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EU-TANASIA: IL DIRITTO DI MORIRE. IL CORAGGIO DELLA PAROLA, NON LA TRAPPOLA DEL SILENZIO. Una nota di Claudia Mancina, e di Luigi Manconi - a c. di pfls

lunedì 25 settembre 2006
[...] Dobbiamo davvero augurarci che l’invito del capo dello Stato - si discuta di eutanasia «nelle sedi più idonee» - sia accolto. E proprio perché, come ha aggiunto Giorgio Napolitano, «il solo atteggiamento ingiustificato sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabilità». Questo avrebbe, innanzitutto, una conseguenza assai grave: la morte - resa evento ordinario fino alla banalizzazione e oggetto di consumo, serial televisivo e prodotto di mercato - resterebbe un (...)

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> EU-TANASIA: IL CORAGGIO DELLA PAROLA, NON LA TRAPPOLA DEL SILENZIO. Una nota di Claudia Mancina, e di Luigi Manconi

domenica 10 dicembre 2006

Il diritto di morire

di BARBARA SPINELLI *

Il volto di Piero Welby che da tempo ci accompagna con il suo sguardo non è un volto pacificato, passivo, docile. È un volto molto severo che interroga, un volto d’intranquillità che esige da ciascuno di noi pensiero profondo, partecipazione a una questione nuova e cruciale, decisioni non dettate solo da compassione ma da qualcosa di più esigente e di meno intimo: da un nuovo senso di responsabilità, che includa certo la pietas e l’amore ma che si estenda all’etica e alla legge, due categorie fatte non solo di compassione. È chiaro che Welby avrebbe potuto entrare nella morte con qualche personale sotterfugio: se ha scelto di non farlo è per trasformare la propria vicissitudine in vicissitudine che concerne noi tutti. L’incontro con il taciturno sofferente non potrebbe esser più parlante, essendo incontro con il suo morire e col nostro più o meno prossimo morire. Il diritto per cui si batte, lo vuol ottenere non solo per sé ma per chi patisce come lui. Di solito, quando parliamo di diritti pensiamo subito a beni ritenuti positivi, vitali: il diritto al lavoro, o a fare ed essere in un certo modo. In apparenza il diritto invocato da Welby è privo di questa positività, ha rapporti col buio, col nulla. La sua storia e i suoi scritti testimoniano della falsità di simile assunzione. La morte è forse quel passaggio verso il nulla o verso l’eternità, nelle mani della natura o di Dio. Ma il morire e il modo di morire ci competono interamente, sono un’essenza dell’esistere umano. Quando gli antichi greci davano agli uomini il nome di mortali, o effimeri, lo sapevano bene: il morire era un tempo del vivere, e addirittura il più importante perché dava all’esistere una speciale qualità. Il filosofo Hans Jonas ha parlato della mortalità come di una benedizione, essendo quel che rende la vita così preziosa. Se non sapessimo di esser mortali, se non sapessimo che la persona amata è mortale, ogni giorno distruggeremmo gli affetti e mai ci verrebbe in mente di dar loro l’improbabile colore dell’immortalità. I grandi amori sono tali quando poggiano sull’idea della morte non ipotetica ma sempre vicina: la nostra, e specialmente dell’essere amato. Parlare del morire è questione vitale per eccellenza, che riassume tutte le questioni dell’essere. Di qui quell’impressione strana, quando sugli schermi appare Welby: tutto quel che accade attorno a lui viene come oscurato. L’incontro con quel volto ci porta alle soglie dell’enigma più vitale e più sacro: a qualcosa che appartiene a noi e alla divinità, che è trafugato a noi e a lei.

