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La mente accogliente...

CONSULENZA FILOSOFICA. In un mondo dove tutti e tutte (compreso il Papa! ) vendono a caro-prezzo ("caritas") tutto, chi ha più il coraggio ("Sàpere aude!") di amare ("charitas")?! Questo è il problema: LA FELICITA’ NON COSTA NIENTE!!! Una riflessione di Salvatore Natoli

giovedì 12 ottobre 2006 di Federico La Sala

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> CONSULENZA FILOSOFICA. In un mondo dove tutti e tutte (compreso il Papa! ) vendono a caro-prezzo ("caritas") tutto ---In America la pillola spodesta la parola. Più facile ricorrere al farmaco che alla psicoterapia... Ma nel futuro tornerà la cura della parola.

giovedì 2 ottobre 2008

Dagli Usa arriva l’allarme: per risparmiare tempo e soldi, le pillole sostituiscono la psicanalisi. Ecco cosa succede in Italia

In America le pillole sostituiscono sempre più il divano dello psicanalista

La fuga dal lettino di Freud

Per i "mali dell’anima" si prescrivono sempre più farmaci Soprattutto negli Stati Uniti, dove diminuisce il ricorso alle terapie psicologiche: in dieci anni sono scese dal 44 al 29% Ma in Italia, per ora, l’analisi ha ancora la meglio Nel nostro paese gli specialisti sono molti. A mancare sono le strutture adatte Anche ai bambini iperattivi vengono prescritti farmaci per il deficit di attenzione Molti interrompono non perché stanno meglio, ma perché non hanno i soldi

di Simonetta Fiori (la Repubblica, 2.10.2008)

In America la pillola spodesta la parola. Più facile ricorrere al farmaco che alla psicoterapia. Agli effetti immediati della pasticca, piuttosto che a defatiganti colloqui sul divanetto, s’affidano sempre più gli psichiatri che operano negli Stati Uniti. La tendenza è stata documentata dalla autorevole rivista Archives of General Psychiatry, che ha fornito cifre significative: le cure medico-psicologiche oggi in corso in America soltanto per il 29% si basano sulla terapia della parola, mentre dieci anni fa la percentuale era intorno al 44%. Sempre più numerosi - dice ancora lo studio di Ramin Mojtabai e Mark Olfson - sono gli psichiatri specializzati in terapie farmacologiche e sempre meno quelli attrezzati per la psicoterapia.

In America la pillola spodesta la parola. Più facile ricorrere al farmaco che alla psicoterapia. Agli effetti immediati della pasticca, piuttosto che a defatiganti colloqui sul divanetto, s’affidano sempre più gli psichiatri che operano negli Stati Uniti. La tendenza è stata documentata dalla autorevole rivista Archives of General Psychiatry, che ha fornito cifre significative: le cure medico-psicologiche oggi in corso in America soltanto per il 29% si basano sulla terapia della parola, mentre dieci anni fa la percentuale era intorno al 44%. Sempre più numerosi - dice ancora lo studio di Ramin Mojtabai e Mark Olfson - sono gli psichiatri specializzati in terapie farmacologiche e sempre meno quelli attrezzati per la psicoterapia. Non ammette equivoci il grafico che copre l’intero arco di tempo tra il 1996 e il 2005, analizzato sulla base del funzionamento degli ambulatori medici: se prima il 19% degli psichiatri sceglieva per tutti i pazienti la psicoterapia, ora il numero precipita al 10,8 per cento, quasi la metà. Freud ricacciato in soffitta, come sintetizzano i giornali americani? In realtà le medicine minacciano di liquidare non solo l’analisi più ortodossa, ma oltre le quattrocento varietà di psicoterapia oggi praticate negli Stati Uniti.

A cercare le cause di questa nuova tendenza, ci si imbatte in molte ragioni, alcune d’ordine banalmente materiale. I soldi, innanzitutto. Massimo Ammaniti, professore alla Sapienza di Psicopatologia dello sviluppo, ci fa notare come siano cambiate le norme delle assicurazioni americane, che prima rimborsavano le psicoterapie e oggi prevalentemente gli psicofarmaci. La questione dei costi è influente. Non è un caso che la dittatura della pillola dilaghi ovunque tranne che a New York.

«Se sei ricco e abiti a Manhattan», ha dichiarato il dottor Mojtabai, «è più facile risolvere i traumi infantili presso lo studio di qualche psicoanalista». Più difficile per un navajo in Arizona. Con buona pace di Woody Allen, che non dovrà rinunciare a un fortunato filone cinematografico.

Il denaro spiega molto, ma non tutto. La consuetudine con la pillola è anche il frutto d’una mentalità diffusa. Dall’infanzia alla senescenza, il farmaco è percepito dagli americani come rimedio risolutivo. «Capita spesso», dice Ammaniti, «che le maestre elementari chiamino i genitori a scuola per suggerire indicazioni farmacologiche destinate ai bambini iperattivi. Oggi la sindrome più denunciata è quella da deficit di attenzione, l’Attencion Deficit Hyperactivity Disorder. L’uso della categoria diagnostica mi pare fin troppo disinvolto: gli italiani sono molto più cauti nel fare diagnosi in campo infantile. E soprattutto nel somministrare ricette».

