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Lager ... e Società !!! “Quali sono le strutture gerarchiche di un sistema autoritario e quali le tecniche per annientare la personalità di un individuo? Quali rapporti si creano tra oppressori e oppressi?” (Primo Levi, "I sommersi e i salvati").

Modi di dire. La «ZONA GRIGIA» fu introdotta vent’anni fa da PRIMO LEVI. Una nota di Marco Belpoliti

mercoledì 27 settembre 2006 di Federico La Sala
[...] tutte quelle situazioni e luoghi dove si trovano a convivere centinaia o migliaia di persone, dalle caserme agli uffici, dagli ospedali alle fabbriche, là dove si produce quella dialettica di potere tra un vertice che comanda e un una base che ubbidisce.
In mezzo c’è appunto la zona grigia, quella di coloro che in vario modo e a vario titolo e responsabilità collaborano al funzionamento della macchina di potere. Levi voleva far capire che questa zona possiede «una struttura interna (...)

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> Modi di dire. La «ZONA GRIGIA» fu introdotta vent’anni fa da PRIMO LEVI. - Si assiste a un’evoluzione del suo significato non sempre coerente con quello originario

domenica 24 marzo 2019

Zona grigia

di Frediano Sessi (Doppiozero, 23.03.2019)

Da quando l’espressione «zona grigia», proposta da Primo Levi, è entrata nel vocabolario concettuale contemporaneo, si assiste a un’evoluzione del suo significato non sempre coerente con quello originario e, a volte, addirittura «cannibale» rispetto ad altri concetti o espressioni in uso da tempo. Si pensi a indifferenza, inerzia (tipici della sociologia, della storia sociale o della psicologia sociale), narcisismo sociale o sonnambulismo, che sono stati impiegati per interpretare il culto dell’io, il venire a patti, costi quel che costi, con il potere o, ancora, al pensiero diffuso che spinge a «farsi i fatti propri» e a perdere interesse per gli altri.

A livello storico, molti autori hanno fatto uso del concetto leviano; tra essi, Claudio Pavone e Renzo De Felice, per lo più riferendosi al conformismo degli italiani sotto il fascismo.

Per parte sua, Renzo De Felice definisce la zona grigia, uno spazio composto da quanti, dopo l’8 settembre del 1943, «riuscirono a sopravvivere tra due fuochi». Pavone parla invece di scarsa coscienza politica e civile di quegli italiani che tra fascismo e resistenza non presero parte, e aspettarono l’evolversi degli eventi. Tanto più alto fu il tasso di violenza collettiva, scrive, «tanto più da quella zona grigia poterono nascere comportamenti in qualche modo comuni ai due grandi territori contrapposti».

Più vicino al contenuto originario leviano, di zona grigia, il pensiero di Tzvetan Todorov sui modi e sulle scelte di vita in un paese totalitario (a regime comunista), dove «non si può vivere senza accettare compromessi»; senza adattarsi al potere.

Questa accezione di zona grigia si applica agevolmente alla storia dei Gulag, come a quei Paesi dove il comunismo riusciva comunque a esercitare una forte pressione sulla vita e sulla possibilità di sopravvivenza dei singoli cittadini.

Nel caso dei Gulag, Luba Jurgenson sottolinea il fatto che parlare di zona grigia a proposito del campo sovietico significa far comprendere le dinamiche di un luogo che è lo specchio della società.

Gli albori della formulazione leviana del concetto di zona grigia possono essere rintracciati (a posteriori) nel secondo libro dello scrittore torinese La tregua (1963), quando Levi, nel capitolo finale, «Il risveglio», scrive: «Sentivamo fluirci nelle vene, insieme col sangue estenuato, il veleno di Auschwitz»; perché sembra proprio il «veleno di Auschwitz» che può trasformare la vittima in un collaboratore efficiente. Secondo Marco Belpoliti, già in Se questo è un uomo, e a partire dalla figura dei Muselmänner, si va delineando la zona grigia come: «uno spazio di sopravvivenza a ogni prezzo». E nel capitolo dieci, opponendo Muselmänner e privilegiati, Levi tratteggia una sorta di topografia del limite umano/non-umano per esplorarne i confini. Certo, qui in Se questo è un uomo come nel libro La tregua emerge la consapevolezza del tema, ma il concetto resta solo abbozzato.

Del 1976 è la traduzione di Levi, dal Neerlandese, del libro di Jacob Presser, La notte dei Girondini, per il quale scriverà una prefazione; e del 1977, è l’articolo di Levi sul quotidiano torinese «La stampa», al centro del quale spicca la figura di Chaim Rumkowski (presidente del Consiglio ebraico del ghetto di Lodz), e l’idea di una vasta fascia di zona grigia, all’interno della quale esplorare il tema dei rapporti tra oppressore e oppresso.

Per Levi, tuttavia, il concetto di zona grigia, che si fa strada gradualmente, non assume solo un significato culturale, ma pure un risvolto importante di politica della testimonianza. Proprio a fronte di film e di proposte editoriali che travisano i fatti accaduti nei lager, Levi vuole precisare anche attraverso il concetto di zona grigia la sua opposizione a coloro che confondono vittime e carnefici.

Tuttavia la formulazione definitiva dell’espressione «zona grigia» si trova, in particolare, nel saggio I sommersi e i salvati (1986). Nella sua prima esposizione, rimanda alla natura del dominio (potere) totalitario in Lager, che esercita una pressione «infera» sui deportati, spingendo una minoranza di loro a collaborare. Perciò, «la classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l’ossatura».

Questa zona grigia dove abitano il privilegio e la collaborazione, avrebbe radici profonde:
-  in primo luogo, in un’area ristretta del potere che per essere esercitato necessita di collaboratori;
-  in secondo luogo, nella lunga durata dell’oppressione, che spinge una parte delle vittime a collaborare.

Queste due radici, singolarmente o combinate, sono all’origine di questa «fascia» grigia, i cui componenti, nei confronti delle altre vittime non privilegiate, sono accumunati dalla volontà di conservare il proprio privilegio, condizione necessaria anche se non sufficiente - sottolinea Levi - per la sopravvivenza.

C’è chi sostiene, come Anna Bravo, che questo sia l’unico modo di intendere correttamente il concetto di zona grigia leviano. Tuttavia, proprio nel momento in cui Levi (1986, p. 27) scrive che è assurdo e storicamente falso pensare che il Lager santifichi le sue vittime: «esso le degrada e le assimila a sé», apre subito dopo alla possibilità di estendere la nostra conoscenza della zona grigia: sia «se vogliamo conoscere la specie umana»; sia «se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare» (Levi, 1986, p. 28). Ma subito aggiunge, allargando ancor più la possibilità di ampliare il concetto ad ambiti diversi dal Lager: «se anche soltanto vogliamo renderci conto di quello che avviene in un grande stabilimento industriale» (Ibid.)

Condizione necessaria per questa estensione sarebbe, comunque, che la collaborazione dei subordinati si origini da una forte e lunga costrizione e non da un semplice desiderio di carriera o miglioramento, tipico di molte istituzioni delle società moderne.

In ogni caso, «zona grigia» resta un’espressione destinata a trovare nuovi sviluppi nel pensiero contemporaneo, a partire da un approfondimento dell’opera di Primo Levi, ancora tutta da studiare.


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