Più diritti e salari, in Cina ondata di scioperi.
Ieri il turno di Denso (Toyota)
Le prime proteste scoppiate a metà maggio tra i lavoratori della Honda e tollerate dal regime di Pechino che in questo modo alimenta la domnda interna. Lunghini: «Ma in Cina vige già la dittatura del mercato».
di Giuseppe Vespo (l’Unità, 23.6.10)
Continua l’ondata di scioperi nelle fabbriche straniere in Cina. Ieri è toccato agli operai della Denso Corporation del gruppo Toyota bloccare lo stabilimento di componenti per auto nel sud del Paese per chiedere maggiori diritti e aumenti salariali.
MOBILITAZIONI
Partite a metà maggio nelle fabbriche della Honda, in poche settimane le rivendicazioni dei lavoratori cinesi si stanno estendendo in molte zone industrializzate della Cina. In alcuni casi con successo. Alla Honda gli operai hanno ottenuto aumenti salariali tra il 15 ed il 24 per cento. Mentre nelle due filiali Toyota di Tianjin, città portuale del nord, i lavoratori sono tornati sulle linee di montaggio dopo aver scioperato nel fine settimana. L’azienda ha affermato che si sta ancora «discutendo» e non è chiaro se sia stato già raggiunto un accordo sugli aumenti di stipendio. Ma ormai indientro non si torna. Nei giorni scorsi scene simili si sono viste anche nelle fabbriche che producono componenti per Iphone e Ipod.
Oggi in Cina chi lavora nell’industria manifatturiera guadagna tra i 900 ed i 1500 yuan, ovvero tra 107 e 180 euro al mese. Troppo poco per un operaio che comincia a guardare ai colleghi dei Paesi industrializzati, meglio pagati e meno produttivi. Da qui le proteste, seguite in negli ultimi mesi anche dalla stampa di regime. Mentre lo stesso governo pare che abbia assunto un atteggiamento più tollerante rispetto a quelche tempo fa.
«È un fenomeno molto interessante», sostiene Giorgio Lunghini, economista e professore di Economia Politica all’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia. «È la testimonianza di come la Cina, che per anni si è retta sui salari bassi per sostenere la sua macchina industriale, stia invertendo la rotta». Sono due le cause di questo processo, secondo l’economista. «Da una parte il rischio che le tensioni sociali si allarghino tanto da diventare incontrollabili. Dall’altra l’idea che i salari più alti possano rilanciare il consumo interno, che potrebbe così sostituirsi alle esportazioni. Come è avvenuto negli Usa ai tempi di Ford». Insomma, anche la Cina ha scoperto le potenzialità del suo mercato.
E mentre lì si sciopera per conquistare dei diritti da noi ci si mobilita per tutelarli. «Non credo però che sia possibile accostare la vicenda di Pomigliano alle crescenti rivendicazioni degli operai cinesi», chiude Lunghini. «A Pomigliano è in atto un ricatto che azzera le conquiste sindacali di decenni e lo Statuto dei lavoratori. Un fatto nuovo e grave. In Cina vige già la dittatura del mercato».