«Dante e il paesaggio dopo la battaglia»: la lectio magistralis alla «Milanesiana», oggi
di Aldo Cazzullo (Corriere della Sera, 28 giugno 2021)
Diceva Voltaire che Dante è più citato che letto, più apprezzato che amato.
Forse ha ragione. Molti non hanno amato Dante. Machiavelli non amava Dante. Lo rimproverava di aver denigrato la patria fiorentina, e di aver scritto troppe parolacce, di aver usato uno stile «porco»; ma Dante voleva usare tutti i registri, l’alto e il basso, il lirico e il comico, il sublime e il grottesco, per restituire tutte le sfaccettature dell’animo umano.
Anche Petrarca non amava Dante. Si vantava di non possedere neanche una copia della Divina Commedia e di non averla mai letta. E in una lettera a Boccaccio, che invece adorava Dante - fu Boccaccio a definire la Commedia «Divina», fu Boccaccio a inaugurare la tradizione delle letture di Dante in pubblico, arrivata sino a noi grazie a Giorgio Albertazzi, Vittorio Gassman, Vittorio Sermonti, Carmelo Bene, Roberto Benigni -, Petrarca scrive che lui non ha mai letto Dante, perché se l’avesse letto avrebbe tentato di imitarlo; e Dante è troppo grande per essere imitato. Ma, aggiunge Petrarca, se Dante fosse vissuto nel nostro tempo, «pochi avrebbe avuto più amici di me».
Poi, se volete la mia impressione, Petrarca non solo aveva letto Dante, l’aveva pure annotato e mandato a memoria.
Fatto sta che quando scoppia la guerra tra Genova e Venezia, Petrarca scrive una lettera ai dogi delle due città per scongiurarli di non combattersi. Genova e Venezia erano gli occhi d’Italia: uno guardava a Ovest, verso il Tirreno, l’altro a Est, verso l’Adriatico; e l’Italia aveva bisogno di entrambi gli occhi. I dogi ignorarono la lettera, e la guerra la fecero lo stesso. Eppure un seme era stato gettato.
L’idea dell’Italia era già nata, grazie a due poeti: Dante e Petrarca.
Qualcuno ha detto che Dante parla all’umanità, mentre Leopardi parla all’uomo. Certo Dante si è posto il problema dell’anima, del libero arbitrio, della salvezza, della cosmogonia; non a caso Eliot sosteneva che Dante fosse più profondo e più grande financo di Shakespeare, che detto da un inglese...
Ma Dante si è posto il problema di ogni singolo uomo. Non a caso il viaggio comincia così: «Nel mezzo del cammin di nostra vita»: dove la parola chiave è nostra.
Dante ci dice fin dall’inizio che la storia parla di noi. Ci interessa. Ci riguarda: in quanto esseri umani; perché la Divina Commedia non è solo un viaggio ultraterreno, è anche un viaggio dentro l’animo umano, sino ai confini di ciò che è in noi.
E ci riguarda in quanto italiani. Perché Dante è l’inventore dell’Italia.
Ci sono nazioni nate dalla politica, dalla diplomazia, dalla guerra.
La Francia è nata da una guerra: una donna forte, Giovanna d’Arco, aiuta un re fragile a cacciare gli inglesi invasori, e nasce la Francia.
La Spagna è nata da un matrimonio dinastico: la regina di Castiglia sposa il re d’Aragona, e nasce la Spagna.
L’Inghilterra è nata da un divorzio: Enrico VIII si libera della moglie e del Papa, e nasce l’Inghilterra moderna.
L’Italia no. L’Italia è uno Stato molto recente. Ma in realtà l’Italia, quando nel 1861 diventa uno Stato, c’era già, da molti secoli. Perché l’Italia è nata dalla cultura e dalla bellezza. È nata dagli affreschi di Giotto e dai versi di Dante. Che è quindi un po’ il nostro papà. Non a caso è l’unico poeta che chiamiamo per nome, anzi per soprannome (lui si chiamava in realtà Durante degli Alighieri); come se chiamassimo Leopardi Giacomino o Manzoni Sandro.
È Dante a inventare l’espressione Belpaese. Dante è il primo a parlare di Italia. Dante ci ha dato una lingua: una lingua viva ancora oggi, pensate a quante espressioni coniate da Dante usiamo ancora adesso: stare fresco, stare solo soletto, cosa fatta capo ha, essere a buon punto, avere un piede nella fossa, degno di nota, senza infamia e senza lode, non mi tange, far tremare le vene e i polsi, non ragioniam di lor ma guarda e passa, lasciate ogni speranza o voi ch’entrate, a riveder le stelle.
Ma Dante ha fatto molto di più: ci ha dato un’idea di noi stessi. Per Dante, l’Italia aveva conquistato il mondo due volte: con l’impero romano e con la fede cristiana. E per Dante l’Italia aveva una missione: conciliare la classicità con la cristianità, la Roma dei Cesari e la Roma dei Papi. E da questo incontro nasce la cultura umanista; che è il motivo per cui ancora oggi l’Italia è importante nel mondo.
A Firenze, accanto al «bel San Giovanni» dove Dante fu battezzato, c’è il meraviglioso campanile di Giotto. È un’opera di architettura; del resto, è un campanile. Ma è anche un’opera di pittura, perché è dipinto. Ed è un’opera di scultura, perché è scolpito. E agli Uffizi, accanto alla Maestà del suo maestro Cimabue, c’è una Madonna giottesca seduta su un trono che ha le stesse decorazioni del campanile; segno che si facevano così anche i mobili.
L’Italia è sempre stata il software del mondo. Il luogo in cui veniva pensato il mondo, e il modo di raffigurarlo. L’Italia è sempre stata il posto dove nascevano gli stili: la pittura gotica, il Rinascimento, il manierismo, il barocco, il rococò, il neoclassicismo, il futurismo, la metafisica. E tutto questo comincia con Dante.
L’idea d’Italia comincia con lui e arriva sino ai giorni nostri, passando attraverso i grandi di ogni tempo. Giotto affresca il volto di Giotto al Bargello. Raffaello ritrae Dante due volte nella stessa stanza in Vaticano, tra i teologi e tra i poeti, accanto a Omero. Poco prima di morire, il venerdì santo del 1520, a 37 anni, Raffaello scrive una lettera a un Papa fiorentino, Giovanni de’ Medici, Leone X, il figlio di Lorenzo il Magnifico, per chiedergli di salvare le vestigie dell’antica Roma, «quel poco che resta di questa antica madre della gloria e della grandezza italiana». Non dice «romana», Raffaello; dice proprio «italiana».
Michelangelo aveva un sogno: scolpire la tomba di Dante Alighieri. Così incoraggiò i fiorentini ad andare a recuperare i resti di Dante, che i ravennati non volevano restituire. Nottetempo, un commando penetrò nella tomba: ma trovò solo tre falangi di un dito. I frati avevano tolto lo scheletro dal sarcofago e l’avevano riposto nel convento. Scornatissimi, i fiorentini tornarono con un’urna vuota. Solo che i frati avevano nascosto i resti del poeta talmente bene, che non si trovavano più.