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Conflitti

Attentato a Kabul, morto un soldato italiano

martedì 26 settembre 2006 di Emiliano Morrone
Kabul, 26 set. - (Adnkronos/Ign) - Ancora sangue italiano sulle strade di Kabul. Un ordigno, esploso al passaggio di una pattuglia a 10 chilometri dalla capitale Afghana, ha ucciso il Caporal Maggiore Capo Giorgio Langella e ferito altri cinque soldati, di cui due in modo grave. Gli altri tre hanno invece riportato ferite lievi
L’attacco è avvenuto alle 8 locali (le 5,30 in Italia) mentre un convoglio di tre blindati Puma stava attraversando il distretto Chahar Ayab, a sud di Kabul. Ad (...)

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> Attentato a Kabul, morto un soldato italiano

mercoledì 27 settembre 2006

Il prezzo della pace

di Luigi Bonanate *

Un’altra bomba contro gli italiani, un altro caduto fra i nostri militari all’estero. L’attentato di ieri in Afghanistan, nel quale ha perso la vita il caporal maggiore Giorgio Langella e che ha provocato il ferimento di cinque soldati, ci ha ricordato quanto lontani, troppo lontani siano i nostri militari inviati in missione di pace. Lontani dall’Italia, ma vicini alla guerra.

L’Afghanistan è vicino al Pakistan, che è vicino all’Iran che è vicino all’Iraq che è vicino (anche se non contiguo) al Libano.

Questo è l’impressionante intreccio geografico-politico che sta dando vita a un nuovo «grande gioco» mediorientale che potrebbe essere decisivo per le sorti del mondo. Ma diversamente da un tempo, quando soltanto potenze coloniali come la Gran Bretagna o la Francia, o super-potenze militari come gli Stati Uniti o l’Unione Sovietica, potevano intervenirvi facendo e disfacendo i loro interessi, oggi anche «il resto del mondo» è entrato in partita e, volente o nolente, si è trovato a incidere su una dinamica complicata ma essenziale per le sorti della pace.

In questo gioco sono così entrate anche cosiddette «potenze medie» o minori, come l’Italia e (se non s’offende) la Francia, alle quali tocca in Libano di svolgere un’opera di mediazione interlocutoria, intesa a evitare che le cose franino in un contesto internazionale incerto, insicuro, inquieto: tutte conseguenze di quella specie di perdita del centro che il sistema internazionale sperimenta da ormai diversi anni (tutti tranquilli: a partire da ben prima dell’11 settembre!). A guardar la carta geografica effettivamente vengono i brividi perché se fosse vera la vecchia teoria americana del domino, la progressiva caduta sotto schiaffo dei paesi mediorientali, che giorno dopo giorno vedono peggiorare i loro rapporti (non ho enumerato Israele e Autorità nazionale palestinese e gli altri attori mediterranei ma non per questo essi sono irrilevanti), dovrebbe essere premonitrice di altre e più gravi crisi.

Se la situazione è davvero difficile, allora le operazioni di peace-keeping che vi vengono intraprese si liberano di ogni sciocco parvenza di pacifistica ingenuità per trasformarsi in decisivi strumenti diplomatici rivolti ad assorbire spinte e tensioni che altrimenti potrebbero degenerare. Il più ovvio e palese esempio di tutto ciò è rappresentato dalla crisi libanese, in sé non spontanea in quanto ennesima degenerativa puntata della questione israelo-palestinese, ma tale che, se nelle settimane scorse fosse stata abbandonata a se stessa, probabilmente oggi l’intero Mediterraneo sarebbe in guerra. E dunque la missione in Libano diventa il banco di prova di un rinnovato (o innovativo) multilateralismo che si intreccia con il prediletto unilateralismo statunitense che potrebbe davvero ridare all’Europa (meglio, all’Unione Europea) un ruolo di attore principale nel governo dell’ordine mondiale, che sarebbe perfetto per un’entità che non è più uno stato e non è né sarà mai una superpotenza. Ma in questa fase storica si richiede ancora il dispiegamento di eserciti, il ricorso, seppure il più limitato possibile, alla coercizione e dunque anche alle armi, che mirano a dissuadere ogni avventurismo o qualsiasi tentativo di sfruttare le eventuali disarmonie infra-occidentali.

L’Italia ha operato manu militari in Iraq, agisce ancora in Afghanistan ed è appena arrivata in Libano - un’Italia che non vince soltanto mondiali di calcio e ciclismo, ma ha imparato anche a collaborare internazionalmente ai programmi Onu per la salvaguardia della pace nel mondo. Mi si passi il pizzico di retorica, a favore dell’Onu più che dell’Italia, per sottolineare che mentre un tempo i principali fornitori di «caschi blu» erano paesi marginali e poco significativi per le sorti della politica internazionale, oggi certi compiti sono meglio assolti da paesi più attrezzati e che hanno innovato radicalmente (come è stato in Italia) la formazione professionale e culturale dei loro soldati. In questo quadro diventa pochissimo comprensibile la polemica che di tanto in tanto riemerge sugli italiani-brava-gente, troppo bonaccioni, pacifici e poco determinati. Molto più importante è chiedersi se quel che si sta cercando di fare tutti insieme avrà gli effetti sperati. Se ovviamente è per tutti noi difficile fare previsioni, possiamo però agevolmente trarre dei consigli o degli ammonimenti dalle esperienze appena fatte. In Afghanistan, dove eravamo andati con il sostegno di un’opinione pubblica sconvolta dall’11 settembre, ci troviamo ora di fronte a un vero e proprio insabbiamento dell’occupazione di cui non si vede un prossimo sblocco mentre le difficoltà aumentano e la pacificazione si allontana. E i fatti di ieri ne sono la nuova, triste conferma. Forse l’Afghanistan non era il bersaglio più preciso rispetto allo scopo. In Iraq eravamo andati con un sostegno popolare risicatissimo; vi siamo rimasti più del necessario, e in una postura strategica contratta, intimiditi e preoccupati (non senza ragione) anche perché la direttiva ufficiale - portare la pace - mal si coniugava con le difficoltà che si trovarono sul territorio.

Il ritiro dall’Iraq lo ha lasciato quasi nella stessa situazione in cui l’avevamo trovato; il rinnovo della missione in Afghanistan rientra in un puro e semplice mantenimento di una promessa di cui però non si vedono sbocchi e che addirittura getta fosche luci sul vicino Pakistan, occulto protagonista di quasi tutte le operazioni illecite in corso nel mondo, dalla droga al terrorismo. In Libano si può dire invece che l’Italia sia andata con l’adesione dell’opinione pubblica, e con programmi chiari e semplici, diversamente dunque dalle precedenti missioni. Non sarà merito italiano ma di una semplificazione del quadro degli impegni solidaristici tra gli Stati del mondo, ma partecipare a un esperimento così suggestivo potrebbe rivelarsi per il nostro paese un investimento molto più significativo che quello delle cene spettacolari e delle strette di mano hollywoodiane a cui il precedente governo aveva fatto così sovente ricorso per mascherare l’assenza di una progettualità politica internazionale. E dunque, ora più che mai, è bene ricordare un principio forte della nostra politica verso le grandi crisi internazionali: all’estero i soldati si mandano quando servono alla pace e non alla vittoria dell’uno o dell’altro. E perché tutto finisca bene, l’opinione pubblica deve essere ben informata e in grado di esprimersi.

*

www.unita.it, Pubblicato il: 27.09.06 Modificato il: 27.09.06 alle ore 9.44


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