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Radici e diversità...

SALENTO. Festival musicale, 2005: "LA NOTTE DELLA TARANTA". Alessandro Portelli presenta il cd del concerto finale.

Allegato: "Il tarantismo: esorcismo musicale" (di Paola Marangio)
giovedì 5 ottobre 2006 di Federico La Sala
[...] Ci sono momenti collettivi travolgenti, pieni d’orchestra di grande presa che danno davvero il senso di una crescita degli strumenti espressivi tradizionali; e ci sono momenti inevitabili in cui il suono è un po’ più omogeneizzato.
In qualche intervento orchestrale mi è parso di sentire i Pogues - che comunque è tutt’altro che un insulto, visto che sono stati fra i più grandi interpreti della contemporaneità della musica popolare, ma che rinvia un poco a una koiné di world music (...)

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> SALENTO. "LA NOTTE DELLA TARANTA" -- «Il tarantismo oggi» di Giovanni Pizza. Un’indagine a tutto campo della costruzione di un’identità e del suo uso, a partire da Ernesto De Martino.

martedì 1 novembre 2016

IL TARANTISMO OGGI. Una nota su "Pellegrino Scardino di San Cesario di Lecce e la tarantata" di Armando Polito:

      • TARANTISMO, SESSUALITÀ, E IPOCRITI. A leggere con ATTENZIONE la “poesia” (degli occhi “cupidine-os”, desiderosi di Amore/Cupido, di una ragazza/Psiche, di un “un ragno [che] si nasconde sotto la veste” e, infine, di “scusare l’animale”!), ri-emerge DA UN’ALTRA ANGOLAZIONE - e a partire DA UN ALTRO “ANIMALE” (in questo caso) - una vecchia, VECCHIA, “storia” (... ancora più "brutta"), quella di “Adamo”, “Eva” e il “Ragno”, quella della «terra del cattivo passato che torna e opprime col suo rigurgito»! E tutto il valore e tutta l’importanza dell’ANATOMIA DEGLI IPOCRITI (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/11/alessandro-tommaso-arcudi-galatina-wikipediano-ante-litteram/) di Alessandro Tommaso Arcudi.

      • Federico La Sala

Tarantismo, la riscossa delle donne ragno

di Marino Niola (la Repubblica, 21 marzo 2015)

Il tarantismo è finito. Anzi no. Le tarantole pizzicano ancora alla grande. Ma questa volta non mordono più le raccoglitrici di tabacco salentine, stremate dalla fatica, cresciute a fave e cicoria e rimaste impigliate negli ingranaggi di una storia inceppata, di una mobilità sociale negata. Quelle che danzavano la loro ribellione sul ritmo sfrenato della pizzica, cercando di schiacciare con il piede quel ragno immaginario che era il simbolo del loro mal di vivere. Oggi ad essere morse dall’aracne mediterranea sono le nuove generazioni che hanno fatto della taranta un emblema identitario trasversale.

Una nuova patria culturale, come avrebbe detto Ernesto de Martino, fondatore dell’antropologia italiana, di cui quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario della scomparsa. Ed è proprio de Martino, all’origine di questo revival. Perché con il suo capolavoro La terra del rimorso (1961) fece del tarantismo l’emblema di un Meridione dell’anima, di un Sud stretto fra emigrazione e possessione, religione e superstizione. Il reperto di una perturbante archeologia sociale impressa nei gesti e nei corpi, nelle ossessioni e nelle devozioni di un mondo solo apparentemente arcaico e lontano dalle grandi direttrici dello sviluppo che, in quegli anni, rivoltava il paese come un guanto. Mentre in realtà quella scheggia dionisiaca era l’altra faccia del miracolo economico. Perché Rocco e i suoi fratelli, che erano andati ad avvitare bulloni nelle fabbriche del Nord, avevano lasciato al paese le sorelle. Che continuavano a ballare in trance, come menadi disoccupate.

Come accade ai grandi classici, il libro di de Martino da allora ha continuato a scriversi, dando origine a una nuova stagione culturale e politica che dalla metà degli anni Novanta ha rovesciato in positivo l’ombra nera del ragno. Da zavorra del passato a risorsa per il futuro, da relitto folklorico a prodotto tipico, bene culturale. Lo racconta Giovanni Pizza, antropologo dell’università di Perugia, in un bel libro in uscita da Carocci. Titolo, Il tarantismo oggi. Una sorta di making of di quella fabbrica collettiva che in questi anni ha rispolverato la tradizione della taranta ballerina facendone un’icona glocal, un brand ad alta definizione da vendere sul mercato globale delle differenze culturali. E perfino un mito politico. Non a caso il ragno è diventato il leitmotif di una produzione artistica, letteraria, cinematografica, musicale, teatrale. Nel 1994 un regista come Edoardo Winspeare gira Pizzicata, un film liberamente ispirato a La terra del rimorso. Che proprio allora viene ristampata, dopo diciotto anni di assenza in libreria, e sull’onda travolgente del neo-tarantismo diventa, per la prima volta, un bestseller. La Bibbia del tarantismo. L’editoria locale comincia a sfornare a ripetizione libri con storie di tarantolati, veri o presunti, che si vendono perfino nelle tabaccherie di paese.

