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Libano

GUERRA: IL DODICESIMO GIORNO. Il nuovo Medio Oriente: truppe israeliane a Maroun Al-Ras

Gli occhi del mondo sono ora puntati sull’iniziativa diplomatica Usa ....
domenica 23 luglio 2006 di Federico La Sala
Bombardamenti sulla regione di Baalbeck
Dodicesimo giorno di guerra
(www.lastampa.it, 23.o7.2006)
BEIRUT. Si è aperto ieri con un’incursione israeliana via terra nel Sud del Libano l’undicesimo giorno di guerra in Medio Oriente. Truppe dello Stato ebraico sono penetrate oltre frontiera occupando il villaggio libanese di Maroun Al-Ras dopo aver bombardato e martellato la zona con tiri di artiglieria durante l’intera notte. I razzi che hanno colpito le città israeliane di Nazareth e (...)

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domenica 23 luglio 2006

Se c’è la guerra chi firma la pace? di EUGENIO SCALFARI (La Repubblica, 23.07.2006)

IL PUNTO focale della situazione internazionale ora è a Beirut, è il Libano ancora più che Gaza e Bagdad e molto di più dell’Afghanistan. Eppure tutti questi scacchieri sono strettamente legati tra loro e saranno inevitabilmente discussi insieme nel vertice di Roma di mercoledì prossimo.

Il segretario di Stato, Condoleezza Rice, ha scartato il tema della tregua d’armi retrocedendolo all’ultimo posto dell’agenda. Prima, ha detto, bisogna formulare un piano di pace. La tregua d’armi è l’effetto finale, non la premessa. Purtroppo al tavolo romano non ci saranno né i siriani né Teheran.

Quest’assenza, anzi questi mancati inviti, non sono una questione di poco conto. Se è vero che Hezbollah e l’ala militare di Hamas traggono forza dall’appoggio politico, militare e finanziario di Damasco e di Teheran, allora nessuna delle parti belligeranti sarà presente al vertice di Roma. Forse ci sarà Israele che comunque è rappresentato per tacita procura dalla stessa Rice.

Sarà dunque un piano di pace imposto da una delle parti all’altra? Nella presunzione, purtroppo tutta da dimostrare, che la parte proponente abbia già vinto? Ripeto il purtroppo: purtroppo non è così. L’Islam militante e combattente non è rappresentato né da Siniora e da Hariri né da Mubarak né dal re di Giordania e tanto meno dalla Lega araba. Ancora meno dalla Banca Mondiale che è lì nel ruolo di salmeria al seguito del Comando supremo.

Non vogliamo dire che l’incontro romano sia destinato al fallimento. Sarebbe una catastrofe se ciò avvenisse. E non diciamo neppure che il piano di pace già soprannominato Condi non sarà equilibrato e suggestivo. Diciamo soltanto che al tavolo mancherà interamente la parte islamica che ha aperto le ostilità contro Israele. La stessa strada seguita da Sharon che non negoziò con l’Autorità palestinese né il ritiro da Gaza né il (futuro) ritiro da una parte della Cisgiordania e tanto meno la costruzione del muro. Né, soprattutto, la sovranità (piena o limitata?) del costituendo Stato palestinese. Si trattava d’una pace concessa dal preteso vincitore. Il risultato è stato che la guerra continua, ha assunto forme nuove e ancor più insidiose, si è estesa dal sud e dall’est fino al nord. Mentre a Bagdad infuria la guerra civile tra sunniti e sciiti, al ritmo di cento persone trucidate ogni giorno. Queste guerre mesopotamiche e i terrorismi che le costellano possono ben essere chiamate la strage degli innocenti.

Sono gli innocenti a perdere la vita: innocenti ebrei, innocenti palestinesi, innocenti sciiti e sunniti che si scannano tra loro come vitelli al mattatoio, innocenti i libanesi sciiti, maroniti, drusi, innocenti anche i marines, i fucilieri britannici, i paracadutisti e i carabinieri italiani. Strage di innocenti. Per colpa di chi? Di chi ha il potere, di chi attacca e contrattacca, di chi coltiva la cultura della vendetta.

