Inviare un messaggio

In risposta a:
MAMMASANTISSIMA. Il grande ordine simbolico del "Che-rùbino" ... tutti e tutto!!!

lL "LOGO" DELLA SAPIENZA, L’UMANITA’, E L’ACQUA. PAESE IMPAZZITO: FORZA "CHE RùBINO" TUTTO E TUTTI !!! PER IL "logo" della "SAPIENZA" DI ROMA, UN APPELLO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA!!! Una nota, con articoli - a cura di Federico La Sala

sabato 12 luglio 2008
[...] Affinché il "cherubino" non diventi "un diavoletto"... che ha trovato una pietra "cara" e "preziosa" ed esclami: "che - rubìno!" ... Qui non capiscono il valore di un’"ACCA" - H, lo prendo Io: lo venderò a "caro-prezzo" ("caritas"); e fonderò un ’nuovo’ partito, una ’nuova’ chiesa [...]
ITALIA: LA NOSTRA PATRIA E’ LA LINGUA, NON LA TERRA NON IL SANGUE. Dante e Saussure insegnano.
EMERGENZA EDUCATIVA: TRADIMENTO DEGLI INTELLETTUALI.
 (...)

In risposta a:

> PER IL "logo" della "SAPIENZA" DI ROMA, UN APPELLO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, Giorgio Napolitano, e al prof. Tullio De Mauro. Non il "che-rubìno" o il "che-rùbino", ma "IL CERVO ALLA FONTE", che beve l’ "acqua" dalla "Fontana dei Libri"!!!

sabato 4 novembre 2006

Nei dormitori dei sensi e della mente

L’università italiana è alla catastrofe. Negli atenei gli studenti vivono una condizione di afasia e i giovani ricercatori sono triturati dalla macchina burocratica, mentre i docenti aspettano la pensione. Ma il parlamento, il governo e i media distolgono lo sguardo da questa inquietante realtà. Un intervento

di Alberto Abruzzese (il manifesto, 03.11.2006)

Sono passate molte settimane dalla mia lettera aperta al ministro dell’università Fabio Mussi (la Finanziaria, strozzando la già morente nostra università, ha reso ancora più ridicola la mia presunzione di dialogare sul presente e futuro della ricerca scientifica e della formazione professionale). Altre ne ho scritte, altrove altri articoli: tra carta stampata e on line. Qualche segnale di interesse? Pochissimi e da chi - anche non sollecitato - ha da sempre mostrato di avere a cuore il dramma dell’università italiana. Invece, la risposta più forte - certo non rivolta a me ma ai grandi media - è venuta proprio dal ministro Mussi: nell’accostare, qualche settimana fa, la situazione universitaria a un bordello, ha pronunciato uno slogan coraggioso (evidentemente inutile per chi di coraggio non ne vuole avere in Parlamento e al Governo). Si trattava di quegli slogan che dovrebbero annunciare una «rivoluzione»: un rigurgito di dignità e senso di responsabilità da parte di chi è stato apostrofato alla pari di un luogo tradizionalmente così malfamato, convenzionalmente così carnevalesco. Comunque poco serio, marginale, reietto. Una uscita passionale, quella di Mussi, ma a quanto pare davvero sprecata per un pubblico frigido o sordo o altrove impegnato. Una dichiarazione anche scherzosa, fatta per iniziare una conversazione, per svegliare le coscienze. E invece presa sottogamba da tutti, anche dalla opinione pubblica.

Tuttavia, a ripensarlo, questo slogan suona enigmatico. Usandolo, il ministro Mussi - se intende restare dentro i parametri di (apparente) buon senso che va perseguendo - finisce di andare anche contro se stesso e non solo contro i suoi sottosegretari, consulenti, organi accademici, atenei, presidi, docenti, precari e studenti. È d’obbligo un inciso: rispetto a queste aree di potere (strutture centralizzate, verticali e burocratiche di forte cultura statalista e strutture di netta marca feudale), che fine hanno fatto i sindacati storici? Può avere una qualche ragione chi li ritiene tra i maggiori artefici della rovina accademica (e non perché si sono occupati troppo di questioni accademiche, corporative o meno, ma perché se ne sono occupati poco e soprattutto male)? Ma c’è anche da domandarsi: che fine ha fatto, se mai c’è stata in termini di contenuto reale, una capacità di pensiero della base studentesca?