Ovviamente in questo revival la musica fa la parte del leone, con gruppi come il Canzoniere Grecanico-Salentino e i Sud Sound System, che traducono il mood della pizzica in world music. Anche perché sin dai tempi antichi la cura del morso, l’antidotum tarantulae, è fatta di ritmo e di danza. Sono secoli che il frenetico ballo delle donne possedute dal ragno - quello che Paracelso, il grande medico e filosofo rinascimentale, chiamava Lasciva Chorea, cioè ballo licenzioso - è un topos dell’immaginario colto di tutta Europa. Tanto che un personaggio come Giovanbattista Marino, simbolo della letteratura barocca, dedica sonetti da antropologo ante litteram alle crisi frenetiche dei tarantolati. E un altro grande secentista, il funambolico Giacomo Lubrano, nel poemetto Stravaganza velenosa della tarantola descrive con precisione da etnografo il doppio pizzico del ragno, che è il vero algoritmo del tarantismo. Il primo morso, che provoca la crisi iniziatica e poi il rimorso, che arriva puntuale ogni anno il 29 giugno, giorno di san Paolo, che delle tarantole è considerato il signore e padrone, il mandante e il guaritore.

Ma il primo in assoluto a fare dell’aracnide il logo della Puglia è il grande Cesare Ripa, a fine Cinquecento, quando nella sua Iconologia - uno dei libri più venduti e influenti del tempo - raffigura il tacco d’Italia come una bella donna che danza, vestita di «un sottil velo» costellato di tarantole e ha ai suoi piedi un tamburello, insieme ad altri strumenti che oggi chiameremmo musicoterapici. In fondo questo grande costruttore di immagini e di immaginari inaugura quella “tarantolizzazione” dell’identità pugliese che oggi i politici e gli amministratori locali trasformano in uno strumento di marketing territoriale. Simbolo del riscatto di un Sud che non vuole diventare la brutta copia del Nord e che sceglie di guardare dentro di sé per cercare nuovi cammini. E la Notte della taranta, il festival musicale che ogni anno richiama centinaia di migliaia di appassionati a Melpignano e in altri paesi salentini, è la sintesi esemplare di questa fitta rete di strategie economiche, di narrazioni identitarie, di processi di patrimonializzazione che nascono ancora una volta da quel morso.

Un’inversione della tradizione, che sta facendo del Salento una delle aree più interessanti e innovative d’Italia. A riprova del fatto che il cantiere d’idee aperto da de Martino, ed esplorato ora da Giovanni Pizza, continua a essere un laboratorio culturale anche visto da fuori. Come dire che siamo tutti tarantolati.


Il ragno del Salento

Saggi. «Il tarantismo oggi» di Giovanni Pizza, edito da Carrocci. Un’indagine a tutto campo della costruzione di un’identità e del suo uso, a partire da Ernesto De Martino

di Claudio Corvino (il manifesto, 02.06.2015)

Nel 1959 Ernesto De Martino giunse in Salento per la nota spedizione etnografica sul tarantismo (La terra del rimorso, 1961), un complesso mitico-rituale la cui storia e il cui significato ha interessato fin dal Medioevo medici, studiosi e autorità religiose. Secondo la tradizione salentina dell’epoca, un profondo malessere colpiva le donne, ma anche gli uomini, che erano stati morsi da un ragno. A farli uscire da questa sorta di «disordine» mentale era un rituale basato soprattutto sulla musica suonata da alcuni specialisti che avrebbero provato vari ritmi e melodie fino ad individuare quello giusto, quello che avrebbe permesso alla «posseduta» di ritornare alla normalità.

Non conosciamo esattamente il momento in cui avvenne, ma è certo che il cattolicesimo individuò san Paolo (29 giugno) come eroe liberatore da questo particolare male, visto il potere del santo di guarire dai morsi dei serpenti velenosi, capacità da lui trasmessa ai membri della sua «famiglia», conosciuti come sanpaolari.

Dopo le analisi di De Martino e della sua equipe il tarantismo non fu più visto come un semplice disordine mentale, ma come un ordine simbolico: un pensiero e una pratica popolare che tentavano di conferire senso e un orizzonte di trascendimento a quella che era la sofferenza esistenziale e sociale delle donne e delle genti salentine.

Da quel 1959, dalla «spedizione salentina», prende le mosse l’ultimo lavoro di Giovanni Pizza Il tarantismo oggi (Carocci, 2015, euro 26), uno studio che va molto oltre l’oggetto dichiarato nel titolo e che racconta dei modi e delle forme in cui il tarantismo (e l’intera antropologia di De Martino) sia penetrato nelle dinamiche identitarie e culturali salentine divenendo così un nuovo terreno di ricerca di un’antropologia definita politica, o pubblica.

