Eutanasia
(ri)leggetevi
il catechismo
di ARRIGO LEVI (LA Stampa, 2/6/2008)
Mi stupisce, anche se non sono forse la persona più adatta a parlare di questi temi, che il dibattito sull’«accanimento terapeutico» e l’«eutanasia» sia condotto senza che da nessuna delle due parti sia chiamato in causa il Catechismo della Chiesa Cattolica, articolo 2278 (cito dall’edizione del 2006 della Libreria Editrice Vaticana). Si direbbe che, oltre alla Bibbia, gli italiani non abbiano l’abitudine di leggere nemmeno questo testo, che vuol essere «esposizione completa ed integra della dottrina cattolica», emanato da Giovanni Paolo II, nell’edizione preparata da una Commissione Interdicasteriale costituita a tale scopo dal Papa nel 1993, e presieduta da colui che sarà suo successore, l’allora cardinale Joseph Ratzinger.
Dice dunque l’articolo citato, che si trova a pagina 608 del volume: «L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente».
La rinuncia a intervenire
È bensì vero che il precedente articolo 2277 afferma che «un’azione oppure un’omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore» costituisce comunque un «atto omicida», anche se compiuto «in buona fede». Nel caso in discussione, quale articolo si deve applicare?
Il discrimine tra i due articoli è in verità sottile, e a mio parere non privo di ambiguità. Nel caso della paziente di Modena, che ha rifiutato la tracheotomia, col consenso del giudice, sembra a me evidente che l’intervento avrebbe protratto per un periodo di tempo limitato la sua agonia, ma non le avrebbe salvato la vita. Si sarebbe trattato quindi di una procedura medica sicuramente «onerosa», per la paziente stessa, e «sproporzionata rispetto ai risultati attesi». Sicché la rinuncia all’intervento stesso, in base alla «ragionevole volontà» della paziente stessa, a suo tempo comunicata a chi di dovere, non mirava a «procurare la morte» della paziente, ma soltanto accettava «di non poterla impedire». E la rinuncia all’intervento era una «rinuncia all’accanimento terapeutico».
L’interpretazione corretta
A mio avviso è questa l’interpretazione corretta del dettato del catechismo, quale emerge peraltro dall’intervista concessa alla Stampa dal vicario episcopale di Bologna, monsignor Nicolini; secondo il quale «la dottrina è importante ma la compassione e la misericordia non lo è di meno», talché «è difficile rifiutare al singolo il diritto al rifiuto informato delle cure»; e che abbia in questo caso avuto torto il cardinale Giovanni Battista Re, anch’egli intervistato dal nostro giornale, che ha giudicato il tragico epilogo di vita della signora Vincenza Santoro Galani come «il primo caso di morte a comando».
Il mio giudizio, ovviamente, vale per quel che vale. Non sono io in grado di dire con assoluta certezza chi, fra i due illustri prelati, abbia torto, e chi abbia ragione. Trovo comunque lodevole che sia stata da noi resa pubblica questa divergenza d’opinione, che può dare il via a un utile dibattito all’interno della Chiesa stessa. Quanto a me, mi tengo all’articolo 2278, che mi è sembrato opportuno ricordare in questo caso, visto che non l’ho mai visto citato da nessuno in casi analoghi, e perché mi sembra convalidi, da una prospettiva rigorosamente cattolica, il giudizio, che condivido, di Michele Ainis, apparso sulla Stampa di venerdì, fondato sui nostri dettati costituzionali e sulle nostre leggi. Ma non nego che la lettura delle 982 pagine del catechismo è un esercizio un po’ faticoso, e forse poco diffuso. Ma è consigliabile, utile e istruttivo.