Nomi e potere, quando a decidere è il «genere»
di Luisa Muraro *
L’apatia politica, oggi purtroppo diffusa, non ha né sesso né età, ha detto giustamente Benedetta Barzini nel suo intervento al dibattito promosso da l’Unità. Se così è, non sembra giusto rivolgersi specialmente alle donne e prendersela con le femministe. Una ragione c’è, tuttavia: negli ultimi decenni le donne sono state protagoniste di cambiamenti positivi e le aspettative nei loro confronti sono ancora vive, come ha mostrato il recente messaggio di Veronesi sulla forza delle donne. Ciò di cui occorre tenere conto è che anche loro, le donne, anche noi, le femministe, avevamo delle aspettative e che molte di queste non hanno ancora trovato risposta. L’indignazione femminile non è un pulsante che si possa premere a piacere.
Farò un caso soltanto, minore solo in apparenza, quello del linguaggio della vita pubblica. Tra i paesi europei che conosco meglio, l’Italia è l’unico che non ha ancora imparato il corretto uso del femminile nel linguaggio pubblico. In Italia invece regna il disordine: maschili tenaci («il ministro» Carfagna), femminili strampalati («presidentessa»), nomi maschili con articoli femminili e predicati che vanno per conto loro, imbarazzo di chi si rivolge a una Letizia Moratti: «Signor sindaco» o «Signora sindaco»...
Ma non è solo la lingua che ne soffre. Se la donna che lavora in fabbrica si chiama operaia e quella che serve la clientela, commessa, ma quella che governa una città o siede in parlamento prende un titolo di genere maschile, il messaggio che si riceve è trasparente. La questione è stata posta molto presto dalle femministe e ripresa dai linguisti più attenti, ma con risultati modesti. Sciatteria e disordine continuano a regnare nell’uso corrente, sui giornali e negli altri media, forse per inconsapevolezza della posta in gioco.
Attualmente ci troviamo a fare i conti con un altro effetto della tendenza a cancellare il femminile o a ridicolizzarlo quando si presenta fuori dalla sfera della vita familiare. È il contraccolpo che ne viene alle donne attive nella vita pubblica ed esposte per ciò stesso al clima di volgarità favorito da un capo del governo che promette cariche pubbliche in cambio di servizi sessuali. E rende così letteralmente vera la vecchia equazione maschilista tra donna pubblica e prostituta. Si capisce che queste donne siano indignate. Non si capisce però che se la prendano con altre donne (le ragazze che accettano inviti altolocati, le mamme delle ragazze, le femministe che non fanno manifestazioni). Qui, infatti, non c’entrano le aspettative, qui si tratta di risposte che bisogna incominciare a dare in prima persona alle persone giuste, che nel caso in questione non sono le donne.
Berlusconi non ha inventato niente, occorre dirlo? Nella bottega sempre aperta del potere dove tutto si compra e tutto si vende, lui si è distinto per certi comportamenti che sono un’esplicita caricatura di quello che lì avviene. Il contrasto fra un certo successo popolare che ha in Italia e lo scandalo che suscita all’estero, si riduce in fondo a una questione di distanze. Da distante si vede quello che esce dalle righe. Da vicino si vede anche la cerchia dei tanti che gli somigliano, sui quali lui riesce a spiccare per una schiettezza di uomo furbo, come quando ha replicato “non sono un santo”. Da vicino si vede anche che l’indignazione che suscita in Italia non è tutta di buona marca. Ci sono uomini, e sono tanti, che si sentono offesi nella loro dignità di facciata. Gli va bene che la bottega funzioni ma che sia con un certo decoro. In che cosa questo consista esattamente, non lo so, però ho notato un fatto degno di attenzione: le donne coinvolte nelle ultime vicende berlusconiane non hanno sacrificato niente sull’altare del decoro di facciata e invece hanno sacrificato qualcosa su quello del dire la verità.
* l’Unità, 31 agosto 2009