Solo l’Europa può salvare Gaza
Il dialogo con Israele ormai è impossibile. L’etnocidio del popolo palestinese non si ferma. La politica americana, nonostante la sconfitta di Bush, resta incerta. Occorre un intervento energico
Oggi più che mai la questione palestinese si presenta come l’epicentro incandescente di un conflitto di dimensioni globali. Fermare l’etnocidio del popolo palestinese non è soltanto la condizione della pace in Medio oriente. E’ ormai la sola via per impedire che un’ondata di follia terroristica - del terrorismo delle grandi potenze, anzitutto -- ci precipiti nell’abisso di una guerra globale.
Fermare gli Stati Uniti in Iraq e la Nato in Afghanistan sarà possibile e avrà senso soltanto dopo che Israele sarà stato in qualche modo costretto a rispettare i diritti elementari dei palestinesi. Le “porte dell’inferno” non si chiuderanno in Medio oriente se le sofferenze del popolo palestinese non avranno trovato un minimo di comprensione, come in questi giorni uno scrittore israeliano, David Grossman, ha avuto il coraggio di affermare con lucidità e grandezza morale di fronte ai rappresentanti del suo governo.
La road map si è rivelata un’impostura del governo Sharon e dell’amministrazione Bush. Le colonie israeliane continuano ad espandersi nel lembo di terra rimasta ai palestinesi dopo quarant’anni di occupazione militare. La muraglia ideata da Sharon incombe sui campi e sui villaggi come le pareti di un carcere, emblema odioso dell’arroganza degli invasori. Le by-pass routes riservate ai coloni israeliani si moltiplicano, le case palestinesi continuano ad essere abbattute con i bulldozer, gli olivi divelti, i pozzi distrutti, i leader politici imprigionati o carbonizzati con razzi “intelligenti”. La violenza omicida e l’ottusità razzista del governo Olmert-Lieberman non trova ostacoli.
La reazione palestinese si era limitata in queste settimane all’uso di razzi artigianali, sostanzialmente innocui. Ma non sarà più così: il terrorismo, incluso quello suicida, purtroppo riprenderà vigore. E non avrà più senso parlare di un futuro Stato palestinese “accanto” a quello israeliano. Quello Stato non ci sarà mai, perché le condizioni geopolitiche, incluso lo spazio territoriale, sono state violentemente cancellate. Occorrerà tentare di elaborare prospettive diverse, coinvolgendo il mondo arabo-islamico e magari dialogando con esponenti illuminati della cultura ebraica come, fra gli altri, Avi Shlaim, Jeff Halper, Ilan Pappe.
Oggi, dopo la devastazione del Libano, dopo la dichiarazione di Olmert che la Cisgiordania non verrà restituita al popolo palestinese, dopo la strage efferata di Beit Hanoun, non c’è più la possibilità di un dialogo diretto fra Israele e le autorità palestinesi. Un energico intervento internazionale è la sola alternativa praticabile, come il presidente Abu Mazen e il leader Haniyeh hanno ritenuto, chiedendo concordemente e ottenendo una riunione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza.
La netta sconfitta dei repubblicani nelle elezioni di mid-term, il rigetto popolare del delirio bellicista del presidente Bush, le dimissioni del falco Rumsfeld fanno sperare nella possibilità di una svolta nella politica estera statunitense e, di rimbalzo, di quella israeliana. Ma non c’è per ora alcuna certezza che un parlamento a maggioranza democratica si schiererà per una politica estera alternativa a quella repubblicana. La storia degli Stati Uniti sembra autorizzare ipotesi contrarie, come in questi anni il sistematico consenso dell’ex presidente Clinton con la linea Bush ha confermato. Sarebbe in ogni caso ingenuo pensare che l’aggressività neo-imperiale di Stati Uniti e di Israele possa essere sconfitta non da contropoteri esterni ma da dinamiche politiche endogene. Bush ha del resto già dichiarato che gli Stati Uniti non lasceranno l’Iraq se non “a lavoro concluso”. E Olmert ha confermato che le operazioni militari nella striscia di Gaza non si fermeranno a causa dell’increscioso incidente di Beit Hanoun.
E’ dunque altamente improbabile che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dominato dal potere di veto dell’ambasciatore degli Stati Uniti, il falco John Bolton, prenda qualche decisione di rilievo. Nel breve periodo sembra dunque profilarsi una sola soluzione possibile, per quanto debole e informale: quella di una pressione politica ed economica a livello internazionale che costringa Israele ad accettare l’internazionalizzazione della questione palestinese e l’intervento di agenzie di controllo e di ispezione lungo le linee di confine che lo separano dalla Cisgiordania e da Gaza e all’interno dei territori occupati. E’ una proposta che dovrebbe partire dall’Europa - un’Europa capace di un gesto di coraggio dopo decenni di sudditanza atlantica - ed essere rivolta anzitutto alle grandi potenze regionali emergenti, a cominciare dalla Cina, dall’India e dal Brasile. Il nostro ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, che in passato ha accennato ad una prospettiva analoga, potrebbe trovare una preziosa occasione per dare prova di coraggio e di lungimiranza schierandosi senza ambiguità con il popolo palestinese.
Danilo Zolo (venerdì 10 novembre)