Casa delle donne di Kobane, molto di più di un centro antiviolenza
di Matteo De Fazio (Riforma, 04 agosto 2016)
Sta per cominciare la ricostruzione della Casa delle donne a Kobane, spazio di condivisione e solidarietà, distrutta dai miliziani di Daesh durante l’occupazione della città siriana. Il progetto di ricostruzione del luogo di scambio ed empowerment femminile è stato ideato dall’associazione romana Ponte Donna ed è stato finanziato anche dall’Otto per mille della Chiesa valdese: «siamo partite con un utopia, siamo tornate con un progetto concreto», racconta Carla Centioni, presidente dell’associazione.
Perché Kobane?
«Ponte Donna si occupa di donne e nello specifico di violenza, ha gestito dei centri e l’attenzione alle tematiche femminili è centrale nella sua attività. In questo contesto, quando c’è stata l’occupazione di Kobane da parte di Daesh e si sono formate le prime staffette di solidarietà, noi abbiamo voluto realizzarne una di donne, nel febbraio del 2015. In quell’occasione siamo andate a Kobane con l’idea di avviare uno scambio di pratiche con le donne a proposito della Casa delle donne prima che fosse distrutta dai militanti di Daesh. Sono partita con un’idea molto occidentale di cosa sono i centri anti violenza in Rojava, ma mi sono dovuta ricredere, perché lì hanno un livello di evoluzione maggiore rispetto a noi. La casa delle donne di Kobane rappresenta il luogo dell’incontro delle diverse culture e religioni, un luogo della solidarietà con un senso molto più ampio rispetto ai nostri modelli in Italia, uno spazio di formazione e di ricerca volto alla consapevolezza delle donne curde, che ha trent’anni di evoluzione. Loro hanno dovuto fare un lavoro villaggio per villaggio, partendo dalle esigenze delle donne locali: la critica che hanno fatto a noi durante lo scambio, per esempio, è che il nostro femminismo è molto teorico. Loro sono partite dal basso su necessità impellenti, come capire perché nel villaggio accanto le ragazze si suicidavano, per poi intervenire. Lavorano su tematiche pratiche e fanno un lavoro di ricerca storica partendo da dove è sorto il patriarcato nella loro società».
Le immagini delle donne curde col fucile ci hanno fatto immaginare un’emancipazione che ripartiva dalla consapevolezza e dall’azione: ma c’è molto di più oltre a questo.
«Sì, c’è molto di più. L’immagine che abbiamo visto è una delle motivazioni che mi hanno spinto ad andare a Kobane: un’immagine riduttiva, strumentale e occidentale. Il corpo delle donne curde qui in occidente veniva dipinto come “le donne con kalashnikov”, ma loro hanno una consapevolezza molto più alta rispetto al fucile che portano addosso. Anche la nostra idea di ricostruire la Casa delle donne si è trasformata con l’incontro: si è fatta strada la possibilità di creare un luogo di incontro con tutte le donne del mondo, dove ognuna dal suo paese porti la propria pratica, le proprie idee e dove possa vivere quello che abbiamo vissuto noi, diventando dunque un’accademia, un luogo ancora più forte di ricerca e formazione».
Cosa prevede il progetto edile della casa?
«Siamo partite con un’utopia, siamo tornate con un progetto concreto. Abbiamo lavorato insieme a volontari che ci hanno creduto, mentre con degli ingegneri ci siamo procurate delle foto satellitari per realizzare un computo metrico, cercato i materiali per la costruzione per poi immaginare come edificare la casa: uno stabile di tre piani, con una foresteria all’ultimo per l’accoglienza di uomini e donne da tutto il mondo, perché questo luogo diventi una testimonianza di una liberazione possibile».
Con quali altre associazioni avete collaborato?
«Come partner del progetto abbiamo il Koerdisch Instituut di Bruxelles, che si occupa di cultura curda, Uiki Onlus che si occupa dei contatti politici e Lucha Y Siesta, un centro antiviolenza di Roma. Costruire la casa sarà possibile anche grazie al finanziamento dell’Otto per mille della Chiesa valdese».
Come avete incontrato questa chiesa?
«Sono gli unici che hanno creduto in questo progetto. Il moderatore della Tavola valdese ha apprezzato l’idea ma ci ha chiesto molta concretezza, che siamo riuscite a realizzare solo dopo un anno. Volevo che il progetto fosse molto credibile e realistico, e ha funzionato».