Vi dico da che parte sto
di Roberto Saviano *
Ad un certo punto mi sono reso conto, forse perché vivevo una realtà complicata che la parola doveva fare altro, doveva tornare ad essere necessaria. Necessaria significa andare oltre quelle che sono le rappresentazioni delle cose. I media raccontano ad una velocità impressionante tutto ciò che accade; non c’è più bisogno quindi della parola del cronista, ma della parola letteraria, quella che entra nella ferita della ragione. La ragione è una ferita, andarci dentro è il compito. Ecco, la letteratura può fare ancora questo, perché nell’iper-rappresentazione continua, bulimica, di tutto ciò che accade, in una rappresentazione non soltanto fasulla come quella dei talk show, ma spesso anche disciplinata, come quella realizzata da alcuni reporter coraggiosi, la cronaca non basta. Tutto questo non basta, tutto questo mostra quello che è, ma la scrittura letteraria deve andare oltre, deve capire la struttura molecolare, il fegato delle cose, capire dove stiamo andando. Ad un certo punto capisci che la scrittura, in questo senso, può rovinare quello che racconta, può rovinare la vita di quel delirante autore che decide di raccontarla, può rovinarla perché la scrittura quando non ti rovina la vita, tutto sommato è una scrittura innocua.
Personalmente detesto le scritture innocue. La scrittura invece rovina la vita nel senso che ad un certo punto la scrittura diventa un unico perenne tradimento. Tradimento di tutto, perché nel momento in cui decidi di raccontare quello che per te è la verità, la tua versione delle cose, significa che stai svelando, danneggiando, infangando, rovinando, congetturando. Nel momento in cui la scrittura si prende la libertà di poter vaticinare, raccontare tutto, non aver più rispetto per nulla - perché il rispetto nello scrivere è distanza, è tutto sommato un limite, un vincolo che lo scrittore non può avere - ti accorgi che tu sei andato oltre, che hai raccontato il volto delle cose, che le hai raccontate con nome e cognome - come William Langewiesche ha raccontato i pompieri che nelle Torri Gemelle rubavano 100 paia di jeans e li andavano a vendere di contrabbando, distruggendo così l’immagine da eroi che avevano e trasformandoli all’improvviso in banditi (...)
Io cito sempre, in maniera forse anche ossessiva, l’episodio di don Peppino Diana, il parroco ucciso a Casal di Principe dalla camorra, che lui stesso prendeva da don Tonino Bello, il quale in un’omelia, ad un funerale, disse: «A me non importa sapere chi è Dio, a me importa sapere da che parte sta». Questa frase è diventata per me una sorta di manifesto anche letterario, perché gli scrittori sempre meno mostrano da che parte stanno (...)
La scrittura, tutto sommato, credo che sia questa possibilità di rendere chiara la dannazione, il vivere condizioni in cui l’umanità è sospesa ed è possibile raccontarla soltanto se gli scrittori si rendono conto che è finito il tempo della scrittura d’evasione - se mai c’è stato - quando si tratta di raccontare il meccanismo del reale. Ovviamente sto parlando di un preciso percorso letterario che per fortuna non è tutta la letteratura. La letteratura che in questo momento sento mordermi alle budella è quella che smette di raccontarsi e inizia a raccontare, a strappare la maschera delle cose, a guardare oltre, nel tessuto muscolare della realtà, senza sentire impossibile il timore della verità. Credere sempre che la verità non esiste. Una frase bellissima di Victor Serge, messa in esergo ad un suo libro sui processi staliniani, era: «tutto sommato la verità esiste». Intendendo per verità la propria versione, giocarsi così il racconto di quello che sta accadendo, il racconto soprattutto del potere.
Alla fine si va sempre a finire lì, io quanto meno vado a parare sempre lì, alla relazione tra verità e potere... forse sarà un mio errore credere all’antica verità dei tragici greci che verità e potere non coincidono mai. Questa alterità tra tra verità e potere è colmata dallo spazio della scrittura, una scrittura non cortigiana, capace di raccontare casi limite - come intendeva Foucault, raccontare lo spazio del proprio stomaco soltanto in relazione coordinata col tumulto dell’intera rete universale dell’essere umano.
Questa è la grande scommessa della letteratura. Raccontare, come mi sono ripromesso da una vita, anche se ho solo 27 anni, il percorso, per esempio, di Vito De Rosa che è stato il detenuto italiano con più anni di carcere nella storia. Più di cinquanta, dimenticato in una prigione di Aversa, un manicomio criminale. Cinquant’anni. Non bastano dieci ore per raccontare la sua storia, è finito in galera per aver ucciso il padre che lo picchiava, poi è stato volutamente dimenticato dalla famiglia in carcere. Quando mi sono accorto di lui, grazie ad un libretto pubblicato da alcuni amici, immediatamente ho pensato che solo la scrittura letteraria poteva affrontare la sua storia, perché solo la scrittura letteraria poteva coinvolgere al punto tale da far sentire quei cinquant’anni d’isolamento in una stanza. Tutti in quel momento in quella stanza, non attraverso il trucco di una parola che in qualche modo stuzzica il lettore e lo fa commuovere, ma attraverso una parola che immediatamente fa coincidere il perimetro della carne di quel detenuto col personaggio stesso, col lettore che entra in quello spazio.
* www.unita.it, Pubblicato il: 25.11.06 Modificato il: 25.11.06 alle ore 12.56