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Gioacchino da Fiore ... e Teilhard de Chardin

IL PATRONO DELLA "RETE" E IL TEORICO DEL "DISEGNO INTELLIGENTE": Teilhard de Chardin (1881 - 1955). Un ’vecchio’ (1998) articolo di Carlo FORMENTI, e una nota di Annamaria TASSONE BERNARDI.

mercoledì 4 ottobre 2006 di Federico La Sala
San Teilhard de Chardin
Gesuita, paleontologo e patrono della rete
di Carlo Formenti*
Che io sappia, finora nessuno ha fatto nomi per eleggere un Santo Patrono della Rete. Ma, ammettendo che esistano candidature a me ignote, mi permetto ugualmente d’avanzare la mia proposta: suggerisco che l’onore spetti a Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955) gesuita, paleontologo ed autore d’una imponente opera filosofica sul rapporto fra scienza e teologia. Sono sicuro che il suggerimento otterrebbe, (...)

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> IL PATRONO DELLA "RETE" E IL TEORICO DEL "DISEGNO INTELLIGENTE": Teilhard de Chardin (1881 - 1955). Un ’vecchio’ (1998) articolo di Carlo FORMENTI, e una nota di Annamaria TASSONE BERNARDI.

giovedì 8 febbraio 2007

«Salvare», «convertire», «giustificare»: alcune delle parole chiave dell’informatica rivelano una parentela sorprendente con la tradizione biblica. Che non è soltanto di superficie

Computer, una miniera di teologia

Dietro l’inattesa convergenza tra Bibbia e Web forse si cela la nostalgia di una relazione vera con l’Altro

Nei due linguaggi, le stesse idee di custodire i fenomeni, stabilire rapporti, affermare il soggetto umano

di Bruno Forte (Avvenire, 08.02.2007)

«Salvare», «convertire», «giustificare» sono tre delle espressioni più usate nel linguaggio del computer e del Web. Tre parole chiave, la cui ignoranza evoca lo spettro dell’impossibilità effettiva di utilizzare fruttuosamente l’intelligenza artificiale, di cui tutti ormai sembrano non poter fare a meno. Ebbene, non a caso queste tre parole sono di derivazione teologica: solo nel mondo della fede biblica e della teologia ad essa collegata l’ignoranza di questi tre spazi di significato può compromettere il tutto, e cioè l’integralità dell’approccio credente alla rivelazione, analogamente a come la medesima ignoranza nell’uso del computer ne comprometterebbe in radice la praticabilità. Chi non sapesse che cos’è salvezza, conversione o giustificazione, chi non ne avesse neanche lontanamente l’idea o il bisogno, di certo non avrebbe alcun interesse esistenziale sufficiente per accostarsi alle Sacre Scritture e cercare in esse la luce del senso o la forza della redenzione. Chi non sapesse «salvare», o «convertire» o «giustificare» il materiale su cui sta lavorando informaticamente, rischierebbe semplicemente di perdere tempo e fatica.

Web e Bibbia sembrano dunque aver bisogno dei processi segnalati dai tre verbi «salvare», «convertire» e «giustificare». È questa constatazione tanto semplice, quanto intrigante, che fa nascere più di una domanda: c’è un rapporto fra i linguaggi della Rete e l’esperienza della Trascendenza, di cui la rivelazione biblica è testimone e strumento? Si nascondono forse in termini come i tre segnalati nostalgie prossime o remote di Trascendenza? Con quali prospettive sull’esperienza umana del vivere e del morire?

Salvare. Resistere all’oblio è il tormento del pensiero umano fin dalle sue origini. Dove tutto appare caducità, frammento che viene dal nulla e vi precipita, la passione del filosofo diventa quella di resistere al declino, di difendere il dono o il tormento di esistere. Ecco perché la filosofia nasce dove più forte appare la minaccia dell’inesorabile perdita. Salvezza è difesa dal nulla, baluardo contro il dissolvimento, custodia dell’esserci. È per soddisfare questo bisogno che nasce la scrittura: fermare nel tratto il pensiero, renderlo pronto a nuovi accessi, a nuove comunicazioni. È questo il sogno di ogni «grafia»: salvare il mortale fermandolo. Salvare appare allora operazione necessaria, anche se non assoluta: e così è nel regno del Web. Senza il pensiero che salva o utilizza il salvato, a nulla varrebbe «salvare». La piccola salvezza offerta dalla scrittura, quella stessa piccola salvezza dell’uso informatico, fa appello ad un altro, che salvi il salvato richiamandolo, servendosene, dandogli nuova vita. Ed è allora che si comprende la differenza fra questo «salvare» e la salvezza della fede: l’Altro in questione nella storia della salvezza non è soltanto l’utente, lo scrittore o il lettore che passa, ma è il Creatore e Signore, l’Origine e il Fine, la Custodia e il Grembo. La salvezza di cui parlano i testi biblici, l’opera del Salvatore Gesù, non è la protezione di un’ora, di una stagione, di un tempo fosse pure infinito. È l’accoglienza nella vita senza fine, è l’eternità offerta nel tempo.

Di questo approdo, il linguaggio del Web è pallida traccia, segno della nostalgia che tutti ne abbiamo. Eppure, proprio così, «salvare» è cifra di trascendenza, segnale di una sete originaria, quella della salvezza, e si offre come il testimone dell’Altro di cui abbiamo bisogno per vivere e per morire. Ogni atto del «salvare» è traccia di questa nostalgia che è in noi più forte e più profonda di ogni coscienza che possiamo averne: anche l’umile processo del «salvare» legato al mondo del Web.

