morale dalla storia. Tuttavia l’atteggiamento di Momigliano è che c’è un’opposizione fra la prospettiva morale, che per lui è astorica, e la storia in quanto tale. Se rifiutiamo questo presunto punto di vista, per così dire, dell’eternità, fuori della storia, bisogna trovare un giudizio morale all’interno della storia, che non si può derivare dalla storia, ma che è comunque all’interno della storia.

Qui, però, c’è un problema, perché Carlo rifiuta l’idea che il giudizio morale sia soltanto un giudizio che viene da un rapporto di forza. Se il giudizio morale è immanente alla storia, qual è la base, il fondamento del giudizio morale che non si riduce alla storia, ma che è immanente alla storia? Dove si trova il punto di appoggio per quel difficile tipo di giudizio?

Ginzburg: Mi fa molto piacere che Arnold abbia citato Momigliano, una delle persone che hanno contato di più nella mia formazione. Ora, provo a immaginare di proseguire una delle discussioni che ho avuto con lui. Che cosa direi? Direi che a mio parere la frase citata da Davidson forse non tiene abbastanza conto del punto di vista dell’osservatore. Se ci accostiamo alla varietà di comportamenti morali partendo dall’osservatore, troviamo, paradossalmente, una via che ci può portare verso l’oggettività.

In che senso? Dobbiamo distinguere tra il linguaggio dell’attore e il linguaggio dell’osservatore. Tener presente questa distinzione è utile, perché troppo spesso gli storici si comportano come ventriloqui, facendo parlare gli attori con la propria voce. Ma non credo che si debba scegliere tra i due livelli di analisi: entrambi sono necessari. Dobbiamo cercare di ascoltare i valori degli altri, anche quelli che ci appaiono dei disvalori; ma non possiamo non partire dai valori nostri, nei cui confronti un atteggiamento di assoluto distacco è impossibile, perché questo c’impedirebbe di vivere.

L’osservatore è legato a una prospettiva locale: è un uomo o una donna, appartiene a un ambiente sociale, a una comunità linguistica. Ma obiettività e investimento emotivo, politico, morale non sono incompatibili: si tratta di stabilire un rapporto tra loro. L’oggettività può emergere solo da quest’intreccio di domande e risposte.

* Corriere della Sera, 24.07.2008


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