Gli studenti invisibili

Nel ’68 essa produsse dei leader (o meglio questi si produssero in essa), ma, entrati nella politica e nella professione giornalistica o altra che sia, hanno smesso di occuparsi di università. Ora, la base studentesca, modificatasi a dismisura in quantità e qualità, non offre leader: è un grande passo avanti per chi ritiene che il tempo delle avanguardie politiche e della loro dinamica movimentista sia finito o debba finire. Ma il problema è che questo passo avanti, se tale è, costa comunque due o tre passi indietro, poiché i frammenti di base studentesca attivi in termini critici nei confronti degli apparati universitari e dei governi che li amministrano vivono ovviamente nelle stesse condizioni di asfissia in cui versa il luogo in cui abitano e cercano di agire (la questione degli spazi universitari è qualcosa di ben più importante di come viene solitamente enunciato). Finito lo studente storico, inscritto in una coerente filiera di ceto, è difficile che possa rinascere uno studente con la mentalità e le capacità di un militante politico.

Ma torniamo al cuore del discorso. A questo «bordello» di università. Nel grottesco coacervo di situazioni, comportamenti e appetiti tanto a lungo abbandonati a se stessi da essere ormai ingovernabili, con quella battuta ministeriale e, ora, con il vergognoso silenzio dei facitori di finanziarie, il difficile quanto disperato compito di mettere ordine e disciplina nel sistema universitario si è trasformato in una via senza uscita. Da una intuizione così profonda - che in sostanza dice: la sfera umana che occupa le leve di regolamentazione dell’università è fatta di puttane e magnaccia - ci si dovrebbe aspettare una chiara e esplicita interdizione dai pubblici uffici di quanti, pur avendo perfetta conoscenza della reale condizione universitaria, sembrano determinati a insistere sui contenuti, sui modi, sulle procedure che hanno portato al disastro. Al contrario, ogni volta che le grandi testate del giornalismo italiano ospitano l’intervento ufficiale di chi ha un peso e una funzione nell’università, nei suoi apparati e nelle sue decisioni, dentro o fuori del ministero e dei ministeri, accade di leggere, anche in quelli più ragionevoli e benintenzionati, una sorta di suggerimenti marziani. Come si può sperare, ad esempio, di creare meccanismi di controllo sulle docenze universitarie senza che sia venuto in mente a nessuno di porsi il problema di come e dove farlo, con quali parametri di giudizio e con quali irrinunciabili risorse e preliminari processi di reclutamento e formazione di ricercatori e formatori?

Ordinamenti senza senso

Mi domando spesso del perché l’università non sia oggetto di una specifica e costante attenzione critica persino in un giornale come il manifesto, certamente più di altri attento al sociale, alla cultura, ai diritti della persona e del lavoro, all’innovazione come nuove visioni e pratiche del mondo, ai soggetti che lo abitano e che si scontrano tra chi appartiene a ceti più responsabili della sua ingiustizia o comunque del suo catastrofico assetto civile e chi, invece, si schiera in vari modi e livelli contro le forme di dominio che hanno caratterizzato la civiltà occidentale e ora caratterizzano i processi della sua più radicale globalizzazione. Perché, sapendo quanto intere masse di studenti risultino disprezzati per il semplice fatto di venire gettati in ordinamenti didattici sempre più vuoti di senso? Lasciamo un momento sullo sfondo le situazioni più degradate, le università tanto intasate e mal governate da farsi «dormitori della mente e dei sensi». Guardiamo in quelle che reggono l’impatto, guardiamo ai contenuti di cui si fanno portatori i docenti che, dentro il primo tipo di università come nel secondo, buttano il sangue nel tentativo di fare tutto al posto di tutto: di certo qui la cultura di cui dovrebbero disporre studenti e discipline è molto distante dalle «pagine belle» che il manifesto riesce, peraltro fortunatamente, a fornire ogni giorno. Ogni giorno, nelle aule universitarie si è invece alla ricerca disperata di un punto di contatto tra i linguaggi di chi pensa di sapere e i linguaggi di chi sente e vive qualcosa di mille miglia distante dal sapere, dunque pretendendo - più che giustamente - di sentirsi vivere nel proprio linguaggio e non in una terra straniera.