Nessuno la vincerà una guerra così. Perché è una guerra tra colpevoli in lotta tra loro e contro l’innocenza trasversale. Ma un rischio c’è ed è molto grosso: che gli innocenti si alleino con quella parte dei colpevoli che si proclamano loro difensori. Sarebbe un gravissimo errore, ma pressoché inevitabile. Con chi volete che si alleino cinquecento milioni di musulmani mediorientali, iraniani, pakistani, maghrebini, se non con i potenti che combattono l’Occidente imperialista?

Le truppe straniere d’occupazione? L’Occidente cristiano? L’Occidente corrotto? L’Occidente ricco? Padrone del loro petrolio per interposti sceicchi? L’Islam militante e combattente non sarà dunque presente al vertice di Roma come invece vorrebbe. L’Iran vorrebbe. La Siria vorrebbe. Hamas vorrebbe. In fondo vogliono soprattutto questo: essere riconosciuti come parti contraenti. Dovrebbero sentirsi rappresentati da Putin? Ma via, molta acqua è passata sotto i ponti del Tigri, dell’Eufrate, del Nilo. Israele, che pure si sente terribilmente solo e se ne comprende la ragione guardando alla sua millenaria storia di sofferenze e alla carta geopolitica del Duemila, un rappresentante ce l’ha a quel tavolo: è in compagnia del potente più potente del mondo.

Ma qual è l’alleato potente dell’Islam militante e combattente? E di quello "innocente" che sopporta sulla sua pelle tutti gli "effetti collaterali". Questo sarà il rebus da sciogliere mercoledì a Roma. Non sarà una giornata facile per nessuno, nemmeno per Condi che certamente è il miglior politico Usa oggi in circolazione.

Se l’Europa fosse una forza politica unitaria la soluzione del rebus forse ci sarebbe. Prodi e D’Alema lo sanno e lo dicono da un pezzo. Quasi tutti i partiti dell’Unione sono su quella linea. Berlusconi credeva di risolvere il problema con la proposta d’un piano Marshall per la Palestina, ma non c’era Marshall e tanto meno la Palestina. Fini sostiene che il governo italiano attuale è equidistante e quindi responsabile delle stragi del terrorismo.

A me non piace essere scortese ma un uomo che ha guidato per cinque anni la politica estera del nostro paese e dice imbecillità di questa dimensione fa sorgere il fondato dubbio d’essere un cretino illuminato, come recita una celebre battuta di Ennio Flaiano, da improvvisi lampi di imbecillità.

***

Giovedì prossimo, appena poche ore dopo il vertice di Roma, si aprirà in Senato una questione tutta di politica interna anche se il terreno di confronto sarà di importante attualità internazionale: il voto sul rifinanziamento e la permanenza del contingente militare italiano in Afghanistan sotto le insegne della Nato e in attuazione d’una risoluzione dell’Onu. Tutti i partiti del centrosinistra si sono ufficialmente dichiarati per il "sì" del rifinanziamento. Alla Camera, che ha già approvato la mozione del governo con 549 voti contro 4, la maggioranza è stata largamente autosufficiente. Ma al Senato quei quattro "obiettori di coscienza pacifista" provenienti da tre partiti della sinistra radicale, minacciano di essere sette o otto rinforzati dal "no" dell’ineffabile Cossiga che, pur di comparire sui giornali, sarebbe disposto a qualunque giravolta. Inaffidabile e impenetrabile quanto irrilevante.

Ma tant’è: al Senato il centrodestra voterà "sì" come alla Camera. Berlusconi annuncia che voterà "sì" anche se Prodi dovesse mettere la fiducia e spera che, al riparo di quella confluenza parlamentare, gli obiettori di coscienza saranno incoraggiati a votare "no" nel qual caso la mozione del governo passerebbe ma con il voto determinante del centrodestra. Quindi il governo - così ragiona il centrodestra con dovizia di argomenti sbandierati dallo schieramento mediatico del Cavaliere nonché da una parte importante della stampa indipendente - dovrebbe dimettersi e si marcerebbe verso la grande coalizione tra l’esultanza dei centristi di tutte le stagioni.