Il volume racconta di un complesso processo in cui il campo etnografico si è esteso fino ad inglobare e coincidere con il processo intellettuale, storico e soprattutto politico che ha impegnato il Salento dalla pubblicazione del capolavoro di De Martino e fino ai giorni nostri. Soprattutto dagli anni Settanta, quando altri antropologi e studiosi locali hanno cominciato quel lungo processo di risignificazione del tarantismo che ha portato quasi a ribaltare i risultati teorici de La terra del rimorso. Il Salento infatti, oltre al suo più noto e accattivante soundscape possiede anche un poderoso bookscape che ha segnato e a sua volta alimentato il cambiamento. I vari discorsi che si sono succeduti sul tarantismo (quello medico, storico, folklorico, poetico, politico...) sono sempre stati accompagnati da una retorica di costruzione e di negoziazione dell’immagine del Salento, una sentita ricerca di identità e affermazione, anche quando questa sia stata negata, esaltata o derisa.

A partire da una rivisitazione delle teorie di De Martino operate da Gilbert Rouget (Musica e trance, 1980) e poi George Lapassade (Intervista sul tarantismo, 1994) si è sviluppata localmente - e il saggio di Pizza lo analizza con rigorosa puntualità - una visione del tarantismo che, capovolgendo quella demartiniana, allontana il rituale coreutico-musicale da ogni legame con la sofferenza sociale ed esistenziale e lo fa assurgere a tratto identitario positivo, a corollario di una «gioiosa catarsi estatica», a forte valore estetico, grazie anche alle sue naturali potenzialità spettacolari (ma quale rituale in fondo ne è totalmente privo?).

Così, in un continuo gioco di specchi tra «antropologia, politica, cultura», come recita il sottotitolo del volume, vediamo come la reinterpretazione locale del tarantismo, la riattivazione della sua memoria antropologica sia stata in grado di rilanciare il Salento come un «prodotto tipico»: da terra del rimorso a terra di «rinascita», dove il mito del ragno, cambiando di segno, ha voluto far esplodere tutte le potenzialità mediterranee, comprese quelle turistiche e commerciali, che aveva nella sua simbolica rete. Così, proprio negli anni in cui il Salento veniva «rapinato» della sua cultura etnografica, dei suoi olivi secolari, negli anni in cui i suoi particolarissimi muretti a secco difensivi e i suoi trulli cadevano o venivano dismessi per mancanza di una capace manodopera, le amministrazioni locali «inventavano» un altro aracnide che sarebbe riuscito a liberarle dal male attraverso lo sviluppo economico, turistico e culturale. È in quegli anni che nascerà la Notte della Taranta, il noto festival musicale estivo che coinvolge Melpignano e una ragnatela di altri centri salentini.

Il volume di Pizza, nelle tre parti in cui è diviso, non osserva solo il fenomeno del tarantismo, ma indaga anche lo stesso «sguardo» dell’etnografo De Martino, evidenziando sia i suoi legami con Antonio Gramsci sia quegli aspetti dei due intellettuali che ne fanno ora più che mai due casi «buoni da ripensare» per l’antropologia. Fu infatti con la lettura di Gramsci che De Martino «maturò definitivamente la consapevolezza di come la centralità della critica culturale gramsciana potesse coincidere con le forme del ‘viaggio’, dell’’etnografia’: la ’prassi’ della ricerca antropologica» e, inoltre, interpretò etnograficamente il progetto gramsciano di un’antropologia degli intellettuali. Convinzione che divenne anche una espressa condanna agli studiosi di folklore e di tradizioni popolari che, nelle loro analisi avessero separato una dimensione e una cultura colta e egemone da una popolare e subalterna.

Attraverso l’analisi del più grande antropologo italiano, dei suoi legami con la filosofia e la cultura gramsciana, della sua epocale spedizione salentina, Il tarantismo oggi mostra in maniera esemplare le dinamiche che sottendono la costruzione di un’identità, di una cultura, perché - come scrive l’autore - «la cultura è sempre una produzione, una ’invenzione’, e l’identità come essenza intima semplicemente non esiste». Con buona pace di quanti, soprattutto oggi, cavalcando l’onda di mitologici principi identitari, vorrebbero credere e far credere che «la tradizione» sia un bene immutabile ereditato da lontani antenati e che abbiamo il dovere di conservare intatto, nonostante la mutevolezza del mondo circostante. Perché la cultura «non (è) come qualcosa che si ha, si eredita, fissato in un’arcaica quanto indefinita ’tradizione’, ma (è) come un patrimonio che costruiamo tutti insieme come bene collettivo. L’identità quindi non è un dato fisso, una ’essenza’, ma un preciso progetto politico condiviso»


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