Il nostro paese appare ancora distante dalla pratica americana, pur con qualche avvisaglia di omologazione. «Il rischio è di andare in quella direzione», lamenta Simona Argentieri, psicoterapeuta di formazione freudiana. «Da noi troppo spesso prevale un uso improprio della pillola per tamponare le difficoltà del vivere. Quella tra disturbo e psicofarmaco rischia di diventare una correlazione meccanica, una scorciatoia meno impegnativa della psicoterapia, che richiede tempi più lunghi, soprattutto umiltà e intelligenza del cuore». Il farmaco, secondo la studiosa, accontenterebbe un po’ tutti. I pazienti, alleggeriti dal’incubo di doversi mettere in discussione. E i medici, talvolta costretti a incontri frettolosi in strutture pubbliche inadeguate. «Anche da noi ha attecchito la filosofia sintetizzata nel Diagnostic Statistical Manual, il manuale più diffuso al mondo con il nome di Dsm. Hai tali sintomi? Allora prenditi questa pillola. L’emozione è ridotta pura reazione neurochimica. Per il paziente non c’è più ascolto, solo una ricetta medica».

A favore della pasticca giocano le industrie farmaceutiche, ma anche una letteratura medica internazionale che sempre più incoraggia l’integrazione tra le diverse terapie. «Tra psicoterapia e farmaco non c’è più contrapposizione assoluta, come poteva accadere un tempo», interviene Nino Dazzi, ordinario di Psicologia, oggi alla guida della commissione ministeriale che regola gli accessi alla professione. «In alcuni casi, l’associazione tra pillola e parola può essere quella che funziona meglio. Ma il problema si pone se a spingere a favore del farmaco non è la sindrome del paziente, ma i servizi pubblici insufficienti. L’impressione è che non sia possibile praticare la psicoterapia come invece sarebbe richiesto, e che dunque la soluzione farmacologica risulti il rimedio quasi obbligato».

Difettano i servizi pubblici, non certo gli psicoterapeuti. In Italia operano nutrite leve di professionisti molto attrezzati, selezionati da una legge tra le più rigorose in Europa. Si accede alla professione o specializzandosi in Psichiatria con una formazione medica o dopo la laurea in Psicologia con un diploma di specializzazione conseguito presso una delle Scuole abilitate alla formazione. «La gran parte di queste Scuole è privata», spiega Dazzi, «ma la nostra commissione dà o nega l’autorizzazione sulla base di alcuni requisiti rigidamente fissati». Qui è forse la specificità italiana, la presenza di una vasta area di operatori che interviene nel campo della salute mentale senza ricorrere alla pasticca. «Mentre in America gli psicologi possono somministrare farmaci», spiega Ammaniti, «da noi questa facoltà è interdetta ai terapeuti sprovvisti di laurea in Medicina».

Per l’Italia vale anche un diverso clima culturale, segnato da alcune riforme fondamentali. Quella di Franco Basaglia, esattamente trent’anni fa, è considerata l’architrave d’una rivoluzione di tipo copernicano. «Potrà essere criticata o giudicata insufficiente», interviene Luigi Onnis, ordinario di Psichiatria e direttore dei servizi di psicoterapia al Policlinico Umberto I di Roma, «ma quella riforma ha avuto l’effetto di mutare radicalmente l’approccio alla malattia mentale. Il paziente non viene più trattato soltanto farmacologicamente e non soltanto dentro le istituzioni. Questo implica il riconoscimento che i problemi alla base della malattia mentale non sono soltanto biologici ma anche di natura psicologica ed esistenziale. Da questa acquisizione non si può tornare indietro». Una sensibilità registrata perfino dai bugiardini di alcuni psicofarmaci. «Nelle edizioni italiane di molti farmaci si legge che la somministrazione funziona solo se è accompagnata da una psicoterapia adeguata. Un buon segnale, no?».

Se quella italiana è una storia più complessa, che dovrebbe preservarci dall’indigestione di psicopillole, rimane il fatto che oggi la psicoanalisi in senso classico - tre sedute alla settimana, per un numero infinito di anni - è un bene di lusso riservato a un’élite. «Gli stessi psicoanalisti stanno rivedendo le modalità per allargare il campo», dice Onnis. «In questi anni è entrato in crisi l’indirizzo più ortodosso, che richiede molto tempo e molti soldi. Tendono nettamente a prevalere trattamenti più brevi, che possono dare risultati altrettanto soddisfacenti».

Anche Simona Argentieri riconosce l’efficacia di queste cure meno onerose: «Talvolta bastano un colloquio o degli incontri episodici, o una volta alla settimana per un breve periodo: l’importante è permettere al paziente di proseguire in piena autonomia». Ma in un paese impoverito come il nostro, perfino la terapia più breve rischia di essere incompatibile con la rata del mutuo da pagare. «Moltissimi miei amici psicoterapeuti», interviene Dazzi, «mi raccontano di pazienti che concludono la terapia non perché soddisfatti o placati, ma perché non se la possono più permettere».

