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Differenze e UmaNITA’...

IDENTITA’ E VIOLENZA. Il recente saggio di AMARTYA SEN, nel commento di Gad LERNER

lunedì 11 settembre 2006 di Federico La Sala
[...] Amartya Sen concluderà il Festivaletteratura di Mantova a pochi chilometri di distanza da quella città di Brescia in cui la ventenne pakistana Hina Saleem è stata sgozzata e sepolta in giardino da un padre-padrone "offeso" dalla sua libera metamorfosi occidentale. -Chi era dunque Hina Saleem se non, per l’appunto, una donna al tempo stesso orientale e occidentale restia a lasciarsi imprigionare da un’identità unica? Desiderosa di elaborare in autonomia le sue priorità di vita che non (...)

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lunedì 11 settembre 2006

Sen, Nobel per l’economia: «C’è un legame tra ingiustizie e terrore»

Intervista a c di Maria Serena Palieri *

Amartya K. Sen, premio Nobel per l’Economia nel 1998, ha concluso ieri a Mantova nella sede degli incontri più vasti, Piazza Castello, questa decima edizione di una manifestazione cui il nome, Festivaletteratura, va stretto: un Festival in realtà onnivoro, nel decennale bulimico, aperto a filosofi e matematici, pamphlettisti e botanici, geografi e cantautori. Sen, la cui fortuna editoriale in Italia in questo 2006 ha conosciuto una nuova primavera, accompagnava l’uscita per Laterza del suo saggio Identità e violenza. Indiano di Santiniketan e rettore del Trinity College di Cambridge, studioso del Welfare e inventore del nuovo «coefficiente di povertà», adolescente nell’India dei massacri tra hindu e musulmani seguiti alla grande Spartizione e settantenne nella Gran Bretagna degli attentati di Al Qaeda, è l’interlocutore adatto in molte evenienze attuali. A cominciare dall’anniversario che cade oggi.

A cinque anni da un altro 11 settembre, quello del 2001, lei crede confermato il giudizio di chi, allora, disse che quella sarebbe stata una data spartiacque dopo la quale «nulla sarebbe stato più come prima»?

«Certo l’11/9/2001 è stata e resta una data molto significativa: è il giorno in cui un attentato terrorista ha provocato una quantità immensa di morti. E l’abbiamo visto in diretta televisiva: è cambiata sotto i nostri occhi la skyline di New York, un luogo che sembrava l’emblema della sicurezza. Questo, sull’immaginario degli occidentali, ha provocato un effetto enorme. È stato un "evento", un avvenimento grande e sorprendente. Ma da un altro punto di vista dovremmo ricordarci che la violenza terrorista c’era già prima, e ha continuato a esserci dopo. Purtroppo, in questo senso, niente è cambiato. E non bisogna smettere di ragionare sul fatto che le morti causate dal terrorismo sono una piccola percentuale delle morti non obbligate, non naturali che si producono nel mondo. In quello stesso 11 settembre 2001 molta più gente nel pianeta, compresa New York, è morta di Aids, o per altre cause violente, rispetto alle vittime provocate dal crollo delle Twin Towers. Ogni giorno fame e deprivazioni uccidono più del terrorismo».

Insomma, anche l’ 11/9 non è un evento assoluto, come lo vive una parte dell’opinione pubblica americana, ma va contestualizzato?

«Sì. E un punto di vista più saggio, più integrato, non può non cogliere il nesso che c’è tra squilibri economici e violenza. Il colonialismo - che persiste - e lo sfruttamento creano disuguaglianze, per esempio nella cura delle malattie, e generano rabbia verso l’Occidente. Il legame tra disuguaglianza e terrorismo non è automatico, ma c’è».

In questo suo nuovo libro «Identità e violenza» lei ha due obiettivi polemici: da un lato lo «scontro di civiltà» (risposta conseguente, per alcuni tra cui il presidente Bush, all’11 settembre); dall’altro, però, un multiculturalismo in apparenza più rispettoso delle infinite differenze tra gruppi umani, meno guerrafondaio. Dov’è la prevaricazione insita in esso? E, se è vero che esso a volte appare un ginepraio di divieti e scrupoli, qual è la bussola con cui orientarci?

«In questi anni in cui la parola "identità" ha un corso così largo, io propugno un’idea in fondo vicina al comune buon senso. Nessuno di noi appartiene a un solo gruppo umano. La stessa persona può essere un’italiana, una donna, una cittadina di Mantova, una persona di sinistra, una professoressa di matematica e un’appassionata di pianoforte e di pittura rinascimentale. Tutto ciò, tutto insieme, contribuisce alla sua identità. La violenza è nell’essere costretti a scegliere un solo dato: sono un musulmano, sono un cristiano, sono un induista. Anche qui, invece, conta il contesto: se sono vegetariano e vado a cena con amici, essere vegetariano è significativo. Ma se vado a votare, nel seggio il mio vegetarianesimo non c’entra. Rabindranath Tagore parla di "lealtà", da un lato, e di "scelta": posso far "mio" un aspetto di un’altra cultura che mi piace. La cultura non deriva solo dal luogo in cui siamo nati. Questo è l’errore del multiculturalismo. Il sistema educativo, le relazioni sociali, la vita, ci offrono altre possibilità. Come economista so bene che esistono i vincoli. Ma poi, appunto, ci sono anche le scelte».

Un antropologo italiano, Francesco Remotti, autore di un saggio su questo tema, Contro l’identità, già dieci anni fa, quando in Italia la Lega sosteneva un modello identitario basato sulla fobia isolazionista, proponeva quello che possiamo chiamare il «paradosso del cannibale»: il cannibale che, dopo averlo ucciso, "mangia" il nemico per assimilarne coraggio e valore, è, per paradosso appunto, ci diceva Remotti, il paradigma cui ispirarci.

Lei ritiene che in questi ultimi cinquant’anni, con l’esaltazione delle «differenze» e i «culture studies» si sia sprecato tempo e che basterebbe tornare indietro alla «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» del 1945?

«La Dichiarazione del ’45 è importante perché, per la prima volta, stabiliva che libertà e diritti umani sono propri di ogni individuo, viva in democrazia o sotto una dittatura, in Italia o in India, in una colonia - allora ce n’erano ancora molte - o come cittadino d’una potenza imperiale. Ancora oggi è valida. Ma, dopo cinquant’anni, abbiamo nuovi problemi: per esempio è cambiata la mobilità, a quel tempo un fenomeno che vedeva soprattutto i cittadini dei paesi ricchi muoversi verso le colonie, mentre oggi sono al contrario le masse di diseredati che emigrano e si sono globalizzati. L’economia è come le malattie. Quella Dichiarazione va aggiornata e arricchita, alla luce di ciò che c’è di nuovo».

L’Italia è un paese dove l’immigrazione è recente. La vicenda di Hina, giovane pakistana uccisa dai parenti maschi perché «disonorava» la famiglia, ci ha messo in modo cruento di fronte al problema del rapporto tra il nostro diritto e il costume di queste comunità. Amartya Sen sa suggerirci una ricetta, un principio di base con cui orientarci?

«Il diritto di ogni essere umano è conoscere la propria comunità, ma anche le altre. E scegliere in quale vivere. Non si tratta di imporre un proprio diritto, quello italiano, agli altri. Si tratta di concedere a tutti la stessa libertà di scegliere, cambiare, avere se vuole una metamorfosi rispetto al mondo in cui è nato».

*

www.unita.it, Pubblicato il: 11.09.06 Modificato il: 11.09.06 alle ore 13.16


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