Convertire. «Salvare», però, non basta: se quanto è stato salvato non fosse più raggiungibile dalla continua evoluzione dei linguaggi del Web e del computer, vana sarebbe la resistenza all’oblio, vano il baluardo contrapposto alla vorace bocca del nulla. Come ogni linguaggio, an che quello informatico si evolve e cambia. Se il libro resiste con la consistenza e la palpabilità odorosa delle sue pagine, i file vivono le stagioni dei programmi in cui furono scritti. Occore «salvare» il «salvato»: questa operazione di «salvezza» al quadrato è il processo indicato dall’espressione «convertire». «Convertire» è nel Web l’espressione della continua lotta contro il tempo che passa, l’operazione finalizzata ad esprimere la signoria della continuità pensata e voluta dagli uomini sulla frammentazione.

«Salvare» è la vittoria sulla caducità dell’istante; «convertire» è il trionfo sull’incomunicabilità dei tempi, rendere prossimo lo straniero, familiare l’estraneo. È questo in realtà anche il senso originario dell’espressione biblica: «Teshuvà», la parola ebraica tradotta con «conversione», sta a dire l’atto del ritorno. L’ebraico fa capire concretamente come il convertirsi sia l’evento di una relazione ritrovata, di un legame nuovamente possibile. In fondo, il linguaggio del Web recupera questo stesso senso. Come nell’universo biblico, così nel mondo informatico «convertire» è il processo che testimonia l’importanza vitale della relazione e della comunicazione fra diversi. Leggere allora nel lemma «convertire» una cifra del bisogno di relazionarsi alla Trascendenza e di ancorarsi ad essa in una comunicazione viva e vitale, è allora forse molto meno che un arbitrio.

Giustificare. L’idea di «giustificazione» esprime nel mondo del computer l’urgenza di plasmare ciò che andiamo producendo secondo una forma che corrisponda al nostro gusto o al nostro bisogno di espressione creativa. L’allineamento a destra o a sinistra, il posizionamento al centro, la giustificazione piena, sono l’esercizio della sovrana libertà dell’autore di disporre del prodotto della sua opera. «Salvare» esprime l’urgenza «ontologica» di «salvare i fenomeni». «Convertire» mostra la necessità «etica» di stabilire relazioni. «Giustificare» manifesta invece la passio ne «estetica» che abita in ognuno di noi, il bisogno di dare forma all’informe, di mettere ordine nei frammenti, di far emergere il protagonismo del soggetto. Si coglie qui l’analogia e la differenza col senso di «giustificare» che appare nella Bibbia: l’analogia sta nell’esprimere la ricerca di un ordine, in cui chi si muove non si senta perduto. La differenza sta nel fatto che nell’orizzonte della fede il giustificatore è solo il Soggetto trascendente, il Dio vivo creatore e signore del cielo e della terra.

Certo, questo processo di giustificazione non avviene senza l’opera del protagonista umano, interlocutore pieno dell’alleanza con Dio: tra i due poli resta tuttavia un’irriducibile distanza, un’asimmetria che lungi dallo schiacciare la creatura, la esalta e la apre al più e all’oltre rispetto a sé. La giustificazione in senso teologico è, insomma, il processo dell’agire salvifico di Dio, cui corrisponde l’accoglienza della fede obbediente che si lascia ordinare e plasmare da Lui. Ancora una volta, un’espressione del linguaggio informatico si rivela cifra di una nostalgia che la supera. Una nostalgia che non è azzardato chiamare di Trascendenza, volta cioè a un altro ordine, a un’altra bellezza, che nel frammento delle opere e dei giorni degli uomini faccia risplendere la totalità di un disegno, di un possibile, impossibile amore che unifichi, salvi e converta. Giustificare è non solo ansia dell’io di esprimere la propria misura sulla propria opera, ma anche cifra di un più alto ordine, dove il Tutto si affacci nel frammento, e la Bellezza eterna venga a dirsi nella struggente fragilità del tempo.

«Salvare» - «convertire» - «giustificare»: un linguaggio teologico nel dominio della «téchne» che sembra voler invadere tutto? Semplice caso? Memoria antica? Debole apertura? Nostalgia di Trascendenza? Aver acceso la domanda è già forse aver varcato la soglia, per scrutare nel regno del Web l’abisso del cuore umano che è e resta il centro di tut to, anche nel tempo della tecnica e del «villaggio globale» favorito ed espresso dalla Rete: quel cuore che resta inquieto, aperto e interrogativo, finché non riposi nel Dio che lo ha creato senza di lui, ma che non lo salverà senza di lui. E in un contesto culturale in cui il Web e il computer riempiono e condizionano sempre più la vita e la psiche di milioni di esseri umani, soprattutto di giovani, aver riconosciuto nei linguaggi degli strumenti informatici una finestra più o meno esplicita sulla Trascendenza può essere un aiuto a percorrere il cammino verso quel «riposo» liberante e pacificante, che è l’incontro con Dio, di cui tutti abbiamo profondo bisogno per vivere e per misurarci con le sfide sempre incombenti della sofferenza, della fragilità, della morte e, in generale, della fatica di volerci e di essere veramente umani.


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