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Sotto il Vesuvio...

ITALIA: NAPOLI ... UNA "GOMORRA", UN INFERNO!!! Un ’resoconto’ e una denuncia di Roberto SAVIANO

venerdì 8 settembre 2006 di Federico La Sala
PER FIRMARE APPELLO DI SOLIDARIETA’ A ROBERTO SAVIANO: http://www.sosteniamosaviano.net/

[...]Le leggi speciali chieste per Napoli sembrano essere quasi un palliativo. La situazione è speciale perché Napoli è una ferita che non riguarda solo Napoli. Nessuno può più affermare: ’Non mi riguarda’. Da qui si innescano economie e contraddizioni che irrorano il resto del paese: dai capitali criminali che altrove diventano legali, sino (...)

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sabato 14 ottobre 2006

La globalizzazione tutta «cosa nostra» è

di ALBERTO BURGIO (il manifesto, 29.07.2004)

Giurista per professione, economista per vocazione, Luigi Cavallaro nel libro Il modello mafioso e la società globale, edito da manifestolibri, esplora le analogie fra le dinamiche di sviluppo e i meccanismi della «onorata famiglia»

Luigi Cavallaro ha scritto un libro nuovo - non solo un nuovo libro - sulla «globalizzazione» (Il modello mafioso e la società globale, manifestolibri, pp. 1141, € 14,50). Il che, considerata l’alluvione letteraria, di alterno pregio, sul tema, è già merito di non poco conto. Nuovo: perché? Giurista per professione, studioso di economia (di economia politica e di politica economica) per vocazione, ferrato in filosofia per passione originaria, Cavallaro ha ragionato con spregiudicatezza sulla realtà della «società globale», allo scopo di comprendere le logiche che presiedono al suo funzionamento. Ed è pervenuto a un risultato di cui tutto si potrà dire, meno che si tratti di una tesi scontata. L’idea, alquanto irriverente, è che la «globalizzazione» si avvalga di una struttura di servizio che funziona un po’ come la mafia (quella vera, a denominazione d’origine controllata, che Cavallaro - siciliano della Sicilia occidentale - conosce bene, di là da ogni oleografia). L’ipotesi, solo in apparenza paradossale, riposa su un dato di fatto molto chiaro. Da un lato, ci sono un sistema di scambi (soprattutto di flussi finanziari) e una organizzazione dei sistemi produttivi e distributivi (connessa in particolare all’interesse delle imprese d! i insedi arsi nelle regioni in cui la forza-lavoro costa meno) che tendono a dilatarsi sull’intero pianeta. Dall’altro lato, manca una struttura normativa in grado di regolare questo sistema, che proprio in virtù delle sue dimensioni (oltre che dello straordinario dinamismo del suo funzionamento e del suo processo di sviluppo) trascende i contesti giuridici nazionali e continentali e ne invalida la capacità di regolazione.

Ora, per un verso, le imprese «globali» si giovano di questo scarto tra proiezione transnazionale dei propri mercati e vigenza locale (nazionale o continentale) dei sistemi giuridici. Se ne giovano perché la possibilità di correre il mondo senza limiti di spazio e, in taluni casi, «in tempo reale» permette loro di agire pressoché in assenza di leggi. Se, per esempio, una normativa fiscale del Connecticut procura qualche inconveniente a una impresa impegnata nella produzione di semiconduttori o nella speculazione finanziaria, la «globalizzazione» le offre la possibilità di abbandonare il territorio sfavorevole e di insediarsi dove mancano inconvenienti di questo genere, ottimizzando la remuneratività del capitale. La legge del Connecticut sarà stata così aggirata o, meglio, messa in condizione di non nuocere. Rimarrà in vigore, ovviamente: ma la si sarà lasciata a guardare, impotente, ciò che si fa altrove, dove essa non ha alcuna capacità di controllo.

