Napoli, Merola, giacobini e sanfedisti
di Peppe De Cristofaro (Liberazione, 18.11.2006)
Ha ragione Giuseppe D’Avanzo, sulle colonne di Repubblica di qualche giorno fa, a denunciare la subcultura plebea e reazionaria che ha fatto da sfondo alle esequie di Mario Merola. E ha ragione, se possibile ancora di più, a stigmatizzare le dichiarazioni di quelle istituzioni locali, certamente oggi in difficoltà, che ne hanno salutato la scomparsa in maniera retorica e finanche patetica. Quella stessa classe politica capace, fino a qualche anno fa, di opporre agli aspetti più deteriori della napoletanità, una inedita ed importante ricerca, innovativa ed avanzata (e, forse, talvolta, persino eccessiva), che per esempio ha reso Napoli una capitale dell’arte contemporanea, sembra adesso subire il ritorno di quella egemonia culturale che la città sembrava essersi messa alle spalle: la solita rappresentazione fatta di luoghi comuni e stereotipi, della sceneggiata e della guapparia, che rappresentano, certamente, l’immagine meno significativa e più deteriore della tradizione. Eppure, vorrei dire a D’Avanzo che bisognerebbe cercare di mettere a tema come si possa sconfiggere questa subcultura reazionaria, evitando però la tentazione della critica elitaria, dell’isolamento, della separatezza tra classe dirigente ed intellettuale e popolo, che resta, a Napoli, il nodo più rilevante e complesso, almeno dal 1799 ad oggi. E’ mai possibile che Napoli debba essere ancora divisa tra un sanfedismo volgare, amico dell’oscurantismo e della reazione, e un giacobinismo progressista e portatore di idee, ma incapace di costruire una vera connessione sentimentale col popolo?
L’impressione è che questa frattura non sia ancora sanata, forse anche per come si è determinato, dall’unità d’Italia e poi per tutto il Novecento, lo sviluppo economico e sociale della città. La stessa presenza di un proletariato industriale propriamente detto, a Napoli, ma in realtà nell’intero Mezzogiorno, ha avuto un carattere di breve termine, e concentrato in alcune aree determinate, che non a caso facevano parlare di “cattedrali nel deserto” e non di “modello di sviluppo”. La borghesia poi, la stessa che in altre parti d’Europa ha contribuito a formare l’idea stessa dello Stato moderno, ha fatto tutto fuorché esercitare un ruolo dirigente e trainante, abbandonata com’era (e com’è) nella ricerca del piccolo privilegio, e, talvolta, nel ladrocinio. Sanare questa frattura dovrebbe essere il primo obiettivo. E dovrebbe esserlo ancor di più oggi, alla luce dei mutamenti in atto. Quel gigantesco passaggio di ciclo che abbiamo chiamato globalizzazione, ha reso il Mezzogiorno, e Napoli in esso, un laboratorio avanzato di una perversa modernità, un luogo di sperimentazione di politiche aggressive e destrutturanti, che hanno reso ancora più fertile il terreno per la semina delle camorre e della criminalità.
Torna urgente il tema della costruzione dei rapporti sociali di massa e la necessità di immaginare, di fronte a problemi strutturali, interventi che sfuggano alla tentazione di dare risposte episodiche, di provvedimenti tampone incapaci, peraltro, di fronteggiare l’emergenza. Le risposte presentate finora per il sud, dopo i cinque anni di abbandono delle politiche del precedente governo, sono una prima inversione di tendenza, ancora largamente insufficienti. Non appaiono ancora come una idea complessiva per rilanciare un modello di sviluppo per quei territori in cui i fatturati delle bande criminali rappresentano un terzo del prodotto interno lordo. Forse questa è la risposta alla domanda iniziale. La frattura si sana ricostruendo quel tessuto democratico lacerato da troppi anni di politiche incapaci di far diventare il sud una questione nazionale. Si sana cercando di prosciugare quel mare sporco in cui la camorra nuota e cresce.
Ma la frattura si sana anche sporcandosi le mani. Come provò a fare Elenora Fonseca, la più illuminata del gruppo dirigente giacobino, in quel, nemmeno troppo lontano, 1799. Eleonora non condivise, nei primi mesi della Repubblica partenopea, la presenza delle truppe francesi a Napoli, comprese che la democrazia non si esporta sulla punta delle baionette, cercò, in tutti i modi, di costruire quella stessa connessione col popolo di cui avrebbe parlato, oltre cento anni dopo, Antonio Gramsci. Comprese che anche le idee più progressiste e rivoluzionarie servono a poco se non sono accompagnate da un processo di partecipazione collettiva. Se sono imposte e non determinate dal basso. Certo, anche lei finì impiccata a piazza Mercato, la stessa che ha salutato Merola tra fuochi d’artificio e lacrime napoletane, da quello stesso popolo a cui aveva dedicato l’esistenza, ma certamente la sua lezione è ancora una tra le più interessanti chiavi di lettura per comprendere Napoli e l’intero Mezzogiorno. Allora, se tutto questo è vero, le critiche giuste di D’Avanzo andrebbero rivolte, oltre che alla plebe dei lazzari, dei vicoli e della violenza, anche e soprattutto a quella stessa borghesia incapace di svolgere il ruolo che avrebbe dovuto avere.