Prodi è stato fino all’altro ieri apertamente contrario a porre la questione di fiducia. Ha sperato che gli obiettori si convincessero alla ragione. Ma poi i leader di Rifondazione, Comunisti italiani e Verdi comunisti gli hanno confessato che i dissidenti erano irremovibili. Avrebbero ceduto solo di fronte alla questione di fiducia. "Ne siete certi?" ha chiesto Prodi. "Quasi" hanno risposto. Poi hanno aggiunto: "Lo speriamo" ed hanno concluso: "Non c’è altra strada". A quel punto il Consiglio dei ministri ha autorizzato il presidente a porre la fiducia se lo riterrà necessario. Si deciderà giovedì mattina. Prodi non sembra ancora convinto.

***

Azzardo un’opinione, ovviamente personale: mettere la fiducia sulla questione afgana è un grave errore politico e parlamentare. Spiego il perché (Claudio Rinaldi mi ha anticipato l’altro ieri su queste pagine).

1. Restare con l’Onu e la Nato in Afghanistan è importante per la coerenza della nostra politica estera e per la credibilità del governo che ha già dato e continua a dare prova crescente di discontinuità seria rispetto alla "politica delle pacche sulle spalle" del precedente governo.

2. È dunque nell’interesse del governo e del paese che la mozione sull’Afghanistan sia approvata.

3. Se la fiducia sarà posta e, ciononostante, il centrodestra votasse "sì", la mozione del governo passerà a larghissima maggioranza e - probabilmente - la dissidenza degli obiettori rientrerà. Ma non è affatto sicuro né che questo rientro vi sarà né che i berlusconiani confluiranno. Il rischio che la maggioranza non sia autosufficiente è alto; non altrettanto alto ma neppure da escludere è il rischio che la mozione sia respinta.

4. Se invece Prodi non porrà la fiducia la confluenza del centrodestra è sicura. Il rientro della dissidenza resterebbe incerto. Ma il Parlamento avrebbe comunque compiuto un passo dal quale il governo uscirebbe rafforzato.

5. L’obiezione eventuale di una parte della sinistra su un preteso spostamento del governo verso il centro sarebbe insostenibile: tale spostamento avverrebbe solo per responsabilità degli obiettori quindi, per il principio di non contraddizione, non potrebbe essere in nessun caso addebitato a Prodi e al suo governo che hanno mantenuto fermi i contenuti già da tempo preannunciati della loro politica estera.

6. Resta il fatto che la maggioranza non si sarebbe dimostrata autosufficiente. Vero, ma del tutto irrilevante.

In una Repubblica parlamentare contano soltanto i voti e non le intenzioni e le motivazioni politiche che stanno dietro al voto di ciascun deputato e senatore. Se la mozione del governo passa, il governo ha vinto. Se l’opposizione, dopo aver votato "sì" vuole le dimissioni del governo per mancata autosufficienza, ha una sola strada: presentare una mozione di sfiducia e metterla in votazione. Mi stupisce vedere che importanti leader politici dimentichino le regole parlamentari sancite dalla Costituzione. Il governo, recita la nostra Carta, si dimette se una delle Camere gli vota la sfiducia. Nessun altro caso è previsto.

Dunque dov’è il problema? Credo che Prodi non debba mettere la fiducia. Comunque, la metta oppure no, la sorte del governo è affidata solo al risultato del voto. Se vinceranno i "sì" avrà vinto il governo, se vinceranno i "no" ci sarebbe la crisi. In ogni caso se i dissidenti, fiducia o non fiducia, votassero "no" i loro partiti dovrebbero espellerli.

Probabilmente non si dimetterebbero dai seggi parlamentari e il governo al Senato avrebbe perso la maggioranza sulla carta. Soltanto sulla carta però, ma non agli effetti costituzionali. Questi si verificano soltanto, lo ripeto, quando vi sia voto di sfiducia. E se avvenisse soltanto in una delle Camere, è quella che può essere sciolta dal capo dello Stato. (23 luglio 2006)


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