La questione del diritto a morire è nuova e cruciale da quando la scienza e la tecnica medica hanno compiuto progressi che hanno stravolto il morire. Non si moriva così, quando non esisteva quest’enorme potere che può prolungare artificialmente la vita con medicamenti, tubi, macchine. Non c’era bisogno allora di fissare un limite all’accanimento terapeutico, o di permettere che l’accanimento sia rifiutato da chi è appeso alle macchine senza coscienza (il testamento biologico). La stessa parola eutanasia andrebbe adattata alla straordinaria mutazione che viviamo, e rinominata: non è in questione la bella morte. È in questione il ben-morire, la strada che precede il passaggio finale. Questa strada è stata sottratta alla capacità dell’uomo di darsi sue leggi, attraverso l’auto-nomia, ed è posseduta da macchine da noi inventate: macchine che trasformano l’uomo in un mezzo docile e utile, che si sorveglia e si punisce allo stesso modo in cui son sorvegliati e puniti, secondo Foucault, i prigionieri. Non a caso Welby parla di prigione, paragonando la propria condizione a quella di prigionieri del terrorismo come Moro. La prigione della medicina che s’accanisce in nome di valori morali è terroristica: taglia le ali alla preparazione della morte, che è la nostra più intima aspirazione; tratta l’essere umano non come fine ma come mezzo. Lo trasforma in uomo docile e utile per la politica o l’ideologia. Il volto di Welby dice questa indisponibilità, più umana e meno prometeica delle macchine mediche, all’esser docile, utile e consolato. Il progresso tecnologico ha dilatato le possibilità umane d’intervenire sulla natura, creando un potere bio-politico smisurato e invasivo (Jonas ricorda come potere e fare ­ Macht, machen ­ abbiano in lingua tedesca la stessa radice). E siccome siamo responsabili di quel che facciamo, è ovvio che le nostre responsabilità aumentano col ramificarsi di questo potere. La morte in sé non mette veramente spavento: il terribile dolore è di chi sopravvive, Epicuro dice parole sagge quando ricorda che «la morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi». Non così il morire, che invece crea panico perché quando c’è lui, può accadere che noi esistiamo senza più esistere, come morti-vivi. È un panico cresciuto mostruosamente non essendo il morire più nelle nostre mani, e per questo tocca riappropriarsene. Non è un diritto che s’accampa in opposizione a Dio, al sacro: in realtà il morire è stato tolto anche alla natura, a Dio. Se agissero la natura o Dio, moriremmo senza respiratori. Quel che vediamo guardando Welby è il trionfo della tecnica umana sull’umanità, il trionfo dell’artificio sulla natura e sul divino. Inutile parlare di silenzio di Dio: chi colpevolmente tace su simili mostruosità sono i politici, i pensatori, la Chiesa. L’autonomia del morente e il diritto di morire restituiscono naturalezza e sacralità a un capitolo fondamentale della vita. L’etica del morire è un’etica vitale, essendo la risposta responsabile all’estendersi del bio-potere.

Bisogna poter dire le proprie volontà in previsione di un morire incosciente: è il testamento biologico. Bisogna avere il diritto ­ già esistente, riconosciuto dalla Chiesa ­ di rifiutare l’accanimento terapeutico. Altra questione è l’eutanasia. Questione scabrosa, perché ci mette di fronte a contraddizioni spesso insanabili: il progresso medico-scientifico può esser pericoloso, e al tempo stesso offrire speranze a molti ammalati; porre un limite alla libertà di procurare la morte è necessario, anche se crudele. Nessuno può prendere alla leggera qualcosa di cui si è fatto abuso criminoso, non nell’antichità ma sei decenni orsono. Chi decide infatti se una vita debba considerarsi indegna d’esser vissuta? Il malato o la società, con la legge? Se decide il collettivo il rischio è grande che non avremo solo la bella morte ma la morte utile alla società, o alla razza, alla nazione, ai bilanci sanitari. L’eutanasia può divenire un’estensione del bio-potere, anziché frenarlo. Può anche snaturare la missione del medico, che vedrebbe i propri poteri ingigantiti nel bene e anche nel male. Ogni medico diverrebbe per il paziente una sfinge: obbedirà a Ippocrate, cercando di sanare e lenire, o mi ucciderà per una sua idea di pietà o convenienza? Tuttavia la questione va affrontata perché troppo grande è il mutamento del morire. Negarla vuol dire non vedere la mutazione, e consolarsi con concetti che significano ormai poco se non vengono radicalmente ripensati, innovati, vivificati. Si discute molto di valori eticamente sensibili, cui molti cattolici danno il nome di valori indisponibili, quasi esistessero valori che solo la Chiesa può curare. Qui è l’errore, fatto di pigrizia o presunzione.

L’etica del vivere e morire (ma anche del convivere, della famiglia) non è qualcosa che appartiene ai vescovi, disponibile solo al loro discernimento. Appartiene ai credenti, ai non credenti, e all’ultima istanza che per ambedue è la coscienza. Anche gli atei son chiamati a pensare l’eutanasia come tema eticamente delicatissimo, necessitante una rivoluzione linguistica e mentale. In Germania l’eutanasia è tabù per ragioni storiche, non religiose. Come aiutare allora a morire, come staccare la spina divenuta intollerabile al malato? L’amore e la compassione vogliono aiutare sempre più, man mano che cresce la responsabilità. La legge non è compassione ma può contemplare come mai si è così immensamente esteso questo bisogno d’amore legato al diritto di morire. Tutto sta nel muoversi lungo un crinale stretto, evitando le chine scivolose: una cosa è uccidere e un’altra il lasciar morire, il confine è tenue ma esiste. Lasciar morire è qualcosa di cui possiamo riprender possesso, fin d’ora: restando fedeli a valori irrinunciabili ma aprendoci a quegli «atti d’amore» e responsabilità cui accenna don Verzè, quando racconta come staccò la spina a un amico, anni fa. Se c’è consenso del sofferente si può lasciar morire interrompendo le cure, somministrando dosi crescenti di antidolorifici, staccando anche la protesi che è il respiratore. Non lasciare il malato solo con il suo morire, davanti all’onnipotenza della scienza medica: questo è oggi l’imperativo. Quel tipo di vita, appeso a una macchina impersonale e indifferente, ha da tempo cessato di essere un valore: tanto meno un valore indisponibile. Se la Chiesa lo considera ancora tale, vuol dire che s’identifica con quel potere e quella macchina dissacratrice.

* La Stampa, 10/12/2006


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