Ed ancora: come è possibile che quotidiani interessati alle tristi sorti dei diritti dell’essere umano o, con guizzi più sofisticati, dediti a trattare di «nuda vita» e magari di «post-umano» o «moltitudine», trovino insignificante la condizione di umiliante vassallaggio in cui i professori di ruolo tengono sotto schiaffo - con sadico piacere e opportunismo o con rassegnata sofferenza - proprio i giovani che dovrebbero risultare una promessa per il rinnovamento dei contenuti e dei linguaggi della formazione? Ci sarebbero da scrivere pagine e pagine su questo. Nulla. Ci sarebbero da fare mille interviste e reportage (mentre i giornalisti che vengono assoldati dall’università per fare i professori universitari, quando anche facciano, e spesso accade, un buon lavoro, sembrano ciechi e muti di fronte a ciò che vedono accadere intorno a loro). C’è anche il modello di docenti di corsi di laurea o di cattedre che - preoccupati di salvare il salvabile, di fermarsi sull’orlo del baratro, oppure preoccupati di essere sommersi da problemi e drammi incommensurabili e irrisolvibili, causa essi stessi di nuova perpetuazione di soprusi - chiudono i cancelli delle loro aule, si rifiutano di formare allievi. Attendendo la pensione, pensano, nei casi migliori, ai propri studi, alla qualità della propria lezione, ad un voto finale di laurea, a qualche master. Poi, dopo di loro, il diluvio. Per non fare soffrire e soffrire essi stessi, evitano accuratamente di dare speranze. Questa è una «onestà» parimenti catastrofica. Una totale rinuncia a formare ceti intellettuali, quadri responsabili, giovani che sentano in sé la missione universitaria non è qualcosa di molto meglio rispetto a chi massacra giovani che sperano di diventare ricercatori, li illude che possano farcela anche quando essi non ne abbiano i requisiti. E mai potranno acquisirli: da molti anni ormai si è fatto in modo di fare diventare l’università un luogo di ripiego piuttosto che di promozione della propria intelligenza, sia essa quella di un giovane laureato o, e qui da molto più tempo ancora, di un docente.

Il sipario da strappare

Non so se questa volta il manifesto si senta colpito da questo mio intervento. Lo spero. Sono sicuro, tuttavia, che molti, al di là dei suoi lettori abituali (anche questo spero: che non siano loro) penseranno - magari evitando di scriverlo ufficialmente - che il mio quadro della situazione è eccessivo, tendenziosamente catastrofico, cieco su tutto ciò che si allontana dalla mia interpretazione radicale, estrema e estremista. A quanti mi elencheranno situazioni in tutto diverse da quelle che ho descritto, anticipo una sola argomentazione. E, per me, è un vecchio discorso che ho sempre usato nel parlare di Napoli (dalla prima volta che lo feci a un giovane Bassolino, appena entrato in carriera politica): Napoli è una metropoli in catastrofe (oggi in un suo particolare rigurgito di ingovernabilità e complessità), ma non si riuscirà mai a parlare dei suoi drammi se prima non la si considererà il retroscena di ogni altra città italiana (e di ogni metafora di città e territorio): basta strappare il sipario e Napoli appare come il vero orizzonte in cui guardare, la scena in cui essere convocati.


Questo forum è moderato a priori: il tuo contributo apparirà solo dopo essere stato approvato da un amministratore del sito.

Titolo:

Testo del messaggio:
(Per creare dei paragrafi separati, lascia semplicemente delle linee vuote)

Link ipertestuale (opzionale)
(Se il tuo messaggio si riferisce ad un articolo pubblicato sul Web o ad una pagina contenente maggiori informazioni, indica di seguito il titolo della pagina ed il suo indirizzo URL.)
Titolo:

URL:

Chi sei? (opzionale)
Nome (o pseudonimo):

Indirizzo email: