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SCIOPERO DEI GIORNALISTI ...LIBERTA’ DI STAMPA E DEMOCRAZIA IN PERICOLO. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: “Il rinnovo del contratto dei giornalisti è un diritto primario”. Serventi Longhi: "Parole come pietre". Siddi: "Viva gratitudine al Capo dello Stato". E il grido d’allarme di Furio Colombo.

giovedì 16 novembre 2006 di Federico La Sala
[...] Se i titolari dell’imprese editoriali continueranno a negare non solo il diritto alla contrattazione ma anche il diritto al confronto tra parti sociali, anche a fronte dell’alto messaggio del Presidente della Repubblica, vorrà dire che occorrerà aprire una seria e severa riflessione nel Paese sul venir meno di una funzione fondamentale degli editori che, in tal caso sarebbero avviati verso la via, pubblicamente insostenibile, dell’irresponsabilità sociale.
La tutela di un bene (...)

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> SCIOPERO DEI GIORNALISTI ...LIBERTA’ DI STAMPA E DEMOCRAZIA IN PERICOLO. --- Editoria...La stampa libera perde cittadinanza e diventa suddita (Come uccidono la nostra libertà - di Giancarlo Aresta).

martedì 23 settembre 2008

EDITORIA

-  Come uccidono la nostra libertà

-  Dopo la cancellazione per legge del «diritto soggettivo» e i tagli della Finanziaria,
-  il governo vara un regolamento per ciò che resta dei finanziamenti pubblici all’editoria non profit.
-  Norme aleatorie e vincolate alla «variabilità» dei bilanci.
-  La stampa libera perde cittadinanza e diventa suddita

di Giancarlo Aresta (il manifesto, 21.09.2008)

Mercoledì 17 settembre è stato presentata alle associazioni degli editori, ai sindacati e alle organizzazioni del settore una bozza del Regolamento, che - sulla base dell’art. 44 del Decreto Tremonti - definisce i nuovi criteri di erogazione dei contributi sia diretti che indiretti all’editoria. Erano presenti il sottosegretario con delega all’Editoria Bonaiuti, il ministro della Semplificazione Calderoli e il professor Masi, segretario generale alla presidenza del Consiglio e capo del dipartimento Editoria. Ne scriviamo solo oggi, perché c’è voluto un po’ di tempo per riprenderci dal trauma di quell’incontro. Il settore è in una crisi profonda, che ha toccato oggi - dopo anni di utili assai alti - anche i grandi gruppi, colpiti dalla liquefazione delle vendite degli «allegati» (enciclopedie, libri e quant’altro), che per oltre 5 anni hanno rappresentato la droga dei loro bilanci, anche quando le vendite delle proprie testate scendevano. Ma di questo malessere nell’incontro non si vedeva traccia. Mentre era assai forte la tendenza a mettersi al servizio del nuovo «principe». Ma veniamo al merito. Per quanto riguarda i contributi diretti, il nuovo Regolamento cambia profondamente le vecchie norme legislative, ma va collocato all’interno della nuova norma, prevista dall’articolo 44 del Decreto Tremonti. In sintesi, non stabilisce i contributi, che i giornali cooperativi, non profit e di partito avranno, ma quanto gli spetterebbe se ci fossero i soldi (che fino a oggi non ci sono, o in ogni caso non bastano). Ed interviene anche sui criteri di erogazione degli indiretti. Rappresenta, insomma, il profilo virtuale del riparto delle risorse nel settore.

Meno diritti

Sui criteri di attribuzione dei contributi diretti, c’è un’operazione di semplificazione fortissima. Le testate ammesse riceveranno 2 milioni, purché non superino il 50% dei costi di testata, più 0,90 centesimi a copia, fino a 25 milioni di copie diffuse nell’anno (entro il limite massimo del 60% dei costi). Si tratta di una leggera tosatura (dal 4 al 7%) per la maggioranza dei quotidiani, mentre ha un esito molto diseguale, in specifici casi veramente pesante, sui periodici. Il limite dei 25 milioni di copie bastona tre testate, le più grandi, l’Unità, l’Avvenire e Libero (con quest’ultima, che lascerebbe sul campo oltre il 40% degli aiuti di Stato, che peraltro riceve a forza di espedienti).

I giornali di partito vengono equiparati ai non profit (e questa è una cosa positiva), e perdono mediamente attorno al 15% Viene accolta una rivendicazione da tanto tempo avanzata da Mediacoop, che riteneva indecente che venisse permesso agli ex giornali di movimento politico (quelli ammessi negli scorsi decenni ai contributi in rappresentanza di fantomatici movimenti creati da un deputato e un senatore, norma poi cancellata) di continuare a percepire i contributi, se trasformati in cooperative, anche se non di lavoro. Domani anche questi dovranno avere almeno la metà dei giornalisti tra i loro soci, almeno la metà dei loro soci dipendenti, e fare entrare in cooperativa tutti i giornalisti dipendenti che ne facciano richiesta.

Un fatto, che coinvolge, ad esempio, Il Foglio e Il Riformista , ma a cui sfugge Libero, che si è sottratto a questo rischio trasformandosi in quotidiano controllato da una Fondazione l’ultimo giorno in cui questo era possibile (da tre anni le Fondazioni non sono più ammesse ai finanziamenti, se non le preesistenti). Si passa, per attribuire le risorse, dal concetto di «tiratura» a quello di «distribuzione»: verranno cioè conteggiate non tutte le copie stampate, ma solo quelle diffuse nel circuito delle edicole o in quello della sperimentazione (supermercati, bar e altri negozi) o vendute in abbonamento. E anche questa dovrebbe essere un’indicazione positiva. E non si tiene conto, al fine dei contributi, delle copie vendute in blocco, che rappresentavano uno scandalo, perché permettevano ad alcuni editori di far risultare più alta la diffusione, con vendite di comodo a prezzi irrisori. Ma nello stesso tempo si abbassa di molto il parametro tra distribuzione e vendita (dal 25% al 15% per i giornali nazionali e dal 40% al 30% per i locali), che era e resta un requisito di accesso ai contributi, permettendo a molti ’amichetti’ di rifarsi per le perdite subite: soprattutto ai giornali che stampano 4 o 6 pagine. Si fissano parametri di occupazione (altra richiesta «storica» di Mediacoop), ma sinceramente ridicoli per i quotidiani (almeno 5 dipendenti giornalisti o poligrafici, per chi dovrebbe ricevere 2 milioni di contributo). Mentre sono più rigorosi per i periodici, le radio e le agenzie.

Più pubblicità

Dulcis in fundo Si abolisce, in modo apparentemente incomprensibile, il tetto del 30% di entrate pubblicitarie sui costi. Ma se questa legge era nata per sostenere quelle testate, che avevano un carattere autogestionario e non profit, ma soprattutto erano discriminate sul mercato pubblicitario, che rappresenta circa le metà delle entrate di tutti gli altri editori? Si tratta di una spinta agli editori finanziati ad «andare sul mercato»? Non diciamo sciocchezze. È il mercato che discrimina i giornali politici e di idee, per quanti sforzi facciano e malgrado l’influenza seria che queste testate hanno sui loro lettori (dal manifesto all’ Avvenire , dall’ Unità a Liberazione o Il Secolo ). Pur avendo una grande forza di attrazione su di essi, non arrivano a toccare il 15%. Semmai può essere una valvola di sfogo per Libero , che recentemente ha visto crescere in modo esponenziale le entrate pubblicitarie (dai 4,788 milioni del 2006 agli 8,294 del 2007, pur in presenza di un leggero calo di vendite: da 28,099 milioni a 28,013), e che con un ’aiutino’ potrebbe recuperare di qui ciò che perde per altra via. Sui contributi postali, c’è un’innovazione seria, che può produrre un risparmio significativo. Lo Stato si ripromette di smetterla di fare la parte del cretino, che - trattando a nome del più grosso cliente italiano: tutti gli editori di giornali e periodici, le forze politiche, le associazioni, il volontariato - concorda con le poste la tariffa piena, rispetto alla quale sostiene gli editori, pagandone il 60%. Chiede che le Poste italiane, che da società per azioni quale sono negoziano da 10 anni le tariffe con i loro maggiori utenti, diano all’editoria il trattamento della migliore convenzione fatta con i privati. Così la spesa si può ridurre almeno del 40%. Il governo interverrebbe, alleggerendo gli editori del 50% dei costi, «nei limiti dello stanziamento disponibile». Insomma, anche i contributi indiretti perderebbero la qualità di diritto soggettivo, ma questo solo tra un anno.

Soluzione pessima

La nostra campagna sulla montagna di soldi percepiti dagli editori quotati in borsa sembrerebbe aver lasciato il segno nel comma 2 dell’art. 22 del Regolamento. Ma la soluzione fa un po’ rabbrividire. Lì si stabilisce che il ministro dell’Economia e delle Finanze «definisce annualmente le tariffe agevolate delle imprese editoriali quotate in Borsa, tenendo almeno conto delle variazioni dell’indice dei prezzi al consumo». Insomma, il governo tratta con i più grandi editori italiani le sue elargizioni annuali (ma questi ultimi hanno già una garanzia di incremento, seppur quello misero «delle famiglie degli operai e degli impiegati rilevato dall’Istat»), così come annualmente decide quanto dare ai non profit e ai giornali politici e - volendo - con che criteri darlo. Complimenti! Stiamo tornando, senza darlo a vedere, al Minculprop? L’insieme di questi criteri definiscono soltanto un diritto virtuale. Possono, in parte, introdurre un cambiamento utile. Ma sono, lasciatecelo dire schiettamente, l’abito con cui il condannato a morte viene accompagnato al patibolo, se non si ricostruiranno certezze - come è necessario e urgente fare - e non si doterà il Fondo editoria delle risorse necessarie.


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