Senonché, per l’altro verso, questo sberleffo alla legge è il sintomo di uno stato di cose dannoso per le stesse imprese. Il capitale fa volentieri a meno delle leggi che lo controllano (o che gli impongono rinunce a quote di profitto); ma ha bisogno - come tutti i soggetti della «società civile» - di leggi che provvedono a garantire l’ordine civile e sociale: cioè di leggi che controlla! no gli a ltri, sancendo vincoli e obblighi e limitando prerogative legittime. In altri termini, l’assenza di una struttura giuridica globale, in grado di regolare le dinamiche della «globalizzazione», produce anche insicurezza per gli attori della «società globale». Genera un bisogno di protezione. Ed è precisamente a questo punto che entra in gioco un insieme di funzioni che ricordano da vicino alcune di quelle svolte dalla mafia. La quale, a ben guardare, funge anche da «industria della protezione privata».

In un territorio come il palermitano, dove lo Stato non riesce a imporre il rispetto della legge, è inevitabile che gli attori economici si rivolgano ad altri soggetti - ad agenzie private specializzate - per ottenere protezione e sicurezza. Quali agenzie? Lo si chieda a quanti - esercizi commerciali, liberi professionisti, imprese - pagano regolarmente il «pizzo»: ammesso che risponderebbero, farebbero i nomi delle «famiglie» di Cosa nostra che contendono allo Stato il controllo del territorio cittadino. Trascuriamo il fatto che alla base dell’incapacità dello Stato di far rispettare la legge c’è proprio quella «industria della protezione» che, agendo anche come industria della minaccia e della violenza, contribuisce a rendere più che mai acuto il bisogno di sicurezza e più che mai arduo garantirla. Quello che qui interessa non sono le cause, ma il funzionamento del meccanismo. Che - come Cavallaro mostra, facendo ricorso anche alla modellistica prodotta dalla teoria dei giochi - autorizza il dissacrante parallelo tra la funzione svolta dalla mafia e quella adempiuta da altre «industrie della protezione privata», attive sullo scenario della «società globale». E qui viene il bello: ciò che fa di questo libro non solo un utile strumento per capire un aspett! o signif icativo della «globalizzazione», ma anche un lucido intervento nella discussione politologica.

Nell’ipotesi di Cavallaro, le «agenzie di protezione» attive sullo scenario globale sono proprio gli Stati nazionali. I quali agiscono dunque come agenzie private, stipulando transazioni simmetriche con le imprese «globali», bisognose di un livello di sicurezza superiore a quello che oggi sono in grado di garantire le istituzioni della «globalizzazione» (Fmi, Wto e World Bank in testa). A questo riguardo Cavallaro parla di un «rapporto contrattuale tra eguali». E fa così luce su uno dei caratteri salienti dell’attuale fase storica. Quel che la sua preziosa analisi consente di verificare in corpore vili è il fatto che la «globalizzazione neoliberista» (o «mercantilista», come più precisamente suggerisce Cavallaro) contribuisce a privatizzare gli Stati. Contribuisce cioè a smantellare quella sfera pubblica che si è venuta costituendo nel corso degli ultimi tre secoli in antitesi al potere capitalistico: per arginarlo, imporgli regole, costringerlo entro limiti compatibili con il rispetto dei diritti politici e di cittadinanza di masse crescenti di popolazione. La «globalizzazione» svela così il suo marcato volto di classe. Lasciata a se stessa, essa contribuisce a realizzare quel gigantesco processo di restaurazione che da trent’anni prosegue con esiti devastanti sul piano civile, sociale, politico e ambientale.

C’è un altro aspetto sul quale Cavallaro si sofferma, e che possiamo soltanto citare, in chiusura. L’analisi della «società globale» e della paradossale funzione che vi svolgono gli Stati nazionali permette di porre in risalto non solo la fragilità della tesi «imperiale» di Hardt-Negri, ma anche il suo segno oggettivamente apologetico. Lungi dall ’aver dato vita a un ordine mondiale (l’Impero del fantomatico «capitale globale»), la «globalizzazione» ha consegnato il mondo a un disordine generalizzato, nel quale vige la venerabile legge della forza. Forse, piuttosto che esaltarsi per nuovi pretesi modelli esplicativi, sarebbe il caso di rileggersi i padri del pensiero politico moderno - da Hobbes a Hegel - che sullo stato di natura delle relazioni internazionali ci hanno lasciato pagine memorabili.


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