Caduti per amore di notizia
di MIMMO CANDITO (La Stampa, 4/5/2008)
Nella «Giornata mondiale della libertà di stampa» l’Onu ricorda le vittime di un mestiere sempre più esposto a rischi e poteri forti. Perché l’Italia è sessantesima.
E’ molto probabile che, l’anno prossimo, scivoleremo giù da quel già sconsolante sessantesimo posto che Reporters sans Fronrières e gli altri organismi hanno assegnato all’Italia quando ieri, Giornata della libertà d’informazione, in cui l’Onu ha commemorato i giornalisti caduti nel loro lavoro, hanno pubblicato la graduatoria mondiale. I parametri per decidere il posto nella classifica della libertà di stampa tengono conto di molti fattori, e l’intreccio tra interessi editoriali e interessi politici non è di poco conto. Berlusconi editore, in qualche modo, di Mediaset e della Rai e però anche presidente (prossimo) del Consiglio dei ministri comporta un costo che la nuova classifica, il 3 maggio del 2009, registrerà implacabile.
Ma siamo davvero un paese da sessantesimo posto? A sentire Grillo, altro che sessantesimi: giù, giù, siamo proprio in fondo alla classifica, centesimi, centocinquantesimi, un giornalismo tutto di servi, tutto di camerieri. Che servi e camerieri ci siano, è innegabile: qualche tempo fa, il presidente Ciampi ebbe a esortare il giornalismo italiano a «tener sempre la schiena dritta», e l’esortazione non ci sarebbe stata se quella schiena Ciampi non l’avesse vista spesso ben piegata. E d’altronde, basta osservare come molti telegiornali hanno praticato una deprimente autocensura sulle immagini che mostravano Berlusconi a villa Certosa mentre mimava di sparare contro la giornalista russa «troppo invadente» (i lettori hanno segnalato quelle immagini soltanto su Tg3, La7 e TgSky).
Ma, al di là delle violenze verbali di Grillo, l’ampia partecipazione popolare alla sua manifestazione è una realtà della quale bisogna tener conto, se non vogliamo che questa Giornata mondiale sia esclusivamente rituale. Tanta gente che va in piazza e protesta e grida e s’infuria sulle news significa una cosa anzitutto: che v’è una domanda forte d’una informazione credibile, garantita. Affidabile.
Tuttavia, per aiutarci a coglierne il senso autentico dobbiamo leggere quella partecipazione assieme a un’altra notizia, anch’essa di questi giorni: le dimissioni del direttore del Wall Street Journal, che ha considerato di non poter continuare il proprio lavoro per l’invadenza eccessiva del nuovo proprietario. In altre parole: il nuovo padrone del WSJ, Rupert Murdoch, oltre che l’editore voleva fare anche il direttore, e allora il giornalista ha preso il cappello e se n’è andato. Integrare le due notizie aiuta a comprendere che il giornalismo ha, dovunque, un compito molto difficile, nella sua ricerca di una mediazione accettabile tra la lettura autonoma della realtà e la pressione condizionatrice che invece mettono in atto i poteri, politico, economico, culturale, per ottenere una lettura funzionale ai propri interessi.
Questa mediazione è fisiologica, è cioè pratica costante; e da quando la centralità dell’informazione è diventata un principio riconosciuto, la mediazione si è fatta ancor più difficile. Dire tutti servi, tutti camerieri, può anche consolarci, in quella pratica del «pensiero binario» (come lo chiama Edgard Morin) che nei fatti tradisce la realtà, la quale non è bianca o nera ma è una complessità di contraddizioni molteplici. Ricordare le dimissioni al WSJ aiuta, nella Giornata mondiale della libertà dell’informazione, a capire che l’aspettativa di un giornalismo credibile si realizza meglio se si aiuta il giornalismo a non trovarsi da solo nel braccio di ferro con i poteri.