Scavare nell’interiorità rischia di diventare pratica da ricchi, senza peraltro avere le caratteristiche del passatempo miliardario. La pasticca come rifugio alternativo? «A parte che non è economica», avverte Onnis, «non è mai risolutiva e provoca cronicità». Nella sfida con la pillola, in Italia, la parola resiste ancora.

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-  Ma nel futuro tornerà la cura della parola
-  Depressione anoressia e paura dell’abbandono hanno bisogno di essere seguite

-  di Benedict Carey (la Repubblica, 2.10.2008)

Le teorie psicanalitiche, che nell’attuale era dei farmaci appaiono in crisi, hanno però, dietro l’angolo, la possibilità di una rivincita. Anzi, secondo alcuni esperti, il futuro del lettino è comunque assicurato, perché la "terapia della parola" conferma la sua efficacia contro alcune malattie mentali. Lo sostengono gli autori di uno studio pubblicato sul Journal of the American Medical Association. L’articolo è il primo a parlare in questi termini della psicoanalisi e a essere pubblicato su una delle più importanti riviste scientifiche: l’aspetto interessante è che gli studi sui quali esso si basa non erano noti ai medici. Questo settore ha resistito all’indagine scientifica per molti anni, in considerazione del fatto che il processo della terapia è molto individualizzato e di conseguenza non si presta di per sé a un simile studio. La premessa fondamentale è l’idea di Freud che i sintomi affondino le loro radici in conflitti psicologici latenti, spesso presenti da lungo tempo, che possono essere portati alla luce in parte tramite un esame approfondito durante il rapporto terapeuta-paziente.

Gli esperti nondimeno mettono in guardia dal rischio di dare un peso eccessivo alle conclusioni illustrate nell’articolo, ancora insufficienti a loro parere per affermare la superiorità della terapia psicoanalitica rispetto ad altre, quali la terapia cognitiva comportamentale o un approccio a più breve termine. Secondo loro, infatti, gli studi sui quali si basa la ricerca non sono sufficienti. «Questo studio però contraddice di sicuro il concetto che la terapia cognitiva o qualche altro trattamento a breve termine siano migliori» ha detto Bruce E. Wampold, presidente del dipartimento di consulenza psicologica dell’università del Wisconsin. «Quando è ben praticata, la terapia psicodinamica per alcuni pazienti si dimostra valida come qualsiasi altra e questo mi sembra determinante per una terapia intensiva simile».

Gli autori della ricerca - il dottor Falk Leichsenring dell’università di Giessen e Sven Rabung dell’University Medical Center Hamburg-Eppendorf, entrambi in Germania - hanno analizzato i casi nei quali la terapia prevedeva incontri frequenti (più di una seduta alla settimana) e durasse da almeno un anno o che durasse da almeno 50 sedute. I ricercatori hanno quindi analizzato studi che avevano seguito pazienti affetti da una molteplicità di problemi mentali, tra i quali la depressione grave, l’anoressia nervosa, i disturbi della personalità borderline, caratterizzata dalla paura dell’abbandono e da cupi accessi e grida di disperazione e disagio. La terapia psicodinamica - ha spiegato Leichsenring in un messaggio di posta elettronica - "ha dato esiti significativi, considerevoli e stabili, che sono oltretutto significativamente aumentati tra la fine delle sedute vere e proprio e gli incontri di controllo successivi".

Dall’analisi della ricerca non è emersa una correlazione diretta tra i miglioramenti del paziente e la durata del trattamento, ma il miglioramento è stato in ogni caso accertato e gli psichiatri hanno detto che era chiaro che i pazienti con problemi emotivi gravi e cronici avessero tratto vantaggio dall’attenzione costante e frequente dedicata loro dallo psicoanalista.

«Se a grandi linee definiamo personalità borderline quella che preclude di regolare le proprie emozioni, questa caratterizza moltissime persone che si presentano negli ambulatori medici, anche se la loro diagnosi è di depressione, di bipolarismo in età pediatrica o di abuso di sostanze stupefacenti» ha detto il dottor Andrew J. Gerber, psichiatra della Columbia. Per alcuni di questi pazienti, ha proseguito Gerber, "dall’articolo si evince che se si vuol far sì che i miglioramenti durino nel tempo occorre impegnarsi in una terapia a lungo termine".

Barbara L. Milroad, professoressa di psichiatria al Weill Cornell Medical College, che pratica come Gerber la terapia psicodinamica, ritiene di importanza fondamentale procedere a ulteriori studi per garantire la sopravvivenza di una terapia così valida. «Cerchiamo di essere concreti» ha detto Milroad. «Molti grandi centri medici hanno chiuso i programmi di tirocinio in terapia psicodinamica perché non c’erano adeguati riscontri sulla sua efficacia».

c.2008 New York Times News Service (Traduzione di Anna